martedì 25 settembre 2012

Conservatori? No, autentici progressisti









Antonio Ucciardo

Siamo alla vigilia dell'Anno della Fede. Ad essere onesti, pare che l'attenzione dei media sia concentrata più sul Cinquantesimo del Vaticano II che sull'anno indetto da Benedetto XVI. I due eventi sono in correlazione, ma la memoria del Concilio fornisce l'occasione per imprimere nuovo slancio alla necessaria opera della nuova evangelizzazione. La quale - giova richiamarlo - altro non è se non la riproposta della fede a cattolici immersi nella secolarizzazione e dall'identità offuscata. Non c'è da essere allegri, se si considera il paradosso del dover annunziare nuovamente il vangelo a cristiani. Si comprende bene la radicale differenza tra l'annuncio costante della fede, che caratterizza la missione della Chiesa, e questo dover ridire Cristo nell'attuale contesto. E tuttavia c'è da essere ottimisti, sapendo che questa indispensabile ri-evangelizzazione è segno dell'incessante azione dello Spirito Santo. Il rapporto dialettico tra l'ultimo Concilio e l'Anno della Fede è racchiuso in quella propositività che si può riscontare, per esempio, nelle parole del Papa ai vescovi di recente nomina: "Il Beato Giovanni XXIII, aprendo la grande assise del Vaticano II prospettava «un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale ed una formazione delle coscienze», e per questo - aggiungeva - «è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo» (Discorso di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962). Potremmo dire che la nuova evangelizzazione è iniziata proprio con il Concilio, che il Beato Giovanni XXIII vedeva come una nuova Pentecoste che avrebbe fatto fiorire la Chiesa nella sua interiore ricchezza e nel suo estendersi maternamente verso tutti i campi dell'umana attività" (Benedetto XVI, 20 settembre 2012).

Penetrazione dottrinale e formazione delle coscienze! Ed insieme l'esigenza di approfondire e presentare la dottrina certa ed immutabile. I due elementi non sono in contrasto. Il balzo è stato fatto e i frutti di grazia sono evidenti in aspetti molteplici della vita e della testimonianza cristiana. E, tuttavia, non mancano i problemi. Spesso si pensa, con evangelica semplicità, che la presenza di aspetti contrastanti sia dovuta al fisiologico assestamento di un Concilio nella vita della Chiesa. Il paragone con il sinodo tridentino viene rilanciato ad ogni piè sospinto quando si tratta di indagare sulle ragioni di una stagione tanto conflittuale. Forse è necessario che alla semplicità, sempre apprezzabile, si accosti anche la prudenza, anch'essa di chiara impronta evangelica (cf. Mt 10,16). Possiamo certamente fidarci, se non altro, di Paolo VI, l'osannato Papa del Concilio. Le sue mirabili catechesi sul Concilio, i suoi ripetuti interventi contro interpretazioni errate, la sua lucida denuncia del passaggio dal culto di Dio alla religione dell'uomo, appaiono determinanti nel tentativo di comprensione del fenomeno che oggi viviamo, e che Mons. Müller, neo-prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha così descritto: "'In molti Paesi e' forte la polarizzazione, il contrasto, tra cosiddetti tradizionalisti e cosiddetti progressisti. Dobbiamo superare questa opposizione, dobbiamo trovare una nuova unita' di fondo nella Chiesa'' (intervista alla Radio Vaticana, 19 settembre 2012). Qualche recensore ha sostituito il termine tradizionalisti con quello di conservatori, probabilmente di diverso effetto mediatico. Un'intervista non è certamente il modo migliore per poter comprendere fino in fondo un ragionamento, ma l'osservazione di Mons. Muller è suffragata dall'evidenza.

Ora, a questa ovvia considerazione, noi possiamo applicare un tentativo di lettura che ha la capacità di circoscrivere il fenomeno a quanto ci interessa, vale a dire i problemi concreti sorti in questi ultimi decenni:

"Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti.

Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare "ermeneutica della discontinuità e della rottura"; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'"ermeneutica della riforma", del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.

L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito" (Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005).

