
Appunto sulla legge della Regione Toscana sul suicidio assistito. Di Sandro Apa
Di Dalla Rete, 21 Feb 2025
Uno degli opinionisti permanenti del quotidiano del gruppo editoriale Gedi, quello che insegna ai bempensanti come e che cosa essi devono pensare per pensarla bene, plaudendo alla recente legge regionale che di fatto liberalizza il suicidio assistito, tira fuori il consueto campionario di luoghi comuni sulla libertà, compresa quella di farsi uccidere.
A parte il fatto che il pulpito da cui giunge tale predica non pare molto coerente, visto che all’epoca degli obblighi vaccinali non aveva tenuto analoga posizione e si era invece schierato per l’obbligo, bollando come pretestuosa ed esecranda ogni rivendicazione di libertà in tal senso, andrebbe osservato che la libertà di ricorrere al suicidio assistito non è propriamente tale e si fonda su un presupposto falso, smentito anche dal restante ordinamento giuridico italiano.
Intanto va considerato che il diritto alla vita non è un diritto disponibile: a nessuno lo Stato riconosce il diritto di eliminare la vita umana. Il fatto che il codice penale punisca l’omicidio ma non il suicidio non può significare il riconoscimento del diritto di ammazzarsi, e nemmeno dichiara che esso, il suicidio appunto, sia non punibile in sé: esso non è punibile per la semplice considerazione che la morte del colpevole estingue il reato e di conseguenza non può essere punibile l’omicidio di se stessi perché esso provoca la morte del colpevole e la conseguente estinzione del reato, che tale idealmente resta e non diventa un generico atto di disposizione di quel bene, appunto indisponibile, che è la vita.
Se il suicidio fosse un diritto, lo Stato avrebbe il dovere di tutelarlo, se non agevolandolo, almeno impedendo qualunque azione di ostacolo al suo compimento; invece quando qualcuno cerca di darsi la morte, magari gettandosi nel vuoto o ingerendo sostanze venefiche, forze dell’ordine e medici si attivano subito, nel primo caso anche con rischi per la propria incolumità personale e impiego di sconfinata pazienza, per far desistere l’aspirante suicida, o, nel secondo, per salvarlo prima che i veleni facciano effetto.
Quello che invece costituisce l’allarmante novità e lo scardinamento del principio fondamentale della tutela della vita umana, è invece il riconoscimento del suicidio assistito, ossia, di fatto, la depenalizzazione di un tipo di omicidio del consenziente: se uno, dopo essere stato derubato, decide di regalare al ladro il provento del furto, trattandosi di cosa disponibile, fa venir meno, sia pure in un momento successivo, l’illiceità del comportamento. Poiché però la vita umana, come si è dianzi dimostrato, non è un bene disponibile, neppure dal suo titolare (il quale, giova ricordarlo, non ne è il proprietario, ma l’assegnatario, cosa ben diversa, e come tale lo considera la legge, anche quella dello Stato, oltre che quella divina, con buona pace dei laicisti ad oltranza) chi provoca la morte di persona consenziente è comunque punito per omicidio; il consenziente non viene punito per la ragione dianzi esposta, estinguendosi cioè il reato per la sua morte.
Non è vera e non è sostenibile l’argomentazione, fin troppo ripetuta, che “il corpo è mio e ne faccio quello che voglio” (le femministe, meno raffinate, usavano strillare “e me lo gestisco io”, come se si trattasse di un esercizio commerciale): sia perché, come si è già dianzi osservato, il corpo non è un oggetto riconducibile alla proprietà privata (ed è singolare che proprio gente di ispirazione marxista pretendesse per questo aspetto di difendere proprio la proprietà privata!), sia perché analoga argomentazione fu respinta sdegnosamente da quegli stessi che ora la invocano – e lo fu in modo anche sguaiatamente sdegnoso e minaccioso dallo stesso Presidente della Repubblica – quando si sostenne che l’obbiezione di coscienza contro i vaccini non era ammissibile e che costituiva un pretesto per sottrarsi ad un obbligo quanto meno morale, se non sociale. A parte la successiva dimostrazione dell’infondatezza scientifica di quell’obbligo, rimane il quesito se la vita umana sia soggetta alla volontà del titolare oppure no. O lo è a fasi alterne e secondo la convenienza del padrone politico di turno?
