domenica 30 luglio 2017

Avvenire, Paglia, vescovi inglesi: non c'è più vita






di Riccardo Cascioli  (30/07/2017)

«Charlie è stato ucciso da un male inesorabile». Così ieri sbalordiva i suoi lettori il direttore di Avvenire Marco Tarquinio. Sbalordimento non solo per l’evidenza negata di una morte procurata, ma anche per l’altrettanto evidente contraddizione con la linea tenuta nei due mesi precedenti, da quando il caso Charlie è stato seguito con sistematicità dal quotidiano della CEI.

In effetti da un po’ di giorni erano cessati i commenti duri su medici e giudici inglesi;l’editorialista in questo più acuminata – Assuntina Morresi – che all’inizio aveva denunciato con forza la volontà di morte di medici e giudici, è scomparsa dalle pagine del quotidiano dei vescovi dal 13 luglio. E quando, dopo l’udienza in cui anche i genitori di Charlie si sono arresi alla possibilità di terapie, Tarquinio ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera sostenendo che ora era giusto “lasciare andare” Charlie, era apparso chiaro che fosse in atto una manovra di riallineamento.

Ieri la conferma nel modo più spudorato. Ora possiamo aspettarci che sul tema Avvenirearrivi a cedere la tribuna al professor Francesco D’Agostino senza ovviamente spiegare come sia successa questa inversione a U. Di sicuro possiamo dire che il neo-presidente della Conferenza Episcopale Italiana, cardinale Gualtiero Bassetti, non ha alcun ascendente sul “suo” giornale visto che Avvenire ha maturato la svolta proprio nei giorni in cui egli si esprimeva al contrario, ovvero con un giudizio molto chiaro contro l’eutanasia praticata su Charlie.

Ma Bassetti è uno dei pochissimi vescovi che resta fedele a quanto il Magistero ha sempre indicato sul tema della vita e della morte. Il caso Charlie ha fatto emergere la realtà di una Chiesa che, silenziosamente, si è spostata su tutt’altra linea. E infatti, dopo la morte di Charlie, in tanti – che per mesi erano stati in silenzio o quasi – sono improvvisamente diventati loquaci. Perfino il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster e presidente della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles, di cui si erano perse le tracce, ha voluto far sapere al mondo il suo pensiero.

Dopo le scontate “sincere e profonde condoglianze” ai genitori di Charlie, ecco il colpo: il ringraziamento al personale dell’ospedale londinese «che si è occupato di Charlie durante questi lunghi mesi della sua breve vita». Che se ne sia occupato soprattutto tenendolo in ostaggio in attesa del semaforo verde per farlo morire, questo evidentemente è un dettaglio secondario per il cardinale Nichols. Il quale, non volendo lasciare spazio ad equivoci ha anche lodato tutto il personale dell’ospedale, «la grande professionalità e le risorse offerte a ogni piccolo paziente e ai familiari». Insomma, tanta comprensione per i genitori, però meno male che adesso è finita come doveva e speriamo che la smettano, così che i medici potranno tornare ad eliminare tutti i Charlie di questo mondo coperti da quel silenzio chiesto anche dal professor Francesco D’Agostino nell’intervento su Rai Uno di cui riferiamo a parte.

E loquace è improvvisamente diventato anche monsignor Vincenzo Paglia che, essendo il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, a giochi fatti non può fare a meno di dire la sua. Dopo un primo comunicato sul cui significato si stanno ancora interrogando gli esegeti (è prerogativa di monsignor Paglia fare affermazioni che possono essere lette in qualsiasi modo), ieri sera è intervenuto con una breve dichiarazione al Tg1 delle 20. «Charlie aveva bisogno di tutto meno che di un clima di conflitto e lacerazione», ha esordito. E chi sarà mai il colpevole di questo clima? In fondo se i genitori avessero accettato da subito la realtà di una malattia inguaribile, tutto questo conflitto non si sarebbe acceso. I medici del GOSH, che sono così professionali e prodighi in risorse per i piccoli malati e i loro familiari – come dice Nichols – non meritavano certo questo trattamento.

Infatti quello di cui c’è veramente bisogno, prosegue Paglia, è «un’alleanza terapeutica tra medici, familiari e amici» perché «tutti insieme, ognuno secondo le proprie responsabilità, individuino la via migliore per il malato». Il contenuto di questa alleanza evidentemente non importa: vita, morte, l’importante è che si decida insieme. E insiste ancora nel finale: «Dobbiamo promuovere nel nostro paese un’alleanza tra tutti». A parte quello che appare uno spot a favore della legge sul bio-testamento in discussione in Parlamento, le parole di Paglia indicano con chiarezza la metamorfosi in atto. Da evitare assolutamente non è la scelta per la morte, che malati e disabili vengano fatti fuori dallo stato e dagli esperti; no, da evitare è il clima di conflitto; dobbiamo cercare una soluzione comune, qualsiasi essa sia, senza volere imporre la “nostra” verità.

Non so se è chiaro il messaggio; aspettiamoci a giorni qualche intervento autorevole che ci dica che su Eluana Englaro la Chiesa italiana ha sbagliato a mobilitarsi allora, creando quel brutto clima di conflitto e lacerazione. In fondo che volete che sia il sacrificio di una vita, peraltro improduttiva, davanti alla possibilità di mantenere una concordia sociale? «Mai più un’altra Eluana», dicevamo allora. E sarà così, ma non nel senso che intendevamo.









fonte: La nuova Bussola Quotidiana 







sabato 29 luglio 2017

Il metodo di Satana






di don Alessio Geretti

Ecco. Hanno tolto a un bambino prima la cura di mamma e papà, poi la possibilità di lottare in un tentativo di speranza, poi il respiro. Hanno dovuto trasferirlo in un hospice, perché ci sono strutture che condannano a morte ma che non vogliono eseguire poi la condanna; e poi bisogna che chi va eliminato senta di non essere più nell’ambiente che gli era – malgrado tutto – divenuto familiare, così deve anche patire la sensazione di estraneità di un mondo che gli sta dicendo “vattene”.

La superbia cieca degli uomini che pretendono di essere come Dio fa orrore e dolore. Tanto dolore. Ritorna in animo quel che ho vissuto la sera in cui si completo’ l’uccisione di Eluana. Giuro che ogni volta che succederà qualcosa del genere, non avranno il mio consenso, e nemmeno un balbettare incerto di dubbi e distinzioni. Cristo ha dichiarato benedetti quelli che quando avevi sete o fame t’hanno dato quel poco che potevano, non quelli che t’hanno tolto quel poco che ti era restato. Rendere equivoco l’amore è il metodo di Satana nel nostro secolo.







https://costanzamiriano.com/2017/07/28/il-metodo-di-satana/#more-18399








venerdì 28 luglio 2017

Via Gesù dentro la Bonino. In chiesa "predica" sull'accoglienza la responsabile di 10mila aborti






L'evento in chiesa a Biella ospite la Bonino: vietato l'ingresso ai pro life e coperti tabernacolo e crocifisso. Arriva anche la polizia per chiedere i documenti a chi prega fuori sul sagrato. Ma mentre la leader radicale si contraddice sostenendo la "necessità di regolarizzare gli immigrati" a causa "del calo demografico", il ginecologo Aletti la incalza: "Pontifichi dopo aver contribuito alla morte di 6 milioni di italiani. Il pensiero maggioritario non cattolico sta prevalendo nella Chiesa".




di Benedetta Frigerio (28/07/2017)

Dopo aver accuratamente nascosto il crocifisso e il tabernacolo della chiesa di San Defendente a Ronco di Cossato (Biella) e dopo aver impedito l’ingresso ad alcuni membri del movimento pro life, lo scorso mercoledì il parroco, don Mario Marchiori, ha dato la parola all’attivista radicale Emma Bonino sul tema dell’accoglienza. Insomma, la responsabile, mai pentita, di 10mila aborti praticati con le pompe di bicicletta, che si fece mettere incinta per uccidere suo figlio e dimostrare che non era un dramma, ha pontificato dal pulpito invitando a "non ragionare di pancia ma ad usare la ragione e il cuore" per accogliere gli immigrati.

Paradosso dei paradossi, il responsabile della Caritas locale, don Giovanni Perini, è intervenuto in appoggio a Bonino per dire che “non abbiamo nessun diritto di rendere la vita difficile agli altri”. Bollando chiunque sia preoccupato dell’immigrazione massiccia che alimenta il traffico umano, la delinquenza e lo sfruttamento, oltre che il radicalismo islamico e dimenticando che se Bonino non ha reso la vita difficile a 6 milioni di bambini italiani è solo perché prima ha contribuito ad ucciderli.

Chiedendo firme per l’abolizione della Bossi-Fini, da sostituire con una norma aperturista e blanda, la vecchia leader radicale, con fare garbato e mai scomposto, ha sottolineato che “ho accettato di venire a parlare qui perché vengo da una famiglia cattolica praticante, ma che mi ha insegnato il rispetto per l'opinione altrui”. Forse bisognava chiederle come mai allora si è battuta tanto per togliere il diritto all’obiezione di coscienza, invece ha continuato indisturbata: “Sono un'europeista entusiasta, di più un’attivista dell’Europa in questo mondo confuso da Trump e Putin…possiamo fare mille critiche all'Europa, ma solo se amiamo il progetto europeo, non possiamo pensare che ogni Stato vada da sé”.

Perché? Verrebbe da chiedersi, dato che la tradizione delle nazioni europee è di un’unità nelle radici cristiane dentro una profonda diversità a cui non si possono applicare politiche identiche senza fare danni? Ma ovviamente non c’è stato spazio per incalzare Bonino che, al contrario, ha proseguito: “La critica che faccio all'Europa, se mai, è di un processo di integrazione bloccato” e quindi di una politica di accoglienza “lasciata alle decisioni di ogni Stato membro”. In poche parole ci vorrebbe più verticismo e decisioni calate dall’alto da burocrati non eletti.

Poi, dopo aver spiegato che i migranti sono necessari perché "fanno il lavoro che gli italiani non vogliono fare" (dimenticando che si tratta di lavori sottopagati, dunque accessibili solo a chi non ha famiglia e ha un alloggio pagato), ha spiegato che il mondo è sovrappopolato per colpa “della povertà dell’Africa, dove fanno i figli perché sono poveri” (povertà che secondo i radicali va combattuta sterilizzando donne e fornendo loro contraccettivi), mentre l’Italia è “in calo demografico”. A quel punto dal pubblico sono intervenuti Alberto Cerutti, vicepresidente dell'associazione "Difendere la vita con Maria", Giorgio Celsi, presidente dell'associazione "Ora et labora in difesa della vita" e Leandro Aletti un ginecologo che per difendere la vita non ha temuto di subire processi né di perdere il lavoro pur avendo una famiglia numerosa da mantenere. Cerutti è stato allontanato dalla Chiesa, mentre Aletti e Celsi sono stati sommersi dai fischi (fra i presenti, ad applaudire alla Bonino c’erano diversi radicali, fra cui il noto ginecologo torinese Silvio Viale, paladino della legalizzazione della Ru486, la pillola abortiva che uccide bambini mettendo a rischio anche la vita delle madri). “Ho provato a dirle - spiega Aletti - che lei stessa era fra i responsabili del calo demografico e che era assurdo sentir parlare di accoglienza da una che non accoglie i nostri figli”. Ma tra fischi e urla che coprivano la voce del medico Bonino, senza scomporsi, ha risposto: “Sono polemiche di gioventù, discussioni che pensavo antiche, non mi spaventano. Non mi sentivo e non mi sento di condannare nessuno all’aborto clandestino”. A quel punto tutta la chiesa ha applaudito. “Io rimango convinta della libertà individuale, nessuno deve dirvi cosa fare, ognuno scelga per sé: “io non lo farei” non può diventare “tu non lo puoi fare” (boato di applausi). E non importa se si tratta di uccidere.

