di Paola Belletti
Siamo stanchi e sfiduciati di fronte all’ennesimo caso che arriva dal Regno Unito e temiamo si ripeta il solito tragico copione: una bambina affetta da una grave patologia, per la quale ancora non esiste una terapia in grado di respingerla, fermarla o almeno rallentarla, rischia di morire a causa della sospensione dei supporti vitali che per ora le stanno garantendo. A imporlo per sentenza sono i giudici inglesi a richiederlo in prima battuta l’ente che gestisce l’ospedale dove Indi è ancora ricoverata, ad opporsi con tutte le loro forze i genitori, e le sorelline, gli avvocati.
Il giudice Peel dell’Alta Corte di Londra ha stabilito che non sia “nel miglior interesse” di Indi un trasferimento in casa, soluzione che i genitori avrebbero preferito come extrema ratio. E ha indicato invece un hospice come il luogo più adatto, a meno che la famiglia – salvo ricorsi – non opti a questo punto per la scelta di lasciarla nel Queen’s Medical Centre di Nottingham. Giorno e ora sono oggi alle 14 del fuso orario londinese, le 15 nostre. Schierata al suo fianco c’è anche l’Italia, nei legali che curano gli interessi della famiglia, nel governo Meloni che si è speso direttamente, nella Presidenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù che ha da giorni confermato la disponibilità ad accoglierla e a curarla.
Un serio appunto per chi è costretto a scrivere di questa vicenda e di altre simili: inguaribile non è sinonimo di incurabile. Indi è curabile, fino a che ne avrà bisogno. Ed è la sola proposta sensata che si possa fare a lei e a qualsiasi essere umano colpito da infermità, ferite, malattie di ogni genere. Questa mattina, seguendo gli aggiornamenti sulla notizia, mio marito ed io ci siamo fermati un attimo a pensare a lei e alla morte a cui sembra forzata ad andare incontro. “Non riesco a pensare che morirà soffocata”, ha detto mio marito, immaginando che la sospensione dell’ossigenoterapia sarà il sasso che farà precipitare la situazione. Alle nostre spalle, sul divano dove di fatto vive nostro figlio di dieci anni, il respiro sempre un po’ corto e qualche vocalizzo: Ludovico è sveglio. Mentre lui parte per accompagnare due delle tre figlie a scuola, inizia la routine di cura che di fatto non si interrompe nemmeno di notte.
Ludovico ha la PEG (gastrostomia endoscopica percutanea), la pompa della nutrizione va per 6, 7 ore e fa rumore. Alle 5.30 aveva già suonato per fine dose raggiunta; alle tre lo avevo cambiato, il pannolino, grazie a Dio era bagnato. Alle 24.30 lo avevo girato su un fianco per favorire il respiro, alle 2.00 tolto una coperta perché sembrava accaldato. Nessuna storia strappalacrime, è la realtà, la nostra e di migliaia di famiglie che tra l’altro quasi mai gradiscono soffermarsi sui dettagli. Il nostro quarto figlio ha una malattia genetica rarissima che ha significato per lui emorragie cerebrali in utero, cecità assoluta, epilessia farmaco resistente, ipertono muscolare, problemi digestivi, di evacuazione, di diuresi, scoliosi e lussazione delle anche oltre a una generale fragilità e maggiore esposizione alle classiche infezioni che soprattutto nella stagione fredda colpiscono chiunque.
Una di queste, che per il resto della nostra famiglia aveva significato due starnuti e qualche colpo di tosse, lo ha portato ad un ricovero d’urgenza in piena notte per crisi respiratoria, causata da broncopolmonite bilaterale, associata ad enterite, febbre alta, tutto il corredo di sintomi insomma. Nell’ospedale bresciano che lo ha in carico dalla nascita è stato rapidamente e meticolosamente visitato, ricoverato, sottoposto ad ossigenoterapia ad alti flussi, il che significa una mascherina con due piccole e morbide cannette che entrano nelle narici, un’apparecchiature per la ventilazione che miscela ossigeno, aria riscaldata e umidificata ed esercita una certa pressione.
