sabato 29 settembre 2012

Ma che musica, Magistero!





di Franciscus Pentagrammuli

 Sabato 6 Ottobre avrà luogo a Verona il secondo Colloquio nazionale sulla musica sacra, che avrà fra i relatori anche il Cardinal Burke (che nel pomeriggio canterà la Messa pontificale nella locale chiesa dei Padri Filippini), e monsignor Nicola Bux, noto per la sua attività di divulgazione liturgica a sostegno della linea del Papa Benedetto XVI.

Nell'attesa dell’evento, vogliamo proporre anche noi, pur entro i nostri ristretti limiti, una riflessione sulla musica sacra. Siamo abituati a vedere come nelle nostre chiese (o nella maggior parte di esse) la musica venga trattata in maniera utilitaristica e basandosi soprattutto sui gusti (veri o presunti) del“pubblico” per la scelta del repertorio da eseguire nei sacri riti.

Probabilmente, molti dei direttori di coro, degli “animatori liturgici”, dei cantori o chitarristi, e forse degli organisti stessi ignorano che la Chiesa, nella persona dei Romani Pontefici, si è ripetutamente espressa circa la musica sacra: esiste quindi un vero e proprio“magistero sulla musica sacra”.

 Le sue radici affondano nei primi secoli, già san Paolo ne scrisse, e possiamo credere che ne parlò, e così san Gregorio Magno, che addirittura riformò e consolidò la musica dei riti romani…fino ai testi di Benedetto XIV, che ponevano l’accento sulla necessaria dignità della musica rituale cattolica e, finalmente, al grande Motu proprio di san Pio X: l’Inter Sollicitudines (sostanzialmente confermato da Pio XII, dal Concilio Vaticano II, e da Giovanni Paolo II).

In esso il santo Pontefice definì esplicitamente, e con rigore degno di colui che promulgò il Catechismo e diede inizio alla redazione del Codex Juris Canonici, quali sono i caratteri necessari, indispensabili, della musica sacra: “[Essa] deve […] possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità e la bontà delle forme, onde sorge spontaneo l’altro suo carattere, che è l’universalità.”
 E spiega: “Deve essere santa, e quindi escludere ogni profanità”, “Deve essere arte vera, non essendo possibile che altrimenti abbia sull'animo di chi l’ascolta quell'efficacia, che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni”. “Ma dovrà insieme essere universale in questo senso, che pur concedendosi ad ogni nazione di ammettere nelle composizioni chiesastiche quelle forme particolari che costituiscono in certo modo il carattere specifico della musica loro propria, queste però devono essere in tal maniera subordinate ai caratteri generali della musica sacra, che nessuno di altra nazione all'udirle debba provarne impressione non buona”.
 Stabilisce poi “la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell'andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto meno è degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme”. Ecco quindi che, guidati dal “Dolce Cristo in terra”, scopriamo dover possedere la musica sacra delle caratteristiche oggettive, non dipendenti dal gusto o dalla preparazione del clero, dei musicisti, dell’assemblea..

 Rivolgiamoci dunque al Doctor Communis, san Tommaso d’Aquino, per trovare la ragione di tale oggettività persino in materia estetica: egli, trattando dell’ente, riconosce come esso possa essere significato sotto diversi aspetti, i trascendentali: unum (uno), bonum (buono), verum (vero)*.
Quanto a ciò che più ci interessa, il bello (pulchrum), Tommaso lo pone quale trascendentale sulla linea del bonum: è infatti il buono, ma non in quanto oggetto del desiderio, bensì in quanto oggetto di apprezzamento da parte dell’intelletto: “Bonum laudatur ut pulchrum”dice citando Dionigi.
Esso è in qualche modo la sintesi di tutti i trascendentali, è il bene riconosciuto e il vero desiderato, e vi è quindi un fondamento metafisico, oggettivo, della bellezza, la quale sarà presente, per analogia, nei soggetti reali. In essi, il Dottore Angelico riconosce quali caratteri di ciò che è bello i seguenti tre: la debita proporzione (delle parti fra di loro, e della materia alla forma), l’integrità e la chiarezza o splendore (secondo la disposizione e secondo il colore, oggi potremmo dire nitidezza). Essendo poi la forma a dare anche il fine alla materia, ecco che si avrà un ultimo carattere necessario alla bellezza: l’adeguazione allo scopo dell’oggetto (qua ci ricordiamo delle parole di san Pio X).

 Ultimamente, vediamo come i Papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI abbiano più volte parlato della via pulchritudinis, indicando la bellezza quale mezzo per la nuova evangelizzazione; di più, diciamo noi: essa è il mezzo precipuo per la nuova evangelizzazione ai nostri giorni! Sappiamo infatti come la cultura diffusa abbia abbandonato al relativismo il vero, quindi il buono, col successivo rifiuto delle scienza metafisiche e morali, e non sono mancati attacchi anche violenti al bello. Sono stati dunque minati tutti i caratteri ontologici della verità, dell’essere (vorremmo scrivere Verità ed Essere!). Ma resta ancora al bello una forza particolare, una ancor viva capacità di prendere dolcemente l’anima dell’uomo e condurla con sé. Come possiamo non riconoscere come il bello possa guidare l’uomo a riscoprire le altre proprietà “divine” dell’ente: il vero e il buono (e non ci siamo dimenticati dell’uno, minacciato oggi dalle teorie della società e della persona liquide)?

Ecco dunque che un’arte (e, nel nostro particolare interesse, una musica) sacra veramente bella sia oggi quanto mai prima necessaria al bene delle anime, e sia quindi un dovere eminente della Chiesa restaurare la Bellezza nei suoi sacri riti e nella vita cristiana: questo colloquio veronese può essere un buon passo sulla strada di questa santa opera.


 Campari e De Maistre 29 settembre 2012

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