Poi, continuando come se nulla fosse, ma svelando la grande ipocrisia, ha parlato così della regolarizzazione dei clandestini: “Non abbiamo scelta, a meno che non vogliamo affogarli tutti nel Mediterraneo, ma ci eravamo detti mai più. Sui cimiteri anche liquidi non si costruisce niente”. Tutto questo in una chiesa in cui il parroco, che aveva già invitato a parlare Beppino Englaro per ben due volte, continua a diffondere confusione senza il minimo intervento del vescovo. Perciò, ha continuato Aletti, la seconda cosa che le ho detto è che, “Oriana Fallaci diceva esattamente l’opposto, parlando del pericolo dell'islamizzazione. E a quelli della Caritas e a don Mario, che provava ad allontanarmi dalla Chiesa, ho rivolto le parole profetiche di Paolo VI: “Un pensiero maggioritario non cattolico prevarrà nella Chiesa ma resterà sempre un’etnia sui generis che è una minoranza e lì sarà il pensiero cattolico”. E’ quello che vediamo oggi, per cui essere cattolici ora vuol dire stare in quell’etnia che è una minoranza".

Nella Chiesa ma non solo, dato che la polizia non è entrata in chiesa (cosa che può avvenire solo su richiesta del parroco per eventi straordinari) e ha chiesto i documenti a quanti pregavano sul sagrato. Ma alcuni delle forze dell'ordine, conclude Aletti, "mi hanno detto: abbiamo sentito tutto, avete ragione”. Giovanni Ceroni, presidente del Mpv di Biella ha spiegato: “In questi casi l'ultima arma è la preghiera di riparazione e adorazione a Dio...Nelle nostre preghiere ricordiamo la Bonino e tanti presenti accecati dalle ideologie, ma in particolare quel prete che impiega tante energie e dà tanto scandalo ai fedeli: che possa convertirsi a Gesù seguendo la Vera Santa Chiesa”.















Fonte: La nuova Bussola Quotidiana 







martedì 25 luglio 2017

E' eutanasia, condita da falsa pietà






di Renzo Puccetti (25/07/2017)

Ieri abbiamo assistito ad una pagina drammatica e tristissima della lunga battaglia per la vita di Charlie Gard. L’incubo si è materializzato quando i genitori di Charlie hanno gettato la spugna rinunciando a proseguire nella causa in cui per mesi hanno lottato per la vita di loro figlio. Da quanto viene riportato gli esami hanno evidenziato una compromissione muscolare troppo avanzata per sperare che le cure sperimentali potessero essere tollerate. Con la rinuncia dei genitori, ora Charlie è solo, niente più si frappone tra lui ed il protocollo di morte eutanasica pervicacemente perseguito dai medici del Great Hormond Street Hospital.

A Charlie toglieranno l’aria che gli è necessaria a vivere e così avranno finalmente soddisfazione tutti coloro che in queste settimane hanno detto che la morte era il migliore interesse di quel bambino che è stato idealmente adottato da milioni e milioni di persone in tutto il mondo con la preghiera, la mobilitazione e col denaro necessario per dargli una possibilità di cura. Intervenendo prima Charlie avrebbe avuto una chance? Nessuno può rispondere con certezza, in questi giorni abbiamo potuto apprendere che da aprile i medici inglesi avevano cessato di monitorare l’evoluzione della malattia; si erano fatti una convinzione e nessuno doveva azzardarsi a metterla in discussione ed hanno fatto di tutto per impedire a Charlie cure possibili.

Il tempo trascorso ha giocato a loro favore, affinché oggi potessero dire: “avete visto? Avevamo ragione noi”. La proverbiale cinica ipocrisia britannica non avrebbe potuto trovare interpreti più degni. Ma a queste considerazioni si aggiunge lo sgomento che deriva dalla lettura di un documento di Chris Gard e Constace Yates diffuso alle 16,45 ora italiana sul profilo Fb di “Charlie’s Army”, da cui lo sforzo bioetico di chi ha affiancato i genitori di Charlie nella loro opposizione ai medici del GOSH fino a ieri risulta vanificato: “Non è cerebralmente morto (e non lo è mai stato). Ci risponde, persino ora”, scrivono i genitori di Charlie, che però aggiungono: “Ma dopo i risultati della recente risonanza magnetica muscolare, è stato ritenuto che i muscoli di Charlie si sono deteriorati ad un livello ampiamente irreversibile e, se anche il trattamento funzionasse, la sua qualità di vita non sarebbe ora quella che vorremmo per il nostro prezioso piccolo ragazzo”.

La bontà o meno di una posizione non è data da chi la sostiene, ma dal rispetto della realtà e la realtà non è mutata dal fatto che la speranza della terapia nucleosidica sia svanita, né dal fatto che ora siano i genitori di Charlie a rinunciare processualmente ad opporsi alla sospensione della ventilazione perché la qualità di vita è sotto il livello auspicato e auspicabile. Togliere la ventilazione a Charlie era un atto eutanasico ieri e continua ad esserlo oggi che a deciderlo si sono affiancati i genitori.

La giravolta di 180 gradi di oggi non salva la faccia al GOSH a cui i genitori di Charlie imputano un ritardo fatale ed imperdonabile dettato dall’errata prognosi infausta circa il danno neurologico, smentita dagli esperti del team internazionale. Nondimeno il tempo levigherà i particolari e sono sicuro che tra un po’ il GOSH rivendicherà di avere avuto ragione, che anche i genitori hanno riconosciuto che per Charlie non c’era niente da fare; confidando sulla memoria corta della gente, ritengono che conserveranno davanti al mondo la propria alta reputazione.

Tuttavia il fatto bioetico rimane e non si può esaurire in una mera divergenza diagnostica e prognostica: quello che ieri i medici del GOSH dicevano a causa della irreversibilità del danno neurologico, oggi i genitori di Charlie lo dicono a causa dell’irreversibilità del danno muscolare. È comunque un danno irreversibile a giustificare la preferenza per la morte. Non so se e quali siano state le pressioni esercitate sulla coppia, non so se ad un certo punto alla mamma e al papà di Charlie sono venute meno le energie nervose per sostenere la difesa del proprio bambino fino all’ultimo atto, ma se è indubbio che nessun genitore vorrebbe per il proprio figlio la qualità di vita di Charlie, nessun genitore può affermare che la bassa qualità di vita del proprio figlio lo rende inidoneo a ricevere cure proporzionate e a vivere.

Per un caso era un luglio come oggi, ma di 78 anni fa, quando Richard and Lina Kretschmar, i genitori di Gerhard, scrissero al Führer perché fosse loro permesso di uccidere quel loro bambino di cinque mesi, nato senza un braccio e una gamba, cieco e apparentemente demente, che loro ritenevano “un mostro”. Vi sono moltissime differenze da quel caso; a Gerhard fu dato attivamente del luminale per ucciderlo, a Charlie verrà attivamente tolta la ventilazione. Diversa è la motivazione, l’ideale della perfezione ariana a cui aspiravano di contribuire come devoti nazisti per i genitori del piccolo Gerhard, l’incapacità di fare tutte le cose che ogni genitore vorrebbe vedere fare al proprio bambino, per i coniugi Gard.

Diverso il tono ed i sentimenti, brutalmente sprezzante quello dei coniugi Kretschmar, pieno di affetto, di lacrime e di fierezza per il loro bambino quello oggi dei Gard. Tuttavia c’è un fatto che è maledettamente comune nelle vicende di Gerhard e di Charlie, esso è la paura dell’essere umano di fronte alla sofferenza, è la tentazione di fuggire, di dire “basta”, di voltare pagina trovando la giustificazione auto-lenitiva del meglio morto che così sofferente, è la “falsa pietà” che con somma carità indicava al mondo Giovanni Paolo II.

Ma è proprio questa fuga che non dobbiamo, non vogliamo, non possiamo accettare, perché la realtà non è quella barbarica pronunciata dal giudice Francis, la qualità di vita di Charlie, per quanto bassa essa sia, rende Charlie certamente un grandissimo disabile, un gravissimo ammalato, ma non una vita immeritevole di vita e non fa della morte il suo migliore interesse, perché, lo dico al giudice, ai medici del GOSH, ai loro simpatizzanti e anche ai genitori di Charlie con tutta la compassione e la fermezza che mi è possibile: non siete Dio, Charlie non è una proprietà, la sua dignità di persona è ontologica, non va via insieme alla bassa qualità di vita, ma permane con la vita e lo rende titolare del diritto ad essere sostenuto, non scartato. Lo diciamo oggi come ieri e come domani. Per il prossimo Charlie e per la nostra dignità.






fonte: La nuova Bussola Quotidiana 








lunedì 24 luglio 2017

MONS. SCHNEIDER: CHIESA, CRISI SENZA PRECEDENTI. “DEINFALLIBILIZZARE” IL CONCILIO VATICANO II.






MARCO TOSATTI (24/07/2017)

Con colpevole ritardo – ma ci siamo imposti, salvo casi particolarissimi, di non fare più di un post al giorno – vi offriamo una riflessione del vescovo Athanasius Schneider, vescovo ausiliare di Astana, in Kazakistan, una delle personalità più lucide e coraggiose di cui la Chiesa dispone oggi. E’ un editoriale che è apparso in Rorate Coeli, in inglese, e su un blog italiano, Ultimo Papa. Chi volesse leggerli integralmente è opportuno vada a queste due fonti. Noi presentiamo alcuni passaggi particolarmente interessanti. Scrive mons. Schneider:


“L’attuale situazione di crisi senza precedenti della Chiesa è paragonabile con la crisi generale del IV secolo, quando l’arianesimo aveva contaminato la stragrande maggioranza dell’episcopato, assumendo una posizione dominante nella vita della Chiesa. Dobbiamo cercare di affrontare questa attuale situazione da un lato con realismo e, dall’altro, con uno spirito soprannaturale, con un profondo amore per la Chiesa, nostra madre, che soffre la Passione di Cristo a causa di questa tremenda e generalizzata confusione dottrinale, liturgica e pastorale. Dobbiamo rinnovare la nostra fede nel credere che la Chiesa sia nelle mani sicure di Cristo e che Egli intervenga sempre per rinnovare la Chiesa nei momenti in cui la barca della Chiesa sembra che si stia per capovolgere, come è il caso evidente nei giorni nostri”.

Questa frase risuona come un richiamo alle parole che Benedetto XVI ha scritto nel suo ricordo in mortem del card. Meisner.