Mi permetto di citare quanto ho avuto modo di esporre in una conferenza dello scorso anno:

"Coloro che si sono fatti assertori della cosiddetta ermeneutica della discontinuità, hanno recepito un concetto di progresso totalmente statico. E' questo, a mio modo di vedere, l'estremo paradosso della loro posizione. Essi hanno guadagnato un consenso sempre più vasto con la corsa parallela della nostra società verso un concetto statico di progresso. Quest'affermazione può apparire una contraddizione in terminis, ma di fatto quel che viene presentato quale progresso, risulta totalmente privo di slancio. Pensiamo al relativismo e ai suoi asserti di fondo, come pure alla cosiddetta società liquida. Se ad imporsi è soltanto l'io e le sue voglie - per citare una celebre espressione del Card. Ratzinger - il futuro, comunque lo si immagini, perde del tutto il suo carattere di trascendenza. A livello di fede, la caratterizzazione escatologica del cristianesimo viene dissolta nell' immanentismo. Si pensa che la tradizione sia sinonimo di fissità, e non ci si avvede che il proprio pensiero risulta incapace di trascendersi. Questo non è un dato assolutamente marginale. Quel che può apparire un progresso, fondato sullo slancio propositivo verso qualcosa che si distacca dalla tradizione, appare in realtà come un salto nel vuoto. Non si tratta, in ultima analisi, di un rifiuto del passato, di forme determinate di vita cristiana e di espressione della fede, bensì di un autentico ripudio della Verità. Bisogna chiedersi, infatti, cosa abbia consentito la coesione di epoche tanto diverse, cosa l'omogeneità di venti secoli e cosa la coesistenza della sostanza fondo con le sue variegate espressioni. Quando si ha un ripudio della Tradizione, normalmente non si rifiuta questo o quel secolo, questa o quella scuola teologica, questo o quel Concilio. Si procede alla rimozione di un unico blocco, genericamente detto Tradizione. Si salvano soltanto i primi secoli, e non sempre nel loro sviluppo coerente, in quanto ritenuti prossimi all'evento fondatore e non ancora adulterati dagli sviluppi successivi. Cosa, dunque, ha garantito la coesione di venti secoli di cristianesimo? La Verità. Per essere più concreti: la convinzione delle generazioni cristiane di dover conservare e trasmettere la Verità. Se non si vuol credere alle verità trasmesse, bisogna almeno riconoscere che questo compito è stato vissuto da uomini diversi e lontani nel tempo come il solo vincolo di comunione tra di loro. In uno dei Sermoni all'Università di Oxford, il beato John Henry Newman scrive questa considerazione: "La verità è rimasta salda nel mondo non per virtù di un sistema, non grazie a libri od argomentazioni, non per merito del potere temporale, ma grazie all'influenza personale di uomini come quelli che vi ho ricordato, uomini che ne sono in pari tempo i maestri e i modelli (...) Essi (i santi, ndr) sono quanti bastano per continuare nel tempo la silenziosa opera di Dio. Tali furono gli Apostoli; altri potrebbero essere ricordati, fra quanti, di generazione in generazione, succedettero loro in santità.Essi comunicano la loro luce a un gran numero di fiaccole minori, che la distribuiscono a loro volta nel mondo intero, mentre le prime fonti luminose rimangono invisibili, persino alla maggior parte dei cristiani sinceri - invisibili come il supremo Autore della Luce e della Verità, sorgente prima di ogni bene. Pochi uomini altamente dotati salveranno il mondo per i secoli a venire (...) Tali uomini sono, come il profeta, sentinelle sulla torre, e accendono i loro fanali sulle alture. Ciascuno di essi riceve e trasmette la fiamma sacra, gareggiando nello zelo con i suoi predecessori, per ritrasmetterne la luce brillante quanto era giunta a lui. In tal modo è lo stesso fuoco, acceso un giorno sul Monte Moria - ma poi quante volte sembrato sul punto di spegnersi - che è giunto acceso fino a noi, e sarà ugualmente tramandato, ne siamo certi, fino alla fine dei secoli" (J. H. NEWMAN, Il contagio personale della verità, in Sermoni su temi di attualità. Sermoni all'Università di Oxford, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2004, nn. 26. 35, pp. 496. 500).

Su cosa fondano i fautori della discontinuità le loro argomentazioni? Fatto salvo il principio del rifiuto della Tradizione, cosa rende omogenee le loro idee? Quale scuola di pensiero, quale esegesi, quale utilizzo delle fonti, può consentire al loro sforzo di essere trasmesso come una sola realtà facilmente individuabile e, per ciò stesso, capace di conservarsi nel tempo? Questo è il vizio di fondo del pensiero che oggi guarda con indifferenza al passato. Questo è il paradosso: che si parli di Cristo, dello Spirito e della verità, e che non si riconosca alcuna valenza alle parole del Signore: " “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità” (Gv 16,13). Se questa guida è stata soffocata nel corso della storia o, peggio ancora, se essa è cominciata soltanto nel 1962, siamo davvero da compiangere più di tutti gli uomini (cfr. 1 Cor 15, 19)".