Ecco cosa sono molto spesso le famose “macchine” di cui si vuole “staccare la spina”, molto simili a quelle che, da quello che si può sapere e vedere, sostengono la piccola dei coniugi Gregory, in un quadro che certamente precipita più rapidamente a causa della malattia, che deve restare la causa ultima della sua morte. (Noi la spina in ospedale ogni tanto la staccavamo, hanno persino la batteria, pensate). La sua idratazione, come le terapie antibiotiche, erano garantite dall’accesso venoso fatto al momento del ricovero, la nutrizione dalla peg che ha da qualche mese e ci permette di garantirgli un adeguato apporto calorico e di nutrienti. Il tutto per aiutare noi a restituire nostro figlio allo stato di precario benessere di cui gode. Nessuno si sogna di discutere se valga la pena o meno. Vale la pena e basta. Coi medici discutiamo di quali altri supporti potrebbe giovare al domicilio, di medicazioni, di visite necessarie, di altre che non val la pena infliggergli.
Succede semplicemente che ce ne prendiamo cura, amandolo e facendo con la necessaria approssimazione del nostro meglio; il che prevede stanchezza, momenti di sconforto, una rivoluzione radicale dei nostri ritmi di vita, da quando è nato, qualche sacrosanto cedimento in un susseguirsi di attività che invece sembrano offrirgli un certo benessere e permettono a lui e a tutti noi di restare in relazione e godere gli uni degli altri. Ma soprattutto ci ha offerto la possibilità di imparare, – sono sicura di quello che sto per dire – cose che un figlio sano non può insegnarti. Non per colpa sua, più per colpa della nostra sclerosi cardiaca di adulti: non ci ricordiamo di essere creature fragili e amabili, anche noi provvisoriamente sani e normodotati; non sappiamo più che il nostro valore non è quello solo parzialmente espresso dalle nostre capacità, dalle cosiddette prestazioni.
Non siamo più tanto sicuri che ciò che cerchiamo sia la felicità e non la febbrile produttività. Un figlio così toglie dalla confusione, riprecipita mente e cuore sull’essenziale, a volte brutalmente, spesso con una indicibile dolcezza e si ride anche qua, parecchio. Ecco perché il tema vero è la perdita di umanità: quella dei giudici, dell’ospedale inglese, di un sistema che comunque cerca sempre nuovi adepti e sembra trovarne in tutto il mondo, occidentale innanzitutto. Sbagliate metro di misura, non sapete quale grandezza valga la pena valutare. Arrogarsi il diritto di interrompere una vita, l’unica di cui la piccola Indi dispone (chissà a che tipo di intimità accede lei, con Dio e con i suoi cari), violare l’unità primaria della sua famiglia, decidere che il presunto livello di sofferenza della piccola implichi che sia per lei preferibile morire e farlo in fretta, sono orrori inaccettabili e di una violenza tale che lascia, ancora, molti di noi scioccati.
Ma sono anche errori logici, prova certa di miseria intellettuale, autoriduzione dell’uomo a centro di fruizione di piacere, una sorta di agglomerato destinato a disfarsi una volta raggiunta la morte. Se il piacere non c’è e anzi quella persona non solo non ne prova ma ingenera dis-piacere negli altri allora va rimossa. Forse il tema è il costo? Il prezzo che il sostegno continuativo di cui necessita la piccola peserebbe troppo sul sistema sanitario al di là della Manica? Una manica su braccia assai corte, allora, su cuori induriti, su menti arrese alla mancanza di senso. Ciò che ha valore costa, ciò che è prezioso vale risorse, impegno, tempo. Siete disumani perché infliggete a quella famiglia e a tutto il paese ciò che ritenete accettabile per voi: credete di non essere niente di che, in fondo. Solo che vi sentite al riparo e magari liberi, una volta che doveste incappare in una malattia seria, di scegliere dal catalogo dei nuovi diritti quello inesistente del suicidio assistito. Peccato che non ascoltiate la lezione di Indi, così come vi siete persi quella di Alfie, Charlie, e di chissà quanti altri.