Continua il vescovo: “Per quanto riguarda l’atteggiamento verso il Concilio Vaticano II, dobbiamo evitare due estremi: un rifiuto completo (come i sedevacantisti e una parte della Società di San Pio X) o una “infallibilizzazione” di tutto ciò di cui il concilio ha parlato” scrive il vescovo, che ricorda come “Il Vaticano II fu una legittima assemblea presieduta dai Papi e dobbiamo mantenere verso questo Concilio un atteggiamento rispettoso. Tuttavia, ciò non significa che ci sia proibito esprimere fondati dubbi o rispettosi suggerimenti di miglioramento su alcuni elementi specifici, sempre basandoci su tutta la tradizione della Chiesa e sul suo costante Magistero”.

Infatti, è costante nella Chiesa una prassi: “Le dichiarazioni dottrinali tradizionali e costanti del Magistero durante un periodo secolare hanno precedenza e costituiscono un criterio di verifica sull’esigenza delle dichiarazioni magistrali posteriori. Le nuove affermazioni del Magistero devono, in linea di principio, essere più esatte e più chiare, ma non dovrebbero mai essere ambigue e apparentemente contrarie alle precedenti dichiarazioni magistrali”.

Ne consegue che eventuali dichiarazioni ambigue del Vaticano II devono essere lette e interpretate secondo le affermazioni di tutta la Tradizione e del costante Magistero della Chiesa.

“In caso di dubbio, le affermazioni del Magistero costante (i Concili precedenti e i documenti dei Papi, il cui contenuto dimostra di essere una tradizione sicura e ripetuta nei secoli sempre nello stesso senso) prevalgono su quelle dichiarazioni, oggettivamente ambigue o nuove del Vaticano II, che difficilmente concordano con specifiche affermazioni del magistero costante e precedente”.

Ne consegue che “Il Vaticano II deve essere visto e ricevuto come è e come veramente fu: un concilio prevalentemente pastorale. Questo concilio non aveva l’intenzione di proporre nuove dottrine o quantomeno di proporle in forma definitiva. Nelle sue dichiarazioni il concilio ha confermato in gran parte la dottrina tradizionale e costante della Chiesa”.

Mons. Schneider ribadisce allora che “Alcune delle nuove affermazioni del Vaticano II (ad esempio collegialità, libertà religiosa, dialogo ecumenico e interreligioso, atteggiamento verso il mondo) non hanno un carattere definitivo e dal momento che apparentemente o veramente non concordano con le dichiarazioni tradizionali e costanti del Magistero, devono essere completate da spiegazioni più esatte e da integrazioni più precise di carattere dottrinale”.

Mons. Schneider ricorda alcuni casi nella storia della Chiesa in cui dichiarazioni di alcuni concili ecumenici sono stati corretti successivamente grazie a un sereno dibattito teologico.

Di conseguenza “Bisogna creare nella Chiesa un clima sereno di discussione dottrinale su quelle affermazioni del Vaticano II, ambigue o che hanno causato interpretazioni erronee. In una discussione così dottrinale non c’è nulla di scandaloso, ma al contrario, può essere un contributo per mantenere e spiegare in modo più sicuro e integrale il deposito della fede immutabile della Chiesa.

Non si deve enfatizzare tanto un certo Concilio, assolutizzandolo o avvicinandolo alla realtà orale (Sacra Tradizione) o scritta (Sacra Scrittura) della Parola di Dio. Il Vaticano II stesso ha giustamente affermato (cfr Verbum Dei, 10) che il Magistero (Papa, Concilio, magistero ordinario e universale) non è al di sopra della Parola di Dio, ma sotto di essa, soggetto ad essa, essendo solo suo servitore (della parola orale di Dio=Tradizione Sacra e della Parola scritta di Dio=Sacra Scrittura).

Da un punto di vista oggettivo, le affermazioni del Magistero (papi e concili) di carattere definitivo hanno più valore e peso rispetto alle dichiarazioni di carattere pastorale, che hanno naturalmente una qualità variabile e temporanea a seconda delle circostanze storiche o che rispondono a Situazioni pastorali di un certo periodo di tempo, come avviene per la maggior parte delle affermazioni del Vaticano II”.

Mons. Schneider elenca i quattro punti fondamentali del Vaticano II: “Il contributo originale e prezioso del Vaticano II consiste nella chiamata universale alla santità di tutti i membri della Chiesa (cap. 5 di Lumen Gentium), nella dottrina sul ruolo centrale della Madonna nella vita della Chiesa (cap. 8 della Lumen Gentium), nell’importanza dei fedeli laici nel mantenere, difendere e promuovere la fede cattolica e nel loro dovere di evangelizzare e santificare le realtà temporali secondo il senso perenne della Chiesa (cap. 4 della Lumen Gentium), nel primato dell’adorazione di Dio nella vita della Chiesa e nella celebrazione della liturgia (Sacrosanctum Concilium , nn 2, 5-10). Il resto si può considerare in una certa misura secondario, temporaneo e, in futuro, probabilmente dimenticabile”.

Ma ecco che cosa è accaduto: “Invece di vivere questi quattro aspetti, una considerevole parte della nomenclatura teologica e amministrativa nella vita della Chiesa ha promosso, negli ultimi 50 anni e promuove ancora oggi ambigue dottrine, pastorali e liturgiche, distorcendo così l’intenzione originaria del Concilio o abusando delle dichiarazioni dottrinali meno chiare o ambigue per creare un’altra chiesa, una chiesa di tipo relativista o protestante”.

E continua: “Il problema della crisi attuale della Chiesa consiste in parte nel fatto che alcune affermazioni del concilio Vaticano II, oggettivamente ambigue o quelle poche dichiarazioni difficilmente concordanti con la costante tradizione magistrale della Chiesa, sono state “infallibilizzate”. In questo modo è stato bloccato un sano dibattito con una correzione necessariamente implicita o tacita. Allo stesso tempo si è dato l’incentivo a creare affermazioni teologiche in contrasto con la tradizione perenne”.

Conclude mons. Schneider: “Dobbiamo liberarci dalle catene dell’assolutizzazione e della totale “infallibilizzazione” del Vaticano II. Dobbiamo agire in un clima di sereno e rispettoso dibattito nel sincero amore per la Chiesa e per la fede immutabile della Chiesa”. Infatti “L’ambiguità nella dottrina della fede e nella sua applicazione concreta (nella liturgia e nella vita pastorale) minaccia l’eterna salvezza delle anime e sarebbe quindi anti-pastorale, poiché l’annuncio della chiarezza e dell’integrità della fede cattolica e la sua fedele applicazione concreta è la volontà esplicita di Dio”.








fonte: Stilum curiae  




venerdì 21 luglio 2017

Quella foto del padre Sosa



di Aldo Maria Valli (21/07/2017)

Forse avrete visto la foto che mostra il padre Arturo Sosa, generale dei gesuiti, mentre prega in un tempio buddista, circondato da monaci. L’immagine è stata pubblicata con compiacimento dai gesuiti stessi, accompagnata da un commento nel quale si spiega che il padre Sosa è «el primer Superior Jesuita en bautizarse budista», ovvero il primo superiore gesuita che si è battezzato buddista.

La foto in questi giorni sta circolando in tutto il mondo, suscitando, a seconda dei casi, soddisfazione oppure sconcerto, tristezza o addirittura sgomento. Ognuno è libero di giudicare come vuole.

Io credo, in ogni caso, che i nostri amici buddisti vadano ringraziati per questa foto che ci hanno regalato. Dirò perché, ma prima qualche nota a margine.

La prima riguarda il presunto «battesimo buddista» che il padre Sosa avrebbe ricevuto. Ora voi sapete meglio di me che non esiste un battesimo buddista, anche perché il buddismo non è propriamente una religione, in quanto non riconosce un dio. Il buddismo è un modo di essere, una filosofia di vita, un sistema etico e spirituale che ha l’obiettivo di permettere la piena realizzazione dell’individuo in vista del raggiungimento della felicità. Quando prega, il buddista non si rivolge a un dio, ma cerca l’armonia con la natura e l’universo, ed è questo lo scopo ultimo della preghiera, non il dialogo né l’unione con un dio, tanto che, secondo alcuni, quella del buddismo sarebbe una visione radicalmente atea, perché, semplicemente, la devozione nei confronti di un dio non è presa in considerazione nel cammino verso la piena realizzazione di sé. Può esserci, ma può anche non esserci.

Stupisce, quindi, e non poco, che un organo ufficiale dei gesuiti parli di «battesimo buddista». A meno che i gesuiti, in questo caso, non abbiamo usato l’espressione «battesimo» in senso lato, per dire «la prima volta», come anche noi qualche volta facciamo in espressioni come «battesimo del fuoco» o «battesimo del volo». Ma andiamo avanti.

Stupiscono molto meno le cose che il padre Sosa ha detto incontrando gli amici buddisti in una conferenza in Cambogia, dedicata, ovviamente, al dialogo «tra i buddisti e i cristiani che lavorano per la pace». Nelle parole del generale dei gesuiti troviamo tutto il repertorio che ormai possiamo definire classico: no alla diversità, no alla paura della differenza, no alla costruzione di muri, sì alla realizzazione di ponti, no alla violenza. In modo altrettanto prevedibile, Sosa ha ringraziato i monaci, ha detto di aver imparato molto da loro, li ha lodati per la saggezza, ha detto di aver ricevuto insegnamenti ai quali pensare ed ha aggiunto che è «profondamente consolante vedere come siamo uniti nel nostro desiderio di promuovere la pace e la riconciliazione nel mondo». È inoltre «confortante – ha aggiunto – vedere come condividiamo la consapevolezza che il cammino verso la pace inizia dall’interno, dalla profonda trasformazione dell’interiorità della persona, dalla crescita nel distacco e nell’amore-benevolenza».

E ancora: «Sono grato per ciò che i miei fratelli gesuiti fanno per promuovere il dialogo con il buddismo qui in Cambogia, sia a livello di scambio accademico, sia nella preghiera comune o nello standard condiviso di vita e di azione al servizio dei poveri. Grazie per la testimonianza significativa e ispiratrice di come vivete la nostra missione di riconciliazione».

Naturalmente non poteva mancare un riferimento al papa Francesco. Eccolo: «Tra le tante cose che ho imparato da Papa Francesco, c’è la sua insistenza sull’importanza di creare una cultura dell’incontro. Utilizza sempre questa espressione. Egli ritiene che nel nostro mondo diviso, nel quale alcuni vogliono costruire muri, occorra promuovere l’incontro, senza paura e nel rispetto: persone che incontrano persone, ascoltandosi reciprocamente, costruendo relazioni e amicizie».

Ecco qua. Ripeto: sono parole che non stupiscono. Perché sono le solite. E non stupisce nemmeno che il generale dei gesuiti, salutando e ringraziando gli amici buddisti, non accenni minimamente al suo Dio, il Dio della Bibbia, e al Figlio di Dio, quel Gesù rispetto al quale lo stesso Sosa, non molto tempo fa, ha detto che non possiamo essere del tutto sicuri di quanto ha insegnato, perché a quei tempi gli evangelisti non avevano un registratore. E l’idea di Verità? E l’idea di Chiesa, di unica Chiesa del Signore? Figuriamoci. Nella Neochiesa non si parla di queste cose.

