martedì 14 luglio 2015

Sinodo. Nel documento preparatorio c'è un'Araba Fenice

 


Che vi sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa. È la "via penitenziale" per la comunione ai divorziati risposati. Il teologo domenicano Thomas Michelet ne mette a nudo le contraddizioni

di Sandro Magister





ROMA, 14 luglio 2015 – Dalla facoltà teologica di Friburgo, in Svizzera, il teologo domenicano francese Thomas Michelet richiama l'attenzione su un passaggio oscuro dello "strumento di lavoro" del sinodo sulla famiglia, preparatorio alla sessione del prossimo ottobre.

Il passaggio oscuro è nel paragrafo 123 del documento di lavoro. Il quale esordisce dando per scontato che "c’è un comune accordo sulla ipotesi di un itinerario di riconciliazione o via penitenziale, sotto l’autorità del vescovo, per i fedeli divorziati risposati civilmente".

Michelet fa anzitutto notare che questo "comune accordo" non si capisce come e quando sia stato accertato.

E poi, soprattutto, osserva che il contenuto di tale presunto "accordo" è tutt'altro che chiaro, stando a come ne parla l'"Instrumentum laboris". Come per l'Araba Fenice in "Così fan tutte" di Wolfgang Amadeus Mozart: "Che vi sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa".

Questa mancanza di chiarezza – avverte Michelet – finirebbe per rendere ambigue anche le proposte conclusive del sinodo, aprendo la strada a prassi pastorali così diversificate da minare l'unità della dottrina riguardante l'indissolubilità del matrimonio, anche se riaffermata a parole come intatta.

Di qui l'esigenza di chiarire al più presto che cosa si intenda per "via penitenziale", al termine della quale si riaprirebbe quell'accesso all'eucaristia che per i divorziati risposati continua ad essere precluso.

Sulla prestigiosa rivista "Nova & Vetera" della facoltà teologica di Friburgo padre Michelet ha già avanzato la scorsa primavera la proposta di ripristinare in forme aggiornate ciò che nella Chiesa antica era l'"ordo paenitentium", per tutti quelli che si trovano in una condizione persistente di difformità dalla legge di Dio ma intraprendono un cammino di reale conversione che può durare molti anni o anche tutta la vita:

> Sinodo. La proposta di una "terza via" (1.5.2015)

Ma ora Michelet ritorna sull'argomento entrando nel vivo della discussione sinodale. A suo giudizio, la proposta del cardinale Walter Kasper e di quelli che come lui vogliono concedere ai divorziati risposanti l'accesso alla comunione pur permanendo essi nella loro situazione di vita, non è conforme ma opposta all'autentica misericordia di Dio.

Non solo. Tale concessione farebbe delle seconde nozze civili "l'unico peccato per il quale sarebbe possibile ottenere perdono senza previa rinuncia al peccato stesso", oltre che minare alla radice il senso autentico dei sacramenti del matrimonio, dell'eucaristia e della penitenza.

Tutto diverso, invece, un cammino penitenziale che resti fedele ai comandamenti di Gesù e alla tradizione nella Chiesa cattolica, come quello già illustrato da Michelet e ora qui riproposto.

Ecco qui di seguito – in esclusiva per www.chiesa – il testo integrale del nuovo intervento del teologo domenicano.

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"INSTRUMENTUM LABORIS". LA VIA PENITENZIALE

di Thomas Michelet, O.P.



L’"Instrumentum laboris" del sinodo sulla famiglia del prossimo ottobre, pubblicato il 23 giugno 2015, è ormai disponibile in più lingue europee, consentendo di averne un’idea più precisa. Si è parlato su www.chiesa di "doccia gelata sui novatori", di "un colpo di freno sulla comunione ai divorziati risposati e sulle unioni omosessuali" (Sandro Magister, 30 giugno). Da parte mia, mi sento piuttosto tra sollievo e inquietudine. Anche se è vero che alcune aggiunte rispetto alla "Relatio synodi" del 18 ottobre 2014 vanno in questo senso, di cui ci si può rallegrare, rimangono alcune ambiguità che mostrano che la battaglia non è ancora vinta e che non si è al riparo da serie minacce per l’integrità della fede cattolica.

Qui mi atterrò a un unico punto, quello della "via penitenziale" (terza parte dell'"Instrumentum", capitolo 3, n. 122-123). L'articolo 122 riprende il n. 52 della "Relatio synodi", che era uno dei tre non formalmente approvati dal sinodo dei vescovi dell'ottobre 2014, per mancanza della maggioranza richiesta dei due terzi. Era persino l’articolo più bocciato, con soli 104 placet e 74 non placet (quando invece c’erano 125 placet e 54 non placet per il n. 41; 112 placet e 64 non placet per il n. 53). Ebbene, secondo l’"Instrumentum laboris", ormai "c’è un comune accordo sulla ipotesi di un itinerario di riconciliazione o via penitenziale" (n. 123).

"Instrumentum laboris":

122 (n. 52 della "Relatio Synodi"). Si è riflettuto sulla possibilità che i divorziati e risposati accedano ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Diversi Padri sinodali hanno insistito a favore della disciplina attuale, in forza del rapporto costitutivo fra la partecipazione all’Eucaristia e la comunione con la Chiesa ed il suo insegnamento sul matrimonio indissolubile. Altri si sono espressi per un’accoglienza non generalizzata alla mensa eucaristica, in alcune situazioni particolari ed a condizioni ben precise, soprattutto quando si tratta di casi irreversibili e legati ad obblighi morali verso i figli che verrebbero a subire sofferenze ingiuste. L’eventuale accesso ai sacramenti dovrebbe essere preceduto da un cammino penitenziale sotto la responsabilità del Vescovo diocesano. Va ancora approfondita la questione, tenendo ben presente la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti, dato che "l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate" da diversi "fattori psichici oppure sociali" (CCC, 1735)..

123. Per affrontare la tematica suddetta, c’è un comune accordo sulla ipotesi di un itinerario di riconciliazione o via penitenziale, sotto l’autorità del vescovo, per i fedeli divorziati risposati civilmente, che si trovano in situazione di convivenza irreversibile. In riferimento a "Familiaris consortio" 84, si suggerisce un percorso di presa di coscienza del fallimento e delle ferite da esso prodotte, con pentimento, verifica dell’eventuale nullità del matrimonio, impegno alla comunione spirituale e decisione di vivere in continenza.

Altri, per via penitenziale intendono un processo di chiarificazione e di nuovo orientamento, dopo il fallimento vissuto, accompagnato da un presbitero a ciò deputato. Questo processo dovrebbe condurre l’interessato a un giudizio onesto sulla propria condizione, in cui anche lo stesso presbitero possa maturare una sua valutazione per poter far uso della potestà di legare e di sciogliere in modo adeguato alla situazione.

In ordine all’approfondimento circa la situazione oggettiva di peccato e l’imputabilità morale, alcuni suggeriscono di tenere in considerazione la Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati della congregazione per la dottrina della fede (14 settembre 1994) e la Dichiarazione circa l’ammissibilità alla santa comunione dei divorziati risposati del pontificio consiglio per i testi legislativi (24 giugno 2000).

*

Dunque l’"Instrumentum laboris" n. 122 non fa altro che riprendere tale quale il n. 52 della "Relatio synodi", che non era stato accettato dai padri sinodali con la maggioranza richiesta e quindi non dovrebbe teoricamente fare parte di questo testo. Semplicemente, lo si è fatto seguire da un nuovo numero (il 123), che oltre ad affermare l’accordo da allora stabilito su questa ipotesi, aggiunge vari riferimenti a testi del