Non si tratta, quindi, di tradizionalisti e di progressisiti. Solo impropriamente, e per comodità, si può fare ricorso a questi termini esemplificativi. Sappiamo bene come alcuni cosiddetti tradizionalisti rifiutino in gran parte alcuni testi del Vaticano II. Non è corretto considerare tali anche i tanti cattolici che riconoscono quale magistero autentico quello del Concilio ed intendono interpretarlo alla luce dell'autentica Tradizione, sotto la guida del Successore di Pietro. Bisogna anche considerare che sovente questi cattolici sono stati definiti tradizionalisti da quanti hanno scelto di far propria la logica contrapposta. Le due ermeneutiche richiamate dal Papa costituiscono, a tutt'oggi, il solo, serio tentativo di porre un argine alla conflittualità.

Se dobbiamo considerare le logiche in campo secondo le categorie scelte da mons. Müller, allora dobbiamo decisamente riconoscerci tra i conservatori, ma nel senso in cui il termine è consegnato alla fede dei credenti dalla Rivelazione divina. Si tratta infatti di conservare, o meglio di custodire, il dono della fede, secondo la raccomandazione di S. Paolo a Timoteo: "Ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo" (1 Tm 6, 14. Cf anche v. 20, e 2 Tm 1,14). Ai Corinzi viene invece rivolta questa raccomandazione: "Vi proclamo poi, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l'ho annunciato" (2 Cor 15, 1-2). Conservare e trasmettere, dunque, quanto Cristo ha affidato agli Apostoli. Non c'è conservazione che non sia originata dalla trasmissione e che non diventi traditio essa stessa. E non c'è trasmissione che non sia anche una crescita nella compensione, come ricorda proprio il Concilio Vaticano II: "“Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo.” (Costituzione dogmatica Dei Verbum, 8). Il greco paratheke ( il deposito di 1 Tm 6, 20) contiene già l'idea stesa del movimento. Dio non si è manifestato perchè la sua Rivelazione rimanesse inerte o divenisse oggetto di contemplazione da parte di iniziati. La Tradizione è la garanzia migliore che il cristianesimo non è speculazione di intelletti sapienti, bensì dono di Dio.

Il balzo del Concilio non era che questa rinnovata comprensione dell'unico vangelo affidato alla Chiesa. Uno scatto di identità, potremmo dire con linguaggio mutuato da altri ambiti. I tempi apparivano maturi per presentare ad un mondo in evoluzione crescente la sapienza del Vangelo e per ridestare nei membri della Chiesa uno slancio che consentisse, con rinnovata consapevolezza, di essere luce e sale. Dove si è agito con questo spirito - il solo spirito del Concilio- i frutti sono stati evidenti. Dove a questo spirito si è sostituita l'elaborazione del cosiddetto spirito del Concilio, abbiamo avuto gli effetti contrari, specialmente nella pratica pastorale e nella dissociazione tra il pensiero ispirato alla fede e la vita. Non è compito nostro dire come e quando questo presunto spirito sia stato elaborato e come sia divenuto dominante. Non mancano autorevoli tentativi in tal senso. Noi possiamo prendere atto dei ripetuti interventi dei Papi, puntualmente disattesi da quanti hanno sostituito il proprio pensiero a qualsiasi altra norma. Così il progresso, sganciato dalla Tradizione, è divenuto un idolo. Facendo nostre le parole di Joseph Ratzinger, possiamo dire che "avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni" (Omelia della Messa Pro eligendo Romano Pontifice, 18 aprile 2005). Non più il necessario confronto con la modernità, bensì l'assunzione delle sue categorie per interpretare i dati della Rivelazione. Non più l'offerta della verità, ma la ricerca di vie per giungere alla verità. Non più un Dio che assume la debolezza dell'uomo per redimerla, ma piuttosto un uomo che ha nella sua debolezza intellettuale, morale e spirituale, lo "strumento" della salvezza. Spesso si è rivestita di citazioni scritturistiche e di pensieri teologici l'assurda pretesa che il mondo ha di potersi salvare da sè. Altre volte si ha l'impressione, invece, che si ricerchino nel dialogo con il mondo i motivi di plausibilità della fede, come se si provasse vergogna per ciò che si custodisce; come se si dovesse in qualche modo giustificare il fatto che esistano dei cristiani. Una volta la fede generava cultura. Oggi una pseudocultura finisce per modificare anche la visione che deriva dalla fede.