Insomma, tutto nella norma, tutto secondo previsioni, tanto che i testi di certi discorsi, ormai, assomigliano ai prestampati in uso nelle amministrazioni burocratiche, dove basta cambiare la data, l’intestazione e i nomi, tanto i concetti sono sempre gli stessi.

Ma allora, direte voi, perché stare qui a occuparsi del padre Sosa e della sua corrispondenza d’amorosi sensi con i buddisti?

Beh, ecco, vi consiglio di dare un’occhiata alla fotografia pubblicata dagli stessi gesuiti. Qui non posso metterla, ma basta andare, per esempio, nel sito «onepeterfive», dov’è pubblicata a corredo di un articolo del sempre efficace Steve Skojec, intitolato « Jesuit Website Refers to Fr. Sosa as the First Superior General to “Baptize Himself a Buddhist”».

Guardiamola bene, quella foto. Un’immagine, a volte, può valere più di tante parole, ed è questo il caso. Eccolo lì, il padre Sosa, successore di sant’Ignazio, in mezzo ai monaci. Accanto a sé ha un altro gesuita. Entrambi sono scalzi e seduti alla maniera buddista. La foto è stata scattata in un tempio e ci sembra di udire i tipici canti, innalzati allo scopo di ottenere la pace interiore e la liberazione dalle passioni. Osserviamo il volto del padre Sosa e il suo atteggiamento. È in raccoglimento! Ha le mani giunte! E non ride!

Di solito non abbondo con i punti esclamativi, ma qui faccio un’eccezione. Credo sia la prima foto, fra tutte quelle che ho visto, nella quale il nuovo generale dei gesuiti sta pregando, ha le mani giunte e non si sta sganasciando dalle risate. Ovviamente non è vestito da prete, ma insomma non è che si può avere tutto.

Nel momento in cui il fotografo scatta, il padre Sosa si rende conto di essere finito nell’obbiettivo e lo guarda. Tuttavia non perde la concentrazione e mantiene una compostezza esemplare. Perfino i baffetti bianchi, che di solito, sul volto sorridente del generale, hanno un che di malandrino, in questa occasione mostrano un contegno del tutto nuovo.

Ecco, questa è la notizia: vediamo il generale dei gesuiti in raccoglimento, con la faccia seria e addirittura con le mani giunte!

Che cosa starà pensando? Starà pregando? E, se sta pregando, a quale divinità si sta rivolgendo? Non lo sappiamo, ma in fondo ha poca importanza. La notizia è che il padre Sosa qui è serio!

E per questo non finiremo mai di ringraziare i buddisti.



Aldo Maria Valli









giovedì 20 luglio 2017

Ratisbona, Gotti Tedeschi: "Scandali per avvertire, li conosco. Occorre capire rinuncia Ratzinger"








Gotti Tedeschi intervistato da Marta Moriconi su IntelligoNews.   (20 luglio 2017)


Un nuovo scandalo ha investito in queste ore la Chiesa. E' infatti venuta alla luce la vicenda di 547 bambini che, tra il 1945 e l'inizio degli anni '90, avrebbero subito violenze nel coro del Duomo di Ratisbona, il più antico coro di voci bianche del mondo e che fu anche diretto per trent'anni dal fratello del papa emerito Benedetto XVI, Georg Ratzinger. A fornire i numeri delle presunte violenze, l'avvocato Ulrich Weber, incaricato dalla Chiesa di far luce sul presunto scandalo. Secondo quanto rilevato dal legale in quel lungo periodo, bambini e ragazzi subirono violenze corporali e 67 violenze sessuali, in alcuni casi entrambe. L'indagine avrebbe permesso di identificare 49 responsabili, anche se difficilmente ci saranno processi perché i reati sono prescritti. Molti ritengono questo scandalo costruito ad arte per colpire il Papa emerito Benedetto XVI, una figura scomoda e combattuta. Intelligonews ha sentito il parere autorevole dell'economista cattolico, già direttore dello Ior Ettore Gotti Tedeschi.


Caso Ratisbona. Si parla di più di 500 vittime di violenza. E' una fase di indagine, ma già gridano al silenzio complice della Chiesa. Lei come valuta quanto emerso finora?
"Distinguerei le ragioni di questo supposto avvertimento dalle modalità. Per quanto riguarda le ragioni, devo dire che era scontato venisse fuori per due motivi in particolare. Il primo è da legare alle non gradite considerazioni fatte dal Papa emerito sull’introduzione al libro del cardinal Sarah e quelle dedicate al cardinal Meisner, durante l’elogio funebre. Il secondo motivo risiede nella “caduta in disgrazia”, con seguito di polemiche inevitabili, del Prefetto della dottrina della Fede, cardinale Muller (vescovo di Ratisbona dal 2002 al 2012). Per quanto riguarda invece le modalità, come sorprenderci dell’utilizzo di notizie di scandali per avvertire? Siamo freschi di identiche esperienze riferite al cardinal Pell poche settimane fa. Essendo questa una esperienza che ho provato personalmente, che devo dirle? Un numero infinito di personalità non allineate in Vaticano staranno ora provvedendo a preparare difese per quello che accadde quando, all’asilo, avevano dato un calcio alla insegnante o rubato la merendina al compagno di banco. Ma è evidente che questo rapporto di correlazione perfetta di causa-effetto, sarà spiegato correttamente dai soliti zelanti leccacalzini in carriera".


Per 30 anni ha diretto il coro di Ratisbona proprio il fratello di papa Ratzinger. Georg Ratzinger fa sapere: "Anche io ho dato ceffoni ma non sapevo delle violenze". Secondo lei stanno gettando fango su di lui e su Muller che era Vescovo di Ratisbona e che viene accusato per i modi in cui ha gestito la vicenda subito dopo le denunce?
"Mi passi una battuta "politico-educativa": chissà quanto bene ha fatto a taluni allievi Monsignor Georg Ratzinger, con un paio di buffetti o sculacciate paterne, come certamente avrà avuto intenzione di fare, soprattutto nei tempi e con i modelli educativi di allora, ossia di cinquant'anni fa. Se andassimo un po’ più indietro nel tempo ci si riferirebbe anche magari a punizioni corporali con vergate o di forzatura sadica a inginocchiarsi sul sale".


Ratzinger in occasione del funerale di Meisner ha parlato di una crisi della Chiesa. Secondo lei non è una strana coincidenza che proprio adesso colpiscano suo fratello Georg?
"Ho avuto il privilegio di lavorare al servizio di Benedetto XVI, uno dei più grandi Papi della storia della Chiesa, destinato a esser considerato “magno” anche se non riconosciuto tale ufficialmente. Le vorrei anticipare una chiave di interpretazione d’insieme un po’ criptica: per comprendere le ragioni della rinuncia di Benedetto XVI si deve comprendere la nomina del successore. Per comprendere la nomina del successore, si deve aver capito la ragione della rinuncia. Prenda pure una aspirina …"


Ah, prepariamoci dunque ad approfondire. I giornali titolano tutti sulla trasparenza di Papa Francesco, ma quella di Ratzinger (anche ai tempi in cui lei era presidente dello Ior) è sottovalutata?
"Meglio che io non dica per la seconda volta quello che penso. Le do una risposta indiretta. A dicembre del 2014, il cardinal Pell rilasciò un' intervista a uno dei più prestigiosi magazine cattolici europei, il Catholic Herald Tribune, in cui spiegava che finalmente con Papa Francesco si stava facendo vera trasparenza. Su richiesta del direttore del Catholic Herald risposi con un successivo articolo, l’8 gennaio 2015 (What Cardinal Pell needs to know). In questo articolo sottoposi a Sua Eminenza almeno 5 domande, al fine di permettergli di testare personalmente se sapesse veramente di cosa stesse parlando e quanto conoscesse delle azioni di trasparenza intraprese sotto il pontificato di Benedetto XVI. Il cardinale non rispose, ma poco tempo dopo in una intervista su un quotidiano italiano Repubblica, se ricordo bene, riconobbe che il processo di trasparenza era già stato avviato con Benedetto XVI (riconoscendo persino il mio personale ruolo). Sarà anche per questa ammissione che anche il cardinal Pell è stato diciamo “sacrificato”?"



















Il ricordo di Meisner e i segnali di Ratzinger





di Aldo Maria Valli  (19/07/2017)

Non so se siete d’accordo, ma trovo che il messaggio di Benedetto XVI in memoria dell’amico Joachim Meisner, oltre a essere bellissimo per semplicità, profondità ed eleganza, contenga alcuni messaggi che Joseph Ratzinger ha voluto comunicarci e la cui portata va ben al di là del ricordo di un pastore tanto apprezzato dal papa emerito.

Nell’esprimere il suo affetto profondo per il cardinale morto il 5 luglio Ratzinger ci invita a riflettere su alcuni punti che ci dicono molto anche di lui, di Benedetto XVI, di come vede la Chiesa oggi, del modo in cui sta vivendo questa fase della sua vita e delle priorità che i fedeli devono avere ben presenti.

Sandro Magister nel suo blog «Settimo cielo» ha pubblicato il testo integrale nella traduzione italiana dall’originale tedesco, e così possiamo gustare il messaggio parola parola.

Leggiamo dunque le parole di Ratzinger e poi evidenziamo alcuni punti.



In questa ora…

In questa ora, in cui la Chiesa di Colonia e i suoi fedeli danno l’addio al cardinale Joachim Meisner, sono con loro con il mio cuore e i miei pensieri e volentieri acconsento alla volontà del cardinale Woelki e indirizzo a loro una parola di riflessione.

Quando ho appreso mercoledì scorso per telefono della morte del cardinale Meisner, in un primo momento non ci ho creduto. Il giorno prima avevamo parlato al telefono. La sua voce era piena di gratitudine perché era giunto per lui il momento delle vacanze, dopo che era stato presente, la domenica precedente, a Vilnius, alla beatificazione del vescovo Teofilius Matulionis [1873 – 1962, arcivescovo cattolico lituano, vittima delle persecuzioni anticristiane nell’Unione Sovietica, fu prigioniero a più riprese nei gulag staliniani, anche nelle Isole Solovki e in Siberia, ndr]. Il suo grande amore per le vicine Chiese dell’Est che avevano tanto sofferto la persecuzione sotto il comunismo, così come la sua gratitudine per la loro resistenza alla sofferenza in quel tempo avevano impresso in lui una durevole impronta. Quindi non è stato certamente un caso che l’ultima visita della sua vita sia stata fatta a un confessore della fede.

