giovedì 13 settembre 2012

Antropocentrismo cristologico e filosofia religiosa immanentistica

 

 

 




«Oggi un certo umanesimo teologico tende ad accentuare l’ elemento umano di Cristo, la sua autonomia e la sua coscienza fino all’affermazione di un Io umano, che richiama evidentemente la mentalità antiochena, di cui fu vittima Nestorio»(1) .
Così il cardinale Pietro Parente si lamentava già più di sessant’anni fa intravedendo a quali sviluppi dottrinari sarebbe giunta la cosiddetta “svolta antropologica”. «Da simili cristologie [di Rahner, Hulsbosch, Schillebeeck, Schoonenberg, Duquoc, Muhen, Küng, Bouyer] - egli scrive - l’immagine di Gesù Uomo-Dio esce talmente manipolata da aggravare il problema, già per sé arduo, dell’identità di Nostro Signore. Se ne esalta l’Umanità, ma in genere se ne compromette seriamente la Divinità, ricadendo in vecchi errori già condannati dalla Chiesa (Arianesimo, Nestorianesimo, Monofisismo…)»(2).

Il sociologismo, il culturalismo e tutte quelle correnti di pensiero che fanno del cristianesimo in se stesso ora un semplice messaggio di giustizia sociale, ora una radice culturale di chissà quale continente o paese hanno tutte per denominatore comune il richiamo, per loro fondante, al principio d’ immanenza per cui in generale l’ annuncio stesso di Cristo è visto e talora vissuto come un prodotto SIC ET SEMPLICITER dell’ uomo che nelle sue pur finite potenzialità pretende di riporre la stessa speranza di salvezza. E se le eresie dei primi secoli si muovevano spinte dagli influssi del neo-platonismo pagano e da elementi giudaizzanti, non si può nascondere la derivazione necessaria delle ricadute moderne in quegli stessi errori blasfemi dai presupposti di fondo di quell’ antropocentrismo intrinsecamente ateo in cui, ammesso o non ammesso Dio esplicitamente, ciò nondimeno è l’uomo il fine di tutto finanche dell’ Onnipotente. Proprio come se Dio, non a caso spinozianamente, non potesse esistere senza il mondo e in particolar modo senza l’uomo idealisticamente inteso come quell’essere che solo perché razionale si fa contraddittoriamente fondamento ontologico di sé stesso e che «originariamente, ossia senza la sua attività, è assolutamente nulla: deve farsi da sé con la sua attività ciò che deve diventare»(3) per cui «…se l’essenza divina non fosse l’essenza dell’ uomo e della natura, allora sarebbe certamente un’essenza che non sarebbe nulla…»(4) . Un criptoateismo(5), dunque, dove pur non volendo forse all’inizio antropomorfizzare Dio si è cercato di divinizzare l’uomo al punto da fare alla fine di Dio stesso proprio «un idolo da loro scolpito» (Is 45,20), completamente soggetto alla contingenza, alla finitezza, tanto che, specialmente per quel che riguarda l’hegelismo e i suoi derivati teologici, « in questa immanenza, ormai è chiaro, se dal punto di vista formale il finito è nell’Infinito dal punto di vista reale è l’Infinito che è e circola e si attua nel finito …e l’Uno non si manifesta che nei e mediante i molti»(6) . Pertanto «la natura, la storia, l’umanità non sarebbero altro che i momenti decisivi della manifestazione dell’ Assoluto nella coscienza di sè»(7) in cui addirittura è alla medesima autocoscienza umana per sé stessa e non a Cristo Gesù vero Dio e vero Uomo a cui si assegna profanamente “il disegno di ricapitolare in sé tutte le cose”, dove «nella forma dell’Io penso è nello stesso tempo il mondo e Dio, il fenomeno e il noumeno, il soggetto e l’ oggetto»(8) . E’ da questo criptoateismo, da questo ateismo virtuale del principio d’immanenza, per dirla ancora con Fabro, e dalla conseguente filosofia religiosa, che sorgono e si sviluppano quelle rivisitazioni del cristianesimo che fanno di Gesù un semplice profeta o addirittura uno pseudo-mistico d’Oriente con un rapporto certo particolare con Dio ma che non va al di là di una inabitazione della virtù divina in Gesù come in un tempio, al modo di un contatto morale inteso in senso adozionista come συναφϑείς τη σοφία ossia “congiunto con la sapienza”, terminologia questa che nei primi secoli dell’era cristiana passò da Paolo di Samosata a Teodoro Mopsuesteno e infine a Nestorio e ai suoi discepoli, i quali nella teoria dei due soggetti o due Figli camuffando il dualismo ipostatico in Cristo con la maschera di una personalità giuridico-morale (il prosopo di unione) accoglieranno l’ eredità concettuale e dottrinaria dello stesso samosateno e della scuola antiochena ad eccezione di San Giovanni Crisostomo.