Questo è il pensiero che si è affermato in misura sempre più crescente e che ha finito di condizionare tanto l'evangelizzazione quanto la pastorale. In maniera paradossale, coloro che pretendevano di poter finalmente sganciarsi dal "dogmatismo" rimproverato alla Chiesa, hanno finito per crearne uno che non ammette nessuna apertura a quanto è considerato in opposizione al presunto spirito del Concilio. Essi sanno di cosa ha bisogno il popolo di Dio. Non hanno bisogno di maestri, e neppure di pastori, perchè la Chiesa che essi vagheggiano non è più un mistero di fede, ma una creazione della loro capacità di programmazione e di risposta alle richieste del mondo. Non è affatto un caso che a risentire di questi "venti" sia innanzitutto la liturgia. Una comunità che si appalude, è l'esatta misura di ciò che stiamo vivendo!

Dobbiamo chiederci, tuttavia, se per caso il Vaticano II non abbia effettivamente voluto questo progresso, che somiglia più ad un salto con l'asta che ad un balzo. Ora, il presunto spirito del Concilio non si fonda sui documenti, ma sulle intenzioni dei padri, sulla larghezza di vedute del B. Giovanni XXIII, su quello che sarebbe stato lo schema tal dei tali se non fosse intervenuto questo e quest'altro. Quando si citano i documenti è soltanto per attribuire ad essi il proprio pensiero, senza riferimento alcuno al contesto, alla genesi, all'insieme del magistero di cui vogliono essere espressione. Mi è capitato, per esempio, di leggere un breve commento ad un testo della Dichiarazione Dignitatis humanae di Paolo Gamberini. Il commento, riportato sul sito Viva il Concilio, riguarda quest'affermazione: "Mite ed umile di cuore, ha attratto pazientemente i discepoli "(DH 11). Questa la spiegazione che viene fornita: "Dio, rivelandosi, non esercita alcuna coercizione né esterna, né interna sull’uomo. Come afferma l’evangelista Giovanni (1,11) «Dio venne tra i suoi». L’umanità non è qualcosa di esterno ed estraneo a Dio, ma appartiene alla Sua stessa identità.

L’umiltà di Gesù manifesta l’humus di Dio, l’«umanità» di Dio. L’humanum non è diminuzione e nemmeno espressione impropria del divinum, ma la sua espressione più adeguata, e trova in Gesù di Nazareth il suo culmine e la sua realizzazione piena. Gesù non impone ma propone; la sua relazione è coinvolgente e (com) muove dal e nell’intimo la creatura. La mitezza e l’umiltà sono il giogo di Gesù e queste attraggono e invitano con pazienza ogni uomo.

Ogni qualvolta la religione preferisce i diritti di Dio a quelli dell’uomo, preferisce l’osservanza della Legge al bene dell’uomo, giustificando anche l’uso della violenza, fisica e psicologica, finisce per violare l’onòre di Dio poiché nega quello dell’uomo. «Il sabato è fatto per l'uomo, non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27). Dio non vuole alcuna marionetta, ma partner liberi di alleanza. La parola e l’agire di Gesù sono intenzionati alla maturità dell’uomo e non alla sua soggezione. L’umiltà di Cristo rivela così come Dio stesso agisce con noi, senza sostituirsi all’umano e senza prenderne il posto, ma mettendosi a nostro servizio".