Quello che mi ha più colpito nell’ultima conversazione con il cardinale, ora tornato a casa, è stata la sua naturale serenità, la sua pace interiore e la fiducia che aveva trovato. Sappiamo che è stato duro per lui, appassionato pastore e guida di anime, lasciare il suo ufficio, e proprio in un momento in cui la Chiesa aveva un urgente bisogno di pastori capaci di opporsi alla dittatura dello spirito del tempo e pienamente risoluti ad agire e pensare da un punto di vista di fede. Ma mi ha ancor più impressionato che nell’ultimo periodo della sua vita egli abbia imparato a lasciar procedere le cose, e a vivere sempre più con la certezza profonda che il Signore non abbandona la sua Chiesa, anche se a volte la barca è quasi sul punto di naufragare.
Ci sono state due cose in quest’ultimo periodo che lo hanno reso sempre più felice e sicuro. La prima è quella che mi ha detto più volte: che ciò che lo riempiva di gioia profonda era la percezione, nel sacramento della penitenza, di quanto i giovani, soprattutto i giovani maschi, sperimentino la misericordia del perdono, il dono di aver veramente trovato la vita che solo Dio può dare loro.
L’altra cosa che lo ha tante volte commosso e reso felice è stata la percepibile crescita dell’adorazione eucaristica. È stato questo per lui il tema centrale della Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia: che vi è stata un’adorazione, un silenzio, in cui solo il Signore parlava ai cuori. Alcuni esperti di pastorale e di liturgia erano dell’opinione che un simile silenzio nella contemplazione del Signore con un così gran numero di persone non poteva reggere. Alcuni di essi erano anche del parere che l’adorazione eucaristica fosse superata in quanto tale, poiché il Signore ha voluto essere ricevuto e non guardato nel Pane eucaristico. Ma il fatto che non si può mangiare questo Pane come qualsiasi altro nutrimento e che «ricevere» il Signore nel sacramento eucaristico include tutte le dimensioni della nostra esistenza fa sì che questo ricevere deve essere adorazione, e ciò è qualcosa che diventa di giorno in giorno sempre più chiaro. Così il tempo dell’adorazione eucaristica nella Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia è diventato un evento interiore che è rimasto indimenticabile, e non solo per il cardinale. Da allora, quel momento è stato sempre per lui costantemente presente nell’intimo ed è stata per lui una grande luce.
Quando l’ultima mattina il cardinale Meisner non si è presentato per la messa, è stato trovato morto nella sua stanza. Il breviario era sfuggito dalle sue mani: era morto mentre pregava, con lo sguardo al Signore, in conversazione con il Signore. Il tipo di morte che gli è stato dato ha dimostrato ancora una volta come egli ha vissuto: con il suo volto rivolto al Signore e in conversazione con Lui. Così possiamo fiduciosamente affidare la sua anima alla bontà di Dio.
Signore, grazie per la testimonianza del tuo servo Joachim! Fa’ che egli ora interceda per la Chiesa di Colonia e per tutto il mondo. «Requiescat in pace!».


Ecco, credo che in questo messaggio Benedetto XVI ci dica molto si sé, così come delle sue preoccupazioni e delle sue speranze per la fede e la Chiesa. Ogni parola andrebbe analizzata, ma mi limito ai concetti che mi hanno colpito di più.

A un certo punto Joseph Ratzinger dice che «non è stato certamente un caso» che l’ultima visita di Meisner «sia stata fatta a un confessore della fede».

Confessare la fede, specie nei momenti più difficili, quando tutto sembra perduto: qui c’è un mandato. Se non è possibile con le parole e con i gesti, se le circostanze impediscono una professione pubblica, la vita stessa di una persona, con la sua fedeltà e la sua coerenza, può diventare confessione. Specie in un’epoca come la nostra, segnata da un processo di secolarizzazione che interessa la Chiesa stessa, è la testimonianza quella che conta, e occorre che i fedeli facciano attenzione ai segni che Dio invia agli uomini attraverso i testimoni della fede.

Ricordo che, a questo proposito, in «Gesù di Nazaret» Benedetto XVI parla dei «deboli segnali che Dio manda nel mondo e che in questo modo rompono la dittatura della consuetudine». Sono segnali che vanno non solo recepiti, ma anche cercati, e per far questo occorre mantenere viva la sensibilità adatta. Le persone in grado di cogliere i deboli segnali di Dio, scrive Benedetto XVI nel libro, «scrutano attorno a sé alla ricerca di ciò che è grande, della vera giustizia, del vero bene», sono persone «che non si accontentano della realtà esistente e non soffocano l’inquietudine del cuore, quell’inquietudine che rimanda l’uomo a qualcosa di più grande e lo spinge a intraprendere un cammino interiore».

Un secondo punto importante si trova là dove Ratzinger, parlando di Meisner, ne sottolinea la «naturale serenità, la sua pace interiore e la fiducia che aveva trovato» nella vecchiaia. Una serenità, una pace e una fiducia che certamente anche Benedetto XVI ha cercato dopo la rinuncia al pontificato ma forse, per tanti motivi, non ha ancora pienamente raggiunto. È un tesoro al quale il papa emerito guarda con tanto desiderio e continua a cercare nella preghiera, nella vicinanza al Signore e con il contributo di persone amiche.

E qui, collegato al precedente, c’è un terzo punto importante. È chiaro che quando Ratzinger parla dei pastori «capaci di opporsi alla dittatura dello spirito del tempo e pienamente risoluti ad agire e pensare da un punto di vista di fede» ha in mente anche a se stesso e la sua esperienza di pastore supremo. Senza voler forzare il pensiero di Benedetto XVI, sembra quasi affiorare una domanda: sarò stato capace di svolgere questo compito? Sarò stato sufficientemente risoluto in un tempo in cui la Chiesa ha così tanto bisogno di autentici pastori? E la mia scelta di rinunciare al soglio di Pietro sarà stata utile sotto questo profilo?

Subito dopo, la figura dello stesso Ratzinger emerge con chiarezza. Quando Benedetto XVI si dice impressionato dall’amico che nell’ultimo periodo della sua vita ha imparato «a lasciar procedere le cose, e a vivere sempre più con la certezza profonda che il Signore non abbandona la sua Chiesa, anche se a volte la barca è quasi sul punto di naufragare», lì , sia pure in controluce, vediamo Benedetto XVI, e lo vediamo proprio nel momento al tempo stesso drammatico e liberatorio della rinuncia, una scelta fatta con totale fiducia nel Signore che non abbandona la Chiesa, anche se il disastro, da un punto di vista umano, sembra così vicino.

Il riferimento alla barca rimanda direttamente alle parole pronunciate da Joseph Ratzinger il 18 aprile 2005, nella «Missa pro eligendo romano pontifice», in quello che, alla vigilia del conclave, risulterà quasi il «manifesto elettorale» del futuro papa: «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero… La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».

La barca è squassata dalle onde, sembra alla deriva, ma il Signore non permette il naufragio e non manda mai una prova senza donare la forza per affrontarla. Proprio quando il naufragio appare più vicino bisogna alzare bene le antenne, alla ricerca di quei «deboli segnali» che Dio non si stanca di inviare, e questo è dovere di tutti, consacrati e laici, e tutti devono aiutarsi nel diventare come «radioamatori» dell’anima, capaci di mettersi sulla lunghezza d’onda di Dio.

E ora veniamo all’adorazione eucaristica. Nella Gmg del 2005 io ero a Colonia come cronista e ricordo bene quella sera: l’adorazione eucaristica da parte di centinaia di migliaia di giovani radunati per la veglia nella spianata di Marienfeld fu un fatto senza precedenti. Il silenzio fu totale, il raccoglimento assoluto. Quei ragazzi e quelle ragazze lanciarono un messaggio potente. Inginocchiati, in preghiera, dimostrarono nel modo più efficace che l’adorazione eucaristica non è qualcosa di superato, ma sta nel cuore dell’esperienza di fede e smentirono i presunti esperti di liturgia e di pastorale secondo i quali l’esperimento sarebbe fallito.

Ma perché Benedetto XVI, rievocando quella veglia di preghiera con i giovani a Colonia, a proposito dell’Eucaristia tiene a sottolineare che «non si può mangiare questo Pane come qualsiasi altro nutrimento», che «”ricevere” il Signore nel sacramento eucaristico include tutte le dimensioni della nostra esistenza» e che «questo ricevere deve essere adorazione, e ciò è qualcosa che diventa di giorno in giorno sempre più chiaro»?

Queste annotazioni, sintetiche ma precise, sono a loro volta segnali che Benedetto XVI sta mandando. E ci ricordano un altro intervento di Joseph Ratzinger. Mi riferisco al breve discorso a braccio tenuto il 28 giugno dell’anno scorso, in occasione del sessantacinquesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale. Quel giorno non era previsto che, dopo le parole di Francesco, parlasse anche Benedetto, ma il papa emerito (che per la prima volta tornava nel palazzo apostolico dopo la rinuncia) parlò e un certo punto propose una riflessione incentrata, anche lì, sull’Eucaristia. Ricordando la parola che un amico ordinato lo stesso giorno (si chiamava Berger) volle sull’immaginetta commemorativa, «Eucharistomen», disse: «”Eucharistomen”: in quel momento l’amico Berger voleva accennare non solo alla dimensione del ringraziamento umano, ma naturalmente alla parola più profonda che si nasconde, che appare nella liturgia, nella Scrittura, nelle parole “gratias agens benedixit fregit deditque”. “Eucharistomen” ci rimanda a quella realtà di ringraziamento, a quella nuova dimensione che Cristo ha dato. Lui ha trasformato in ringraziamento, e così in benedizione, la croce, la sofferenza, tutto il male del mondo. E così fondamentalmente ha transustanziato la vita e il mondo e ci ha dato e ci dà ogni giorno il Pane della vera vita, che supera il mondo grazie alla forza del Suo amore. Alla fine, vogliamo inserirci in questo “grazie” del Signore, e così ricevere realmente la novità della vita e aiutare per la transustanziazione del mondo: che sia un mondo non di morte, ma di vita; un mondo nel quale l’amore ha vinto la morte».

Mi sono sempre chiesto perché quel giorno, con tanta precisione, Benedetto XVI volle puntare sull’Eucaristia e sulla transustanziazione. E adesso, nel messaggio per l’amico Meisner, ecco di nuovo un riferimento al Pane eucaristico che «non si può mangiare come qualsiasi altro nutrimento» e di fronte al quale non si può rinunciare all’adorazione. Un’insistenza che non può essere casuale.

Ho visto che alcuni commentatori, non senza malizia, si sono chiesti se il messaggio in memoria di Meisner è stato scritto proprio da Benedetto XVI. Per quanto mi riguarda, non solo sono del tutto sicuro che sia farina del suo sacco, ma credo che sia molto importante interrogarci sui segnali che Ratzinger ha voluto mandarci.



Aldo Maria Valli

















mercoledì 19 luglio 2017

Migranti, la Bonino ora predica in chiesa: scoppia la rivolta fra i cattolici





La storica esponente radicale presenterà la campagna "Ero straniero" in una chiesa del Biellese: ma i cattolici più tradizionalisti non dimenticano il suo passato di abortista





Luca Romano - Mer, 19/07/2017

Che Emma Bonino sia disposta a parlare dal pulpito di una chiesa non sorprende.

In piena tradizione radicale, infatti, l'ex ministro degli Esteri non ha paura a confrontarsi anche con ambienti ed uditorii da lei distanti per tradizioni e ispirazioni.