Il giudice Peel dell’Alta Corte di Londra ha stabilito che non sia “nel miglior interesse” di Indi un trasferimento in casa, soluzione che i genitori avrebbero preferito come extrema ratio. E ha indicato invece un hospice come il luogo più adatto, a meno che la famiglia – salvo ricorsi – non opti a questo punto per la scelta di lasciarla nel Queen’s Medical Centre di Nottingham. Giorno e ora sono oggi alle 14 del fuso orario londinese, le 15 nostre. Schierata al suo fianco c’è anche l’Italia, nei legali che curano gli interessi della famiglia, nel governo Meloni che si è speso direttamente, nella Presidenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù che ha da giorni confermato la disponibilità ad accoglierla e a curarla.
Un serio appunto per chi è costretto a scrivere di questa vicenda e di altre simili: inguaribile non è sinonimo di incurabile. Indi è curabile, fino a che ne avrà bisogno. Ed è la sola proposta sensata che si possa fare a lei e a qualsiasi essere umano colpito da infermità, ferite, malattie di ogni genere. Questa mattina, seguendo gli aggiornamenti sulla notizia, mio marito ed io ci siamo fermati un attimo a pensare a lei e alla morte a cui sembra forzata ad andare incontro. “Non riesco a pensare che morirà soffocata”, ha detto mio marito, immaginando che la sospensione dell’ossigenoterapia sarà il sasso che farà precipitare la situazione. Alle nostre spalle, sul divano dove di fatto vive nostro figlio di dieci anni, il respiro sempre un po’ corto e qualche vocalizzo: Ludovico è sveglio. Mentre lui parte per accompagnare due delle tre figlie a scuola, inizia la routine di cura che di fatto non si interrompe nemmeno di notte.
Ludovico ha la PEG (gastrostomia endoscopica percutanea), la pompa della nutrizione va per 6, 7 ore e fa rumore. Alle 5.30 aveva già suonato per fine dose raggiunta; alle tre lo avevo cambiato, il pannolino, grazie a Dio era bagnato. Alle 24.30 lo avevo girato su un fianco per favorire il respiro, alle 2.00 tolto una coperta perché sembrava accaldato. Nessuna storia strappalacrime, è la realtà, la nostra e di migliaia di famiglie che tra l’altro quasi mai gradiscono soffermarsi sui dettagli. Il nostro quarto figlio ha una malattia genetica rarissima che ha significato per lui emorragie cerebrali in utero, cecità assoluta, epilessia farmaco resistente, ipertono muscolare, problemi digestivi, di evacuazione, di diuresi, scoliosi e lussazione delle anche oltre a una generale fragilità e maggiore esposizione alle classiche infezioni che soprattutto nella stagione fredda colpiscono chiunque.
Una di queste, che per il resto della nostra famiglia aveva significato due starnuti e qualche colpo di tosse, lo ha portato ad un ricovero d’urgenza in piena notte per crisi respiratoria, causata da broncopolmonite bilaterale, associata ad enterite, febbre alta, tutto il corredo di sintomi insomma. Nell’ospedale bresciano che lo ha in carico dalla nascita è stato rapidamente e meticolosamente visitato, ricoverato, sottoposto ad ossigenoterapia ad alti flussi, il che significa una mascherina con due piccole e morbide cannette che entrano nelle narici, un’apparecchiature per la ventilazione che miscela ossigeno, aria riscaldata e umidificata ed esercita una certa pressione.