E' chiaro che alcune affermazioni sono perfettamente condivisibili. Dio non impone, e l'alleanza presuppone creature libere. Alcuni termini, tuttavia, mi hanno lasciato perplesso. Probabilmente una spiegazione più articolata avrebbe indotto l'estensore, gesuita e docente di Cristologia a Napoli, a fondare meglio, soprattutto dal punto di vista esegetico (non è il Concilio che ha riportato la Scrittura al centro dell'attenzione dei teologi?), il suo discorso. Quando cessano i diritti di Dio? Quando cominciano quelli dell'uomo? Chi può determinare quale sia l'estensione dei diritti di Dio? Davvero l'umano è l'espressione più adeguata del divino? Cosa si intende con umano? Ci si riferisce alla concretezza della carne assunta dal Figlio di Dio, alla creazione dell'uomo ad immagine e somiglianza di Dio, o alla semplice evidenza creaturale? E' sufficiente che vi sia un uomo perchè si possa dire di essere alla presenza di Dio? Cos'è la Legge? Si intende la Legge veterotestamentaria, che Cristo non ha abolito, o le norme della Chiesa? Si intendono i comandamenti di Dio o la risposta dell'uomo? Quando termina la pazienza (per nostra fortuna infinita!) e comincia l'attrattiva? Comunque, non ci interessa qui prendere in esame lo scritto, proposto tra l'altro nella rubrica "Perle del Concilio", ma semplicemente considerare se questa lettura corrisponda effettivamente alle "intenzioni" dei padri conciliari. Cosa afferma la Costituzione Dignitatis humanae nel suo proemio (chiave di lettura dell'intero documento) ?: "Anzitutto, il sacro Concilio professa che Dio stesso ha fatto conoscere al genere umano la via attraverso la quale gli uomini, servendolo, possono in Cristo trovare salvezza e pervenire alla beatitudine. Questa unica vera religione crediamo che sussista nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato la missione di comunicarla a tutti gli uomini, dicendo agli apostoli: « Andate dunque, istruite tutte le genti battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto quello che io vi ho comandato » (Mt 28,19-20). E tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che concerne Dio e la sua Chiesa, e sono tenuti ad aderire alla verità man mano che la conoscono e a rimanerle fedeli.

Il sacro Concilio professa pure che questi doveri attingono e vincolano la coscienza degli uomini, e che la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore. E poiché la libertà religiosa, che gli esseri umani esigono nell'adempiere il dovere di onorare Iddio, riguarda l'immunità dalla coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo. Inoltre il sacro Concilio, trattando di questa libertà religiosa, si propone di sviluppare la dottrina dei sommi Pontefici più recenti intorno ai diritti inviolabili della persona umana e all'ordinamento giuridico della società."

Come si può notare, il Concilio dichiara che tutti gli uomini sono tenuti a cercare la verità e ad aderire ad essa. Dichiara pure che questa verità si impone (verbo decisamente scomodo...) per la forza della verità stessa, "la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore". Se Dio è la Verità, dobbiamo supporre che egli operi attraverso una mozione che è, allo stesso tempo, soave e vigorosa. Da qui deriva che alcuni doveri possano vincolare la coscienza, vale a dire l'intimo della creatura. Dichiara, infine, che esiste un dovere di onorare Dio. Di diritti dell'uomo, almeno qui, non si parla.

Veniamo al testo di DH 11. E' bene riportarlo integralmente: " Dio chiama gli esseri umani al suo servizio in spirito e verità; per cui essi sono vincolati in coscienza a rispondere alla loro vocazione, ma non coartati. Egli, infatti, ha riguardo della dignità della persona umana da lui creata, che deve godere di libertà e agire con responsabilità. Ciò è apparso in grado sommo in Cristo Gesù, nel quale Dio ha manifestato se stesso e le sue vie in modo perfetto. Infatti Cristo, che è Maestro e Signore nostro, mite ed umile di cuore ha invitato e attratto i discepoli pazientemente. Certo, ha sostenuto e confermato la sua predicazione con i miracoli per suscitare e confortare la fede negli uditori, ma senza esercitare su di essi alcuna coercizione. Ha pure rimproverato l'incredulità degli uditori, lasciando però la punizione a Dio nel giorno del giudizio. Mandando gli apostoli nel mondo, disse loro: « Chi avrà creduto e sarà battezzato, sarà salvo. Chi invece non avrà creduto sarà condannato » (Mc 16,16)". Come si vede, il testo non afferma che la non coercizione da parte di Cristo non determini una responsabilità nella creatura. Il testo parla, addirittura, di punizione. Che il Concilio stesso sia anticonciliare?

Chiaramente l'esame esaustivo del testo esula da queste considerazioni. L'esempio rende con sufficiente chiarezza quello che intendo dire. Di simili esempi abbondano i testi elaborati, ad ogni livello, negli ultimi decenni. Il rispetto che si deve alla persona non significa che ci si debba prostrare davanti all'uomo, per quanto egli sia stato creato da Dio e porti in sè un germe di verità. Noi dobbiamo coltivare quel germe, destare l'apertura della mente e del cuore, con il metodo stesso di Dio: dolcezza e vigore. Non si tratta di giudicare o di imporre, come spesso si ripete per giustificare la totale inattività nella proposta della fede. Si tratta di credere che si è, effettivamente, collaboratori di Dio, anche in ordine alla piena realizzazione di quell'umanità che tanto sta a cuore ai progressisti. Questa è l'autentica dottrina del Concilio. E' sufficiente leggere con attenzione e in maniera organica i suoi testi di carattere pastorale.