A spaccare il mondo cattolico, piuttosto, è la scelta di invitarla a predicare su iniziativa di un movimento a cui ha aderito anche Papa Francesco. Il prossimo 26 luglio la storica esponente radicale, infatti, verrà ospitata nella chiesa di San Defendente a San Rocco di Cossato, nel Biellese. Qui terrà un intervento per presentare la campagna "Ero straniero - l'umanità che fa bene". Una campagna a cui peraltro hanno aderito moltissime sigle e organizzazioni cattoliche, a partire dalla Caritas e a cui ha dato la propria benedizione anche il Pontefice.


La scelta di far parlare la Bonino in chiesa, però, ha suscitato le ire dei settori più tradizionalisti della galassia cattolica: molti blog di area, infatti, hanno biasimato di far salire sull'ambone una storica abortista ed anticlericale. Il vaticanista Marco Tosatti, dalle colonne del suo blog Stilum Curiae, non manca di scagliarsi contro "un entrare in chiesa non certo inteso a chiedere perdono a Dio e agli uomini per la sua partecipazione alla soppressione di un numero straordinario di esseri umani."


Gli fa eco il blogger Danilo Quinto, subito seguito dalla Voce di Don Camillo. Tutti concordi nel sottolineare quella che, a loro parere, è una contraddizione stridente. E negli ambienti di centrodestra c'è anche chi accusa le autorità ecclesiastiche - il parroco di San Defendente proviene dall'esperienza delle comunità di base, di tradizione postconciliare e sessantottina - di "favorire l'invasione" degli immigrati.




Fonte: Il Giornale 




lunedì 17 luglio 2017

«Non calpestare e non intorbidare»







di Giovanni Scalese  (17/07/2017

Nell’odierno Officium lectionis (1), la liturgia ci propone un testo di Agostino, tratto dal Sermo de ovibus (47, 12-14), nel quale il Santo Dottore, pur ribadendo che la cosa piú importante è avere una coscienza tranquilla («Questo è il nostro vanto: la testimonianza della nostra coscienza», 2Cor 1:12), ci invita a evitare qualsiasi atteggiamento che possa turbare la coscienza dei deboli:


Curemus ergo, fratres non tantum bene vivere, sed etiam coram hominibus bene conversari, nec tantum curare habere bonam conscientiam, sed quantum potest nostra infirmitas, quantum vigilantia fragilitatis humanae, curemus nihil etiam facere quod veniat in malam suspicionem infirmo fratri.

Cerchiamo dunque, fratelli, non soltanto di vivere bene, ma anche di comportarci bene davanti agli uomini. Non tendiamo solo ad avere una retta coscienza, ma per quanto lo comporta la nostra debolezza e lo consente la fragilità umana, sia anche nostro fermo impegno non compiere nulla che possa destare un cattivo sospetto nel fratello debole.

Potrebbe sembrare che le due cose si oppongano fra loro. Agostino riporta quindi due coppie di citazioni, due tratte dall’epistolario paolino e due dal vangelo, per dimostrare che si tratta di esigenze complementari, entrambe presenti nella Scrittura.


Ecco che cosa dice Paolo:

Se cercassi di piacere agli uomini, non sarei servitore di Cristo (Gal 1:10);
[Cercate di piacere a tutti in tutto] cosí come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto (1Cor 10:33; si tenga presente che Agostino cita la Bibbia secondo la Vetus Latina, che spesso si discosta anche sensibilmente dalla successiva Vulgata).
Ed ecco che cosa troviamo scritto nel vangelo:
Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli (Mt 5:16);
State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini (Mt 6:1; si noti che entrambe le citazioni sono tratte dal discorso della montagna).
Chiosa Agostino:
Sicut tibi in Apostolo ista contraria videbantur, sic et in Evangelio. Si autem non perturbas aquam cordis tui, et hic agnosces pacem Scripturarum, et habebis cum eis et tu pacem.
Come questi insegnamenti ti sembravano contraddittori nell’Apostolo, cosí avviene nel vangelo. Se però non intorbidi l’acqua del tuo cuore, anche qui riconoscerai l’armonia delle Scritture e anche tu sarai in piena armonia con loro.
Che nelle Scritture ci siano affermazioni apparentemente contraddittorie, non è una novità. Dopotutto, si tratta della rivelazione di un mistero che supera le nostre limitate capacità di comprensione. L’unica cosa che possiamo fare è di tenere insieme tali affermazioni, convinti che esse non sono realmente in contraddizione fra loro. Perché questo possa avvenire, è necessario non “intorbidare l’acqua del cuore”. Che intende dire Agostino?

Che le Scritture devono essere per noi il pascolo a cui nutrirci, il torrente a cui dissetarci. E noi dobbiamo limitarci a nutrirci di esse e a dissetarci ad esse, senza calpestare l’erba che mangiamo e senza intorbidare l’acqua che beviamo:
Tu tantum pasce et bibe, noli conculcare et turbare.
Tu mangia e bevi solamente, non calpestare [quello che mangi] e non intorbidare [quello che bevi].
… ne forte puras herbas mandendo et puras aquas bibendo, conculcemus pascua Dei, et oves infirmae conculcatum manducent, et turbatum bibant.
Mentre mangiamo buone erbe e beviamo acque limpide, non calpestiamo i pascoli di Dio, perché le pecore inferme non abbiano a mangiare ciò che è calpestato, e a bere ciò che è stato intorbidato.
Leggendo questo bel passo di Agostino, mi veniva di fare una riflessione. Ciò che l’Ipponate ci chiede di evitare (conculcare et turbare le Scritture) è esattamente ciò che è avvenuto nella Chiesa nell’ultimo secolo (in campo protestante tale processo era iniziato con qualche decennio di anticipo): invece di accostarci alla Bibbia come al pascolo a cui nutrirci e al torrente a cui dissetarci, ci siamo divertiti a calpestarne le erbe (puras herbas) e a intorbidarne le acque (puras aquas). Con quale risultato? Una gran confusione, che non giova certo alle pecore deboli, ma neppure a quelle che si illudono di essere piú forti.


Ai nostri giorni poi l’intorbidamento, dalle Scritture, è stato esteso a tutto il corpusdottrinale della Chiesa: ciò che era chiaro (per quanto potesse esserlo alle nostre menti limitate), ora non lo è piú. La confusione regna sovrana. E chi si preoccupa che le pecore inferme abbiano a mangiare ciò che è calpestato e a bere ciò che è intorbidato? Dovrebbe essere questa la prima preoccupazione di una Chiesa in stato di permanente “conversione pastorale e missionaria” (EG 25). Ma, a quanto pare, sembra che oggi all’acqua limpida si preferisca quella torbida...





(1) Questo testo di Agostino viene proposto oggi nel lezionario biblico-patristico a ciclo biennale (L’Ora dell’Ascolto, a cura dell’UMIL, Piemme-Edizioni del Deserto, Casale Monferrato, 1989). Nel ciclo unico, riportato della Liturgia delle ore, esso viene letto il martedí della XIII settimana per annum.

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Pubblicato da Querculanus 











domenica 16 luglio 2017

Benedetto XVI: "La Chiesa ha bisogno di pastori che resistano alla dittatura dello spirito del tempo"

Benedetto XVI (LaPresse)



Lungo messaggio inviato da Joseph Ratzinger ai solenni funerali dell'amico Joachim Meisner, cardinale e arcivescovo emerito di Colonia, morto improvvisamente



di Matteo Matzuzzi  (16 Luglio 2017)

Roma. E’ stato mons. Georg Gaenswein a leggere, nella cattedrale di Colonia, il lungo messaggio che il Papa emerito Benedetto XVI ha scritto per ricordare il cardinale Joachim Meisner, per venticinque anni arcivescovo della città sul Reno e, soprattutto, suo grande amico. Ai solenni funerali erano presenti diversi porporati, tra cui i cardinali Gerhard Ludwig Müller , Dominik Duka, Reinhard Marx e Péter Erdo, che ha tenuto l’omelia. A presiedere il rito, l’attuale arcivescovo di Colonia, il cardinale Rainer Maria Woelki, già segretario dello stesso Meisner.


“Quando mercoledì scorso ho appresto, da una telefonata, la notizia della morte del cardinale Meisner, in un primo momento non ci ho creduto”, ha scritto Joseph Ratzinger, ricordando che solo il giorno prima i due si erano sentiti, parlando anche della felicità dell’arcivescovo emerito di Colonia defunto per aver potuto partecipare solo il 25 giugno, a Vilnius, alla beatificazione di mons. Mautolionis. “Aveva un grande amore per le chiese dell’Europa dell’est che tanto soffrirono la persecuzione comunista”, prosegue il Papa emerito: “Quello che mi ha colpito particolarmente nei recenti colloqui con il cardinale defunto sono state la serenità, la gioia interiore e la fiducia che aveva trovato. Sappiamo che era un pastore appassionato, e l’ufficio di pastore è difficile, proprio in un momento in cui la Chiesa ha bisogno di pastori convincenti che sappiano resistere alla dittatura dello spirito del tempo e sappiano decisamente vivere con fede e ragione. Mi ha commosso anche il fatto che ha vissuto in questo ultimo periodo della sua vita sempre di più con la certezza profonda che il Signore non abbandona la sua Chiesa, anche se a volte la barca si è riempita fino quasi a capovolgersi”.


Due cose negli ultimi tempi gli piaceva ricordare, ha aggiunto Benedetto XVI a proposito di Meisner: “la profonda gioia gioia di vivere il sacramento della penitenza” e qui c’è il rimando alla Giornata mondiale della gioventù del 2005 che si tenne proprio a Colonia, con il Papa emerito a sottolineare che “alcuni esperti di pastorale e liturgia credevano che il silenzio non potesse essere raggiunto agli occhi del Signore con un gran numero di persone” e alcuni – osserva ancora Ratzinger – “credevano che l’adorazione eucaristica fosse datata in quanto tale, perché il Signore dovrebbe essere ricevuto nel pane eucaristico e non in modo diverso”.