Ecco cosa sono molto spesso le famose “macchine” di cui si vuole “staccare la spina”, molto simili a quelle che, da quello che si può sapere e vedere, sostengono la piccola dei coniugi Gregory, in un quadro che certamente precipita più rapidamente a causa della malattia, che deve restare la causa ultima della sua morte. (Noi la spina in ospedale ogni tanto la staccavamo, hanno persino la batteria, pensate). La sua idratazione, come le terapie antibiotiche, erano garantite dall’accesso venoso fatto al momento del ricovero, la nutrizione dalla peg che ha da qualche mese e ci permette di garantirgli un adeguato apporto calorico e di nutrienti. Il tutto per aiutare noi a restituire nostro figlio allo stato di precario benessere di cui gode. Nessuno si sogna di discutere se valga la pena o meno. Vale la pena e basta. Coi medici discutiamo di quali altri supporti potrebbe giovare al domicilio, di medicazioni, di visite necessarie, di altre che non val la pena infliggergli.
Succede semplicemente che ce ne prendiamo cura, amandolo e facendo con la necessaria approssimazione del nostro meglio; il che prevede stanchezza, momenti di sconforto, una rivoluzione radicale dei nostri ritmi di vita, da quando è nato, qualche sacrosanto cedimento in un susseguirsi di attività che invece sembrano offrirgli un certo benessere e permettono a lui e a tutti noi di restare in relazione e godere gli uni degli altri. Ma soprattutto ci ha offerto la possibilità di imparare, – sono sicura di quello che sto per dire – cose che un figlio sano non può insegnarti. Non per colpa sua, più per colpa della nostra sclerosi cardiaca di adulti: non ci ricordiamo di essere creature fragili e amabili, anche noi provvisoriamente sani e normodotati; non sappiamo più che il nostro valore non è quello solo parzialmente espresso dalle nostre capacità, dalle cosiddette prestazioni.
Non siamo più tanto sicuri che ciò che cerchiamo sia la felicità e non la febbrile produttività. Un figlio così toglie dalla confusione, riprecipita mente e cuore sull’essenziale, a volte brutalmente, spesso con una indicibile dolcezza e si ride anche qua, parecchio. Ecco perché il tema vero è la perdita di umanità: quella dei giudici, dell’ospedale inglese, di un sistema che comunque cerca sempre nuovi adepti e sembra trovarne in tutto il mondo, occidentale innanzitutto. Sbagliate metro di misura, non sapete quale grandezza valga la pena valutare. Arrogarsi il diritto di interrompere una vita, l’unica di cui la piccola Indi dispone (chissà a che tipo di intimità accede lei, con Dio e con i suoi cari), violare l’unità primaria della sua famiglia, decidere che il presunto livello di sofferenza della piccola implichi che sia per lei preferibile morire e farlo in fretta, sono orrori inaccettabili e di una violenza tale che lascia, ancora, molti di noi scioccati.
Ma sono anche errori logici, prova certa di miseria intellettuale, autoriduzione dell’uomo a centro di fruizione di piacere, una sorta di agglomerato destinato a disfarsi una volta raggiunta la morte. Se il piacere non c’è e anzi quella persona non solo non ne prova ma ingenera dis-piacere negli altri allora va rimossa. Forse il tema è il costo? Il prezzo che il sostegno continuativo di cui necessita la piccola peserebbe troppo sul sistema sanitario al di là della Manica? Una manica su braccia assai corte, allora, su cuori induriti, su menti arrese alla mancanza di senso. Ciò che ha valore costa, ciò che è prezioso vale risorse, impegno, tempo. Siete disumani perché infliggete a quella famiglia e a tutto il paese ciò che ritenete accettabile per voi: credete di non essere niente di che, in fondo. Solo che vi sentite al riparo e magari liberi, una volta che doveste incappare in una malattia seria, di scegliere dal catalogo dei nuovi diritti quello inesistente del suicidio assistito. Peccato che non ascoltiate la lezione di Indi, così come vi siete persi quella di Alfie, Charlie, e di chissà quanti altri.
(Fonte foto: Screenshot, GFS News, YouTube)
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