Nel campionario di stupidità e luoghi comuni, non può mancare da altre e numerose parti l’invito sdegnoso e scandalizzato di seguire l’esempio dei Paesi più civili di noi: quali sarebbero questi fari di civiltà? I Danesi, per caso? Quelli che risolvono il problema delle malformazioni della popolazione con l’aborto eugenetico (nulla di nuovo, se non nei modi: nell’Ellade già secoli fa esisteva il volo dalla rupe Tarpea)? Gli Svedesi o i Norvegesi, che hanno il più elevato numero di suicidi? Gli Inglesi, che hanno costruito il loro impero sulla predazione sistematica degli altri popoli e la cui gloriosa Marina ebbe origine dalla pirateria (è noto che Francis Drake era un corsaro e che come tale avrebbe dovuto concludere la propria esistenza impiccato ad un pennone, ma la disinvolta sovrana britannica, non riuscendo con le proprie navi a catturarlo, lo nominò Sir e lo pose a capo della Marina: con le attrezzate navi corsare di lui e le modeste navicelle di lei, la regina autorizzò il corsaro a depredare gli altri a favore della corona britannica)? Gli olandesi, che campano di tulipani, droga e prostituzione?
Passando a considerazioni anche più pratiche, ed osservando preliminarmente che la legislazione penale non è materia di competenza regionale e che pertanto una Regione non può depenalizzare quello che è e resta un reato, per la precisione un delitto, solo gli ingenui possono credere alla lacrimosa favoletta del malato gravissimo in condizioni tali da non potersi neppure uccidere da sé: è ovvio che questi casi estremi, per fortuna solo rare eccezioni prese a pretesto per introdurre una regola perversa, sono degne del massimo rispetto e di assoluta comprensione, ma non possono giustificare l’adozione di un principio eversivo: intanto il medico ha il dovere di alleviare come può le sofferenze, ma non può decidere di sopprimere il malato, neppure se questi glielo chiedesse. È certamente giusto non insistere con terapie estreme perché contrarie alla dignità umana e perché il malato non può essere oggetto di sperimentazioni per forzare i naturali meccanismi della vita, che di essa prevedono anche la naturale cessazione. Ma provocare la morte di una persona, anche al solo, soggettivamente ritenuto, buon fine di alleviarle le sofferenze, è e deve restare un delitto, anche per chi non fosse cattolico, perché un tale imperativo è di per se stesso umano e non solo cattolico (se si adottasse il balordo criterio di considerare la legislazione statale del tutto svincolata ed anzi contraria a quella divina in nome della laicità, occorrerebbe di conseguenza depenalizzare almeno anche l’omicidio, il furto, la falsa testimonianza, perché previsti già come peccati dal V, VII e VIII Comandamento: come potrebbe lo Stato laico e democratico copiare le leggi – purtroppo antecedenti alla legislazione repubblicana, democratica, laica ed antifascista nata dalla Resistenza – del Cristianesimo?).
Poi, ed ancora più importante è la considerazione che il restringere ad un limitato numero di casi il principio eversivo è solo un’illusione: una porta senza serratura, o di cui viene tenuto aperto solo uno spiraglio, è di fatto una porta aperta, perché mancando la possibilità di bloccarla, chiunque può spalancarla.
Si comincia naturalmente con quei casi estremamente rari e pietosi, in cui peraltro è difficile accertare la validità del consenso, espresso il più delle volte in circostanze del tutto diverse e remote rispetto a quelle del momento in cui si darebbe la morte al presunto consenziente; ma poi, subito dopo e a catena, accettato il principio che il solo dolore di vivere legittimerebbe la richiesta di essere aiutati nel suicidio, qualunque motivo potrebbe essere accettato, da una semplice depressione, alla paura di una malattia, ad un generico disagio (ricordo che qualche anno fa, un magistrato italiano sessantaduenne, che poi risultò perfettamente sano dall’autopsia, nel timore puramente ipotetico di essere affetto da qualche grave male, si fece ammazzare, con tutti i crismi della scienza, in una clinica svizzera).
Naturalmente, il passo successivo sarebbe inevitabilmente la compassionevole ed umanitaria proposta rivolta ai malati gravi o cronici di troncare le proprie sofferenze, di concludere dignitosamente ed in modo indolore una vita altrimenti destinata a limitazioni tali da renderla indegna di essere vissuta: quali siano poi i criteri per ravvisare il valore della vita e la sua dignità di essere vissuta è qualcosa che gli apostoli dell’eutanasia non si scomodano a precisare: significa avere la prestanza dell’età giovane, il mantenere un fisico tonico e piacevole, il poter camminare senza bastoni, l’essere autosufficienti, il mantenersi sessualmente attivi? Ciascuno potrebbe rivendicare come determinanti alcuni di questi aspetti, mancando i quali la vita non sarebbe più degna di essere vissuta ed andrebbe troncata.
Si vorrà perdonare il sospetto che questa deriva, conseguenza inevitabile anche se forse non rapidissima, dell’introduzione del principio in argomento, partita dal falso pretesto di risolvere sbrigativamente qualche tragica e dolorosa situazione diventi quasi subito un immenso e lucroso affare economico, che consentirebbe una nuova industria della morte facile ed un apprezzabile alleggerimento delle spese sanitarie, assistenziali e pensionistiche. Sospetti cattivissimi, indegni di un ragionamento civile… ma, com’è noto, a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina.
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