Quindi, le ultime parole di ricordo: “Quando il cardinale Meisner non è andato alla messa, l’ultima mattina, è stato trovato morto nella sua stanza. Il breviario gli era scivolato dalle mani: stava pregando, morto, davanti al Signore, parlando con Lui. Il genere di morte che gli è stato dato dimostra ancora una volta come ha vissuto alla presenza del Signore e in conversazione con Lui”.







fonte: IL FOGLIO 




16 luglio Madonna del Carmelo





Consacrazione alla Madonna del Carmelo 

O Maria, Madre e decoro del Carmelo, a te consacro oggi la mia vita, quale piccolo tributo di gratitudine per le grazie che attraverso la tua intercessione ho ricevuto da Dio.
Tu guardi con particolare benevolenza coloro che devotamente portano il tuo Scapolare: ti supplico perciò di sostenere la mia fragilità con le tue virtù, d'illuminare con la tua sapienza le tenebre della mia mente, e di ridestare in me la fede, la speranza e la carità, perché possa ogni giorno crescere nell'amore di Dio e nella devozione verso di te.
Lo Scapolare richiami su di me lo sguardo tuo materno e la tua protezione nella lotta quotidiana, sì che possa restare fedele al Figlio tuo Gesù e a te, evitando il peccato e imitando le tue virtù.
Desidero offrire a Dio, per le tue mani, tutto il bene che mi riuscirà di compiere con la tua grazia; la tua bontà mi ottenga il perdono dei peccati e una più sicura fedeltà al Signore.
O Madre amabilissima, il tuo amore mi ottenga che un giorno sia concesso a me di mutare il tuo Scapolare con l'eterna veste nuziale e di abitare con te e con i Santi del Carmelo nel regno beato del Figlio tuo che vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Alcuni elementi di devozione alla Vergine

Fu chiesto un giorno a Lucia di Fatima perché i primi sabati dovevano essere cinque. Ella si rivolse a Gesù che le spiegò così: «Sono di cinque specie le offese contro il Cuore Immacolato di Maria:

Le bestemmie contro l’Immacolata Concezione.
Le bestemmie contro la sua Verginità.
Le bestemmie contro la Maternità divina e il rifiuto di accettarla quale Madre degli uomini.
L’azione di coloro che cercano di infondere nel cuore dell’infanzia l’indifferenza, il disprezzo e anche l’odio contro questa Madre Immacolata.
Le profanazioni delle sue sacre immagini».
Gesù ha amato talmente la Madonna, che l’ha fatta Immacolata, l’ha resa sua Madre, l’ha conservata sempre Vergine intatta, l’ha associata a sé come Corredentrice, l’ha costituita Mediatrice di tutta la grazia, l’ha portata in Paradiso con l’anima e con il corpo, l’ha incoronata Regina del cielo e della terra.
(Padre Stefano M.Manelli - “O Rosario benedetto di Maria!” - Casa Mariana Editrice)







fonte: Chiesa e postconcilio




sabato 15 luglio 2017

Caro papa ti scrivo. Le proposte di un teologo a Francesco




di Aldo Maria Valli (14/07/2017)

Tornare a suscitare nei fedeli il santo timor di Dio, raccomandare l’osservanza dei comandamenti, precisare il concetto di misericordia collegandolo alla giustizia, ricordare le conseguenze del peccato originale, ribadire che la legge divina universale ha valore oggettivo, riaffermare il primato del cattolicesimo e sottolineare che «extra Ecclesiam nulla salus», ripensare il dialogo ecumenico con i luterani aiutandoli a ritrovare la piena comunione con il romano pontefice, limitare gli interventi pubblici improvvisati, limitare il rischio di usare un linguaggio impreciso o improprio.

Questi alcuni dei punti al centro di tre messaggi che un teologo italiano ha inviato di recente a papa Francesco, assieme a un’attestazione di stima e di affetto filiale per il pontefice.

Il teologo naturalmente non nasconde le sue perplessità circa il magistero di Francesco, ma, anziché scegliere la strada della polemica o della contrapposizione, ha preferito imboccare quella del suggerimento propositivo.

I tre messaggi sono stati inviati a Santa Marta, residenza del papa, tra la fine di giugno e l’inizio di questo mese di luglio. Ha fatto da tramite un religioso amico del teologo, un uomo di Chiesa che Francesco apprezza e che ha la possibilità di incontrare spesso il pontefice, a cadenza fissa, parlando con lui di tutto in modo aperto.

Sono in grado qui di riportare i contenuti delle tre lettere inviate al papa. Proponendoli ai lettori del mio blog non li sposo totalmente (per esempio, ho più di una perplessità circa ciò che il mittente sostiene a proposito di uso legittimo della forza). Non di meno giudico il contributo del teologo di grande importanza sia sotto il profilo delle questioni affrontate, perché aiuta il dibattito su questo pontificato a uscire da una certa indeterminatezza, sia sotto il profilo della strategia, perché fa capire che, pur in presenza di sensibilità diverse, c’è sempre la possibilità di collaborare con sincerità per il bene della Chiesa, a salvaguardia della fede e soprattutto per la gloria di Dio.



Sedici proposte

Sarebbe bene che il Papa parlasse di alcuni contenuti di fede, a integrazione dei temi che egli già sta trattando nella sua predicazione.
Bisogna tornare a suscitare nei fedeli il santo timor di Dio, che serve a distoglierci dal peccato ricordando le sue conseguenze, senza abbandonare la confidenza.
Ma questa confidenza dev’essere motivata dall’osservanza dei comandamenti e dalle opere buone, anche se è vero che queste a loro volta sono effetto della grazia. Dio ci giustifica, ma noi abbiamo il dovere di essere giusti. Dio ci salva solo se osserviamo i suoi comandamenti (Mt 19,17). E’ vero che noi possiamo convertirci a Lui, se Egli si converte a noi; ma vale anche l’inverso: Egli si converte a noi, se noi ci convertiamo a Lui, come dice il Concilio di Trento. Non possiamo infatti presumere di salvarci senza meriti.
Occorre quindi ricordare che Dio, nel suo sapiente giudizio, non usa sempre nei nostri confronti la misericordia, ma anche la severità. Egli perdona il peccato del peccatore pentito, ma castiga il peccatore ribelle, affinché rifletta e si converta.
Non bisogna credere che un Dio che castiga sarebbe un Dio crudele senza misericordia. Dio castiga paternamente, per il nostro bene e non usa la misericordia full-time, in modo indiscriminato, ma con saggezza e discernimento, solo a tempo e a luogo, sempre a fin di bene. Se Dio non fa misericordia, manifesta la sua bontà nella giustizia. E se non fa misericordia è solo perché l’uomo nel suo orgoglio la rifiuta.
Occorre ricordare le conseguenze del peccato originale. Il permanere della malizia degli uomini giustifica in certi casi l’uso della forza e della coercizione. Le operazioni belliche non sono quindi sempre effetto dell’odio e della violenza, ma possono essere giustificate anche nel nome della giustizia o della libertà, e quindi nel nome di Dio, vindice degli oppressi. Dio non vuole la violenza, ma la vittoria sui suoi nemici. Egli farà giustizia nella vita futura dei delitti restati impuniti in questa vita.
L’ostilità della natura nei nostri confronti è una delle conseguenze del peccato originale e può essere anche castigo salutare dei nostri peccati. Se così non fosse, si cadrebbe nell’errore di ammettere una natura cattiva indipendente da Dio, il che non ha senso.
Occorre ricordare il senso cristiano della sofferenza. Cristo con la sua Croce ha trasformato in mezzo di riparazione e di salvezza il castigo del peccato: «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di Lui»
(Is 53,5). «Satisfecit pro nobis», come dice il Concilio di Trento. La santa messa è appunto l’attualizzazione incruenta di questo Sacrificio redentore. La sofferenza degli innocenti dev’essere associata alla Croce del Signore.
Il peccato mortale causa la perdita della grazia, che dev’essere riacquistata col pentimento e le opere della penitenza. Non può essere in grazia né fruire della divina misericordia chi si trova in peccato mortale e non vuole uscire da questo stato.
Occorre ricordare che il peccato mortale non espiato merita l’inferno. Occorre dire anche che l’esistenza di dannati nell’inferno ci avverte che non dobbiamo prendere alla leggera il peccato con la scusa che Dio perdona, ma ricordarci della nostra parte di responsabilità nell’opera della nostra salvezza. Se infatti Dio vuole tutti salvi e dà a tutti i mezzi per salvarsi, tuttavia non si salva chi non corrisponde liberamente all’opera della grazia.
La legge morale naturale e la legge divina evangelica sono norme oggettive, universali, immutabili, ed indispensabili, benché possano essere sempre meglio conosciute nel corso della storia. Non ammettono eccezioni, ma devono essere sempre applicate in modi diversi a seconda delle situazioni e dei vari casi. Per esempio, la norma divina dell’indissolubilità del matrimonio. Invece il Papa, in forza del potere delle chiavi, può mutare la legge ecclesiastica, per esempio, quella riguardante la proibizione della Comunione ai divorziati risposati.
Bisogna ricordare l’importanza del dogma come interpretazione infallibile ed assolutamente vera, fatta dalla Chiesa, della Parola di Dio, morale o teoretica, contenuta nella Scrittura e nella Tradizione, e per conseguenza occorre ricordare il nostro dovere di riconoscere e respingere le eresie, secondo gli avvertimenti della Chiesa.
Il buon pastore ha comprensione e pietà per le debolezze umane, ma dev’essere esigente e severo contro la malizia, l’arroganza e l’empietà. Egli propone con chiarezza la norma morale nella sua elevatezza ed assolutezza, senza sconti, ma poi deve aiutare il prossimo con pazienza, fermezza e dolcezza nella graduale realizzazione del fine da raggiungere. Nessuno è tenuto all’impossibile, ma deve fare tutto quello che può chiedendo aiuto a Dio. Occorre evitare la rigidezza nella pastorale, ma essere duttili e flessibili, senza cadere nel permissivismo. Occorre invece essere fermi e ben fondati nella fedeltà alla legge di Dio, così da costruire sulla roccia.
L’opera più grande di Dio per l’uomo non è la misericordia, ma la glorificazione dell’uomo come figlio di Dio. In paradiso Dio non esercita più la misericordia, dato che non ci sono più miserie da togliere. E lo stesso dicasi dei beati. Il Papa dovrebbe parlare di più della vita eterna e del fine ultimo dell’uomo. La sua pastorale è troppo racchiusa nei doveri di questo mondo.
Il vertice della nostra carità non è la misericordia, ma la contemplazione del mistero trinitario. In paradiso non c’è più bisogno della misericordia, ma tutta la nostra vita si riassume nella beata visione di Dio. Il nostro problema fondamentale non è il problema della salvezza, ma vedere Dio.
Dio non è necessitato dalla sua essenza divina a far misericordia, come se il suo esercizio completasse la sua essenza, ma agisce per un liberissimo atto – «liberrimo consilio» dice il Concilio Vaticano I
– di amore gratuito. Dio è perfetto e felice anche senza il mondo. Siamo noi che non possiamo neppure esistere senza di Lui. Gesù Cristo certamente è Dio. Ma la natura umana di Cristo non completa la natura divina, non le è necessaria, ma si aggiunge ad essa rimanendole distinta, in quanto assunta dal Verbo in unità di Persona.
Occorre ricordare il primato del cattolicesimo sulle altre religioni e che solo nella Chiesa c’è salvezza, come insegna il Concilio di Firenze, benché l’appartenenza alla Chiesa possa essere inconscia.



Questi dunque i sedici punti al centro della prima lettera. E qui ecco il testo della seconda, inviata qualche giorno dopo.



Altri nodi centrali

Nel caso che il Santo Padre si degnasse di considerare benevolmente le mie proposte, mi permetterei di aggiungerne altre, che vorrebbero cogliere i nodi centrali della questione della predicazione del Papa e ai quali potrebbero ridursi le proposte precedenti.

Il nodo numero uno, principio di tutti gli altri, secondo me, è il rapporto del Papa con i luterani e quindi la questione dell’ecumenismo. La coscienza delle verità di fede, che abbiamo in comune con loro, è ormai chiara. Tuttavia occorre fare un passo ulteriore.