Non può restare fuori dalle nostre argomentazioni il papa che volle il Vaticano II. Se non fosse stato il Papa dell'aggiornamento, oggi sarebbe guardato con distanza, se non altro per il suo "tradizionalismo". Il suo "Diario dell'anima" sta allo "spirito" del Concilio come Cimabue sta all'astrattismo. Ecco cosa pensava - per stare ai documenti ufficiali e non privati- quel sant'uomo di Giovanni XXIII: "Nell’indire questa grandiosa assemblea, il più recente e umile Successore del Principe degli Apostoli, che vi parla, si è proposto di riaffermare ancora una volta il Magistero Ecclesiastico, che non viene mai meno e perdura sino alla fine dei tempi; Magistero che con questo Concilio si presenta in modo straordinario a tutti gli uomini che sono nel mondo, tenendo conto delle deviazioni, delle esigenze, delle opportunità dell’età contemporanea.

Iniziando questo Concilio universale, il Vicario di Cristo, che vi sta parlando, guarda, com’è naturale, al passato, e quasi ne percepisce la voce incitante e incoraggiante: volentieri infatti ripensa alle benemerenze dei Sommi Pontefici che vissero in tempi più antichi e più recenti, e che dalle assemblee dei Concili, tenuti sia in Oriente che in Occidente dal quarto secolo fino al Medio Evo e agli ultimi tempi, hanno trasmesso le testimonianze di tale voce veneranda e solenne. Esse acclamano senza sosta al trionfo di quella Società umana e divina, cioè della Chiesa, che assume dal Divin Redentore il nome, i doni della grazia e tutto il suo valore.

Se questo è motivo di letizia spirituale, non possiamo tuttavia negare che nella lunga serie di diciannove secoli molti dolori e amarezze hanno oscurato questa storia. Fu ed è veritiero quello che il vecchio Simeone con voce profetica disse a Maria Madre di Gesù: "Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti..., segno di contraddizione". E Gesù stesso, cresciuto in età, indicò chiaramente come nei tempi si sarebbero comportati gli uomini verso di lui, pronunziando quelle misteriose parole: "Chi ascolta voi ascolta me". Questo disse inoltre: "Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde", come vediamo scritto in San Luca, che riferisce anche le espressioni precedenti.

Dopo quasi venti secoli, le situazioni e i problemi gravissimi che l’umanità deve affrontare non mutano; infatti Cristo occupa sempre il posto centrale della storia e della vita: gli uomini o aderiscono a lui e alla sua Chiesa, e godono così della luce, della bontà, del giusto ordine e del bene della pace; oppure vivono senza di lui o combattono contro di lui e restano deliberatamente fuori della Chiesa, e per questo tra loro c’è confusione, le mutue relazioni diventano difficili, incombe il pericolo di guerre sanguinose" (B. Giovanni XXIII, Discorso per l'apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962).

Cos'è la Tradizione? E' il permanere nello sguardo di Cristo, che accompagna la Chiesa da due millenni. Cos'è il progressismo? Il semplice rifiuto di essere guardati da Cristo. Forse non è un caso che Gesù abbia scelto i bambini come immagine dei discepoli. L'autentico progresso scaturisce soltanto dal rimanere là dove lo sguardo può giungere. Dobbiamo poter vedere sempre Cristo quando ci impegniamo a rendere comprensibile il Vangelo alla nostra generazione. Un cristianesimo non "pensato" diventa archeologismo. Un cristianesimo "elaborato" diventa, però, una spiritualizzazione di istanze mondane, una setta di fratelli universali.

Ci piaccia o no, dobbiamo prendere atto che stiamo vivendo, per certi aspetti, quanto Paolo Vi aveva confidato a Jean Guitton: ""Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all'interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non-cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all'interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia".

Voler essere parte del piccolo gregge è propriamente ciò che si definisce spirito di conservazione. Non voler assumere per se stessi il pensiero dominante non significa essere tradizionalisti. Significa, piuttosto, voler essere inseriti in quel progresso di santità e di salvezza che avrà il suo compimento nella visione beatifica di Dio.






http://www.formazioneteologica.it/conservatori-no-autentici-progressisti-480.html





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