E non poteva essere altrimenti in un sistema come quello hegeliano e idealistico in cui non c’è spazio per una rivelazione trascendente in quanto nulla può essere in essa tale e tutto immanentisticamente si rivela nella compiutezza stessa dell’ autocoscienza umana e ad essa appartiene, per cui, citando Mazzini, l’Umanità in se stessa è l’ unico profeta di Dio e Gesù Cristo non può non essere, per questa corrente di pensiero, che un individuo umano tra i tanti, seppur con una sua privilegiata quanto limitata esperienza del divino. Si veda già quanto afferma l’olandese Hulsbosch, sedotto da Teilhard de Chardin che nega manifestamente per diretta applicazione del principio d’ ìimmanenza la divinità di Nostro Signore, il quale attinge, per lui, il divino, a stento ospitando in sé la Sapienza Divina, divenendo una semplice manifestazione di Dio che non fa altro che sintetizzare quella comune di tutte le altre creature al loro modo finito e limitato. Ecco come si esprime Hulsbosch: «Come uomo visibile Cristo è l’immagine di Dio invisibile. Posso chiamare Cristo creatura e allora dico che Egli è uomo; posso chiamare Cristo rivelazione di Dio e allora dico che è Dio»(9). Proprio come la manifestazione dello Spirito Assoluto in Hegel, «con un doppio movimento [nientificante!], quello di “svolgere” Dio dall’interno dell’ immanenza della coscienza umana e quello di elevare o collocare la medesima coscienza umana all’interno della manifestazione di Dio»(10) in cui Gesù non fa altro che inserirsi pienamente, come afferma anche l’altro teologo novello Schillebeeckx, col suo essere uomo quasi cosmico, culminante manifestazione di Dio nella creazione universale e semplicemente a livello di questa, per cui Dio si comunicherebbe all’uomo Gesù come Logo, ripudiando ad un tempo la formola calcedoniense Una Persona in due nature e ricadendo così in un indifendibile nestorianesimo, compromettendo la vera Divinità di Cristo(11).
E’ evidente pertanto che l’immanentismo teologico - notare l’ irriducibile ossimoro - dei nostri giorni, a differenza di quelle prime eresie che pur si sviluppavano sulla scia di esigenze comunque prettamente teologiche, si fonda invece sull’umanesimo virtualmente ateo della filosofia moderna di cui abbiam parlato sopra; e tocca l’apice non solo nella sua versione antropocentrica della Cristologia ma anche parallelamente in quel sociologismo pastorale e psicologismo, che fa coerentemente affermare al principe, possiamo dire, della cosiddetta “svolta antropologica”, Karl Rahner, che «non si dà nessuna teologia, speculativa o pratica, che non sia antropologia»(12). E questa deriva la si può cogliere, da parte sua ancor più chiaramente soprattutto nell’ opera di Huns Küng che segna così il punto d’ arrivo di quel processo (culturale) - da Teilhard de Chardin e Rahner a Hulsbosch a Schooneberg a Schillebeeckx, ecc. - di “sdivinizzazione”, per quanto illusorio, di Cristo e per conseguenza di “desacralizzazione” della sua Chiesa, e nel quale è proprio la Cristologia a risultare la disciplina teologica fino in fondo più massacrata. D’ispirazione hegeliana, Küng è convinto, secondo le norme del più assurdo storicismo idealistico, che i dogmi del Magistero infallibile della Chiesa sono una interpretazione ellenistica dei dati biblici e che vanno reinterpretati via via secondo le esigenze della evoluzione culturale. Conseguentemente, non solo va negato il dogma dell’Infallibilità petrina ma per Küng va assolutamente oltrepassata la stessa formola trinitaria di Nicea e quella cristologica dell’ unione ipostatica del Concilio di Calcedonia, e questo proprio perché – come nota il card. Parente - è una espressione metafisica che porta a pensare, correttamente diremmo noi, che Cristo sia il Verbo Figlio, seconda Persona della Trinità, incarnata in una natura anipostatica, priva della personalità: dottrina questa che invece nell’ottica di Kung, identica a quella di Bultmann, viene accusata di essere inficiata da sovrastrutture mitologiche quali sono i miracoli e gli attributi soprannaturali come Figlio di Dio, Verbo eterno, Messia, e che pertanto non è più proponibile, secondo lo stesso teologo tedesco, ai nostri giorni specialmente a motivo della pretesa evoluzione del genere umano. Per lui, come sottolinea ancora Parente, Gesù quindi è e deve essere considerato soltanto «un uomo, un ebreo che nell’ ambiente giudaico ha maturato una forte esperienza di Dio come salvezza degli uomini…»(13). Pertanto Gesù è diventato in Kung un semplice Rappresentante di Dio e quasi avvocato della sua causa(14). E la conclusione ereticale di questa dottrina, possiamo notare, poggia tutta su quel principio d’immanenza che giunge all’ esplicitazione di un conseguente relativismo protagoreo, che come ogni altro tipo di relativismo si distrugge da sé una volta posto, che nega se stesso una volta affermato, risultando pertanto addirittura non-proponibile nella sua riduzione ad una affermazione auto-referenziale e perciò auto-contraddittoria: una affermazione non-affermabile, un pronunciamento impronunciabile, perché se lo fosse, sarebbe affermabile e pronunciabile all’ infinito, cioè mai. Così, se tutto è relativo alla sua particolare epoca storica perché dovremmo prendere per metastorica e cioè valida anche per le culture non presenti questa stessa opinione? Perché quello che Küng dice, e cioè che l’affermazione per cui «ogni affermazione dipende intrinsecamente dal contesto storico in cui viene formulata», vale indipendentemente dallo scorrere del tempo mentre sostiene che tutto invece ne dipende? E se pretende di dire che appunto «tutto tranne questa affermazione è relativa», questa stessa affermazione che si fa soggetto di se stessa è proprio per questo ancora più assurda, ad un medesimo istante è infatti «ciò su cui si predica» e «predicazione stessa»(15). E ciò che più inquieta è la pretesa assurda di fare dell’ uomo Dio e più in generale idealisticamente del finito l’Infinito, in netto contrasto con le immediate evidenze del senso comune, nelle quali si riflettono i principi primi dell’ essere e quindi del pensiero. Eppure aldilà della questione meramente filosofica e della “confutazione sofistica” che svela del resto l’ infondatezza e insensatezza del presupposto teoretico da cui parte Küng, non possono non interessare, come già mostrato, gli esiti catastrofici, in special modo per quel che concerne la Cristologia, che ha prodotto l’ accettazione indiscriminata proprio di questo umanesimo ateo e protagoreo, o criptoateismo di matrice idealistica, da parte di alcuni ambienti sedicenti cattolici che alla fine si sono talmente concentrati sul problema dell’ evangelizzazione da dimenticare l’Evangelo stesso, si sono talmente applicati a dover portare gli uomini a Cristo che hanno dimenticato di portare Cristo- quello vero, della storia, della fede, del Magistero petrino, della teologia- agli uomini, non potendo non rischiare di scadere, sia pur talora inconsapevolmente e confusamente, in quel medesimo «progetto di una religione universale a carattere etico (laWelthethik)»(16) tipico dello stesso Küng e paradossalmente «epocando», verrebbe da dire husserlianamente, così facendo, dall’ autentico dato rivelato che ci rivela ad un tempo l'umanità e la divinità della medesima Persona di Cristo Signore nella irripetibile e imprescindibile unità del suo essere, e non rivolgendosi più alla metafisica dell’ essere per averne una corretta sia pur limitata chiave di lettura, sembrano di volta in volta dimenticarsi che di «Gesù Cristo, Uomo-Dio [...] una Persona, un Io, che vive due vite, perché sussiste e opera in due nature, con due volontà e si sente attraverso due coscienze, umanamente e divinamente»(17) vive non solo la teologia, ma la stessa pietà e arte cristiana, vive la stessa fede cattolica e «sotto il cielo mai risuonò un Io più tremendo e più dolce di questo, che freme dell’ onnipotenza divina e vibra di tutto l’ umano dolore»(18).

 

 

 

 

Mario Padovano

 

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