Il Papa, da padre buono, che vuole attorno a sé e con sé tutti i suoi figli, dovrebbe adesso, con coraggio e decisione, sulle orme di grandi santi come san Leone Magno, san Gregorio VII, sant’Ignazio di Loyola, san Domenico di Guzman, san Giovanni di Colonia, il beato Marco d’Aviano, san Pietro Canisio, san Roberto Bellarmino, san Francesco di Sales, porsi alla ricerca della pecorella smarrita e alla guida della seconda fase di quanto l’«Unitatis redintegratio» prescrive a noi cattolici: aiutare i fratelli separati ad entrare nella piena comunione col Romano Pontefice, togliendo quegli «ostacoli» e quelle «carenze», cioè quelle eresie già a suo tempo segnalate da Leone X e dal Concilio di Trento, che appunto impediscono a questi fratelli di essere in piena comunione con noi.

L’Europa potrà ritrovare le sue radici cristiane e tornare a svolgere la sua missione evangelizzatrice irradiante da Roma, solo quando essa, con i suoi «due polmoni», come disse Papa san Giovanni Paolo II, tornerà ad essere unita attorno al Romano Pontefice. L’Europa fa bene ad accogliere l’immigrazione islamica, me deve operare per la conversione a Cristo degli islamici.

Se il Papa non dà il via a questa seconda fase dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, i luterani in particolare penseranno di essere a posto, e così i cattolici si sentiranno attratti dall’etica luterana, meno esigente e prona a questo mondo. La Chiesa, invece di allargare i suoi confini, li restringerà.

Per imboccare questa via, il Santo Padre dovrebbe chiarire che i modernisti, e soprattutto Karl Rahner, hanno frainteso in senso lassista e relativista il vero significato dell’ecumenismo e più in generale delle dottrine del Concilio, come già aveva fatto notare Papa Benedetto XVI, affermando che il vero progresso non sta nella rottura ma nella continuità. Il Concilio non ha mutato i dogmi della fede, ma ce li ha fatti capire meglio. La fedeltà deve sposarsi col rinnovamento.

D’altra parte, il Santo Padre dovrebbe riconoscere ai lefebvriani di aver ragione nel sostenere che è dovere del Successore di Pietro insegnare infallibilmente e conservare fedelmente il deposito della fede e difenderlo dall’eresia, ma nel contempo dovrebbe ricordar loro che, come ha detto Papa Benedetto XVI, per essere in piena comunione con la Chiesa essi devono accettare le dottrine del Concilio, il quale conferma l’immutabile verità della fede, rendendola meglio comprensibile e meglio predicabile al mondo moderno.

Se il Concilio ha qualcosa di discutibile, come lo stesso Papa Benedetto ammise rivolgendosi ai lefebvriani, ciò riguarda una certa tendenza buonista della sua pastorale, un certo pacifismo utopista, che sembra supporre – come crede Rahner – che tutti siano orientati a Dio, tutti siano in buona fede e di buona volontà; il che non è purtroppo vero, dato che tutti risentiamo delle conseguenze del peccato originale e ci sono anche i «figli del diavolo» (I Gv 3,10).

La Chiesa, pertanto, fa bene ad aprirsi al dialogo con tutti, ma non può promettere misericordia e salvezza a chi non pratica la misericordia. Essa pertanto, mentre non deve cessare di predicare che a tutti è aperto l’ingresso nel regno dei cieli, deve recuperare una giusta severità con i prepotenti, gli ipocriti, i superbi, fedifraghi, gli impostori e gli empi, individuati con sapiente discernimento, senza per questo cadere negli eccessi del passato.

Senza cessare di predicare l’amore disinteressato, la Chiesa deve tornare ad incutere nei peccatori induriti – nei «corrotti», come dice il Papa – un salutare timor di Dio, che distoglie dal peccato e induce ad osservare le sue sante leggi. Pur alimentando in tutti la speranza, la Chiesa non deve temere di tornare a minacciare l’inferno, come ha fatto Nostro Signore, ai ribelli e agli impenitenti. Deve tornare a dire che, se tutti possono salvarsi, non tutti di fatto si salvano.

Certi nemici ostinati ed arroganti della verità, della giustizia e della pace non possono essere fermati col dialogo, ma solo con la severità. Né la Chiesa deve temere di promuovere, all’occorrenza, lo stesso uso della forza, proprio in nome di Dio, per farsi vindice degli oppressi e degli umiliati. Si ricordi del «Magnificat».

Dio non vuole la morte di nessuno, ma non tollera l’ingiustizia ed è il supremo Vindice di tutti i torti e di tutti gli scandali. Altrimenti gli oppressori continueranno a farsi beffe di Dio e ad essere oppressori e gli oppressi continueranno ad essere oppressi, tentati alla disperazione e a bestemmiare Dio.

Inoltre, il Papa ha da Cristo il supremo compito di favorire e promuovere all’interno della Chiesa l’unità, la concordia e la pace in un legittimo pluralismo. Una Chiesa che sia lacerata da discordie non può dare una testimonianza credibile del Vangelo. Occorre pertanto a mio giudizio che il Santo Padre si impegni maggiormente in questo nobilissimo compito di pacificazione, per il quale lo Spirito Santo gli ha donato un carisma speciale.

Inoltre il Papa nella Chiesa è il supremo moderatore nell’amministrazione della giustizia tra parti avverse, per cui al Papa si richiede una suprema imparzialità nel giudicare le controversie e un esemplare equilibrio nel risolverle. Pensiamo per esempio al contrasto fra i lefebvriani e i modernisti, che è sotto gli occhi di tutti da cinquant’anni. Ebbene, ormai da molti episodi risulta, purtroppo, che il Papa è troppo severo con i primi e troppo indulgente con i secondi.

È urgente, quindi, e quanto mai auspicabile, una convergenza nella verità e nella carità tra lefebvriani e modernisti attorno all’unico Padre e Pastore, i primi rinunciando alla polemica amara e offensiva, i secondi all’adulazione e alla falsificazione modernista della Parola di Dio. Gli uni e gli altri sono fatti per completarsi reciprocamente e fraternamente nell’unica verità e nella carità: i primi con l’apporto della tradizione, i secondi con quello del progresso, secondo la formula aurea «progresso nella continuità».

È bella e incoraggiante la lode che spesso il Santo Padre fa dei martiri. Bisogna però che Egli sia più chiaro nel ricordare che la loro perseveranza, resistenza e fortezza nascono dalla fedeltà assoluta all’immutabile verità e dalla radicazione irremovibile su quella roccia e su quel valore non negoziabile che è Cristo.

Se il cristiano è luce del mondo, tra tutti deve esserlo in un modo eminente il Vicario di Cristo. Bisogna pertanto che Egli, nella sua opera di promozione umana, indichi più chiaramente a tutta l’umanità e alle religioni il fine ultimo dell’uomo, che è quello di esser chiamato alla figliolanza divina in Cristo e alla visione beatifica.

La Beata Vergine Maria, Regina degli Apostoli, sostenga il Vicario del suo Figlio nella lotta vittoriosa contro le potenze del male.



Sulla comunicazione del papa

E infine ecco il testo della terza lettera, nella quale il teologo, rivolto all’amico religioso chiamato a fare da tramite, si dedica al modo in cui il papa si esprime.



Carissimo Padre, approfittando della sua bontà e se non chiedo troppo, vorrei aggiungere altre proposte oltre a quelle che Le ho già fatto giungere.
Sarebbe bene che il Santo Padre limitasse i suoi interventi pubblici improvvisati o a braccio su temi che possono toccare la fede e la morale, specie in occasione di interviste. Ciò per due motivi:
a) Limitare il rischio di usare un linguaggio impreciso o improprio, che può prestarsi all’equivoco o alla strumentalizzazione da parte dei media;
b) limitare l’espressione, come dottore privato, di idee estemporanee od opinioni non sufficientemente ponderate o fondate, che possono essere prese come pronunciamenti del magistero pontificio, col rischio inverso che il magistero possa esser preso con leggerezza.
Il Santo Padre o chi per lui, per esempio la Congregazione per la Dottrina della fede o teologi fedeli, qualificati ed esperti, dovrebbe vigilare maggiormente sulla purezza dottrinale, che dev’essere irreprensibile, integerrima ed esemplare, espressa da membri del collegio cardinalizio o dell’episcopato o da ufficiali della Santa Sede, che dovessero mancare in questa delicatissima materia, affinché il popolo di Dio non ne soffra scandalo e non rischi di essere allontanato dalla retta via della verità e della morale evangelica. Se il pastore è colpito, il gregge si disperde (cf Zc 13,7).
Il Santo Padre dovrebbe intrattenere un maggior dialogo col popolo di Dio, mancando il quale ne può risentire il prestigio del magistero pontificio e la saldezza della fede nei fedeli:
a) rispondendo a rispettose richieste di chiarimento, osservazioni od obiezioni legittime, in materia grave e provenienti da membri qualificati. Se non lo fa, può dare l’impressione che le critiche abbiano colto nel segno;
b) chiarendo equivoci, o dissipando malintesi sorti da interpretazioni false o tendenziose di larga risonanza di suoi pronunciamenti in materia grave, provenienti dai media o da ambienti seri e qualificati. Astenendosi dal far ciò, c’è il rischio che le dette interpretazioni appaiano valide;
Suggerimenti circa le attività ecumeniche del Papa.
a) Fa bene a promuovere l’ecumenismo della carità. Tuttavia l’«Unitatis redintegratio» fa comprendere chiaramente che il problema di fondo è quello della verità: i fratelli separati, per non restare separati, devono correggere i loro errori. La carità e l’unità si fondano sulla verità. Dal falso nasce il peccato e la divisione. Occorre evitare chiusure e rigidezze, saper cogliere le sfumature, essere accondiscendenti e flessibili. Ma non c’è una via di mezzo tra il vero e il falso (Mt 5,37; Ap 3,15);
b) far capire ai fratelli separati che la coesistenza pacifica e la collaborazione reciproca di cristiani di diverse confessioni sono sì ottima cosa, ma senza dar l’impressione che tale diversità possa essere omologata alla normale diversità-reciprocità intraecclesiale che intercorre, per esempio tra Gesuiti e Domenicani.
c) ricordare che esistono diversi gradi di comunione con la Chiesa e che chi non è in piena comunione deve raggiungerla. Nessuno deve stare sulla soglia e tutti sono invitati al banchetto, purché tutti abbiano l’abito di nozze (Mt 22, 1-14).
d) ricordare altresì che Cristo ha affidato a Pietro il compito di procurare l’unità del suo gregge nella verità e di chiamare a sé le pecore disperse. Altrimenti c’è il rischio che si diffonda l’indifferentismo.



Nel segno della libertà

Ecco, queste le tre lettere che il teologo ha consegnato all’amico religioso e quest’ultimo ha portato a Santa Marta, sottoponendole all’attenzione del papa. Il teologo mi ha chiesto di mantenere assoluta riservatezza sul nome del religioso. Mi ha lasciato libero, invece, di decidere se svelare o meno la sua identità. Al momento ho preferito non svelarla, perché penso che in questo modo il dibattito sulle proposte inviate al papa potrà svilupparsi più liberamente. Lo spero.

Aldo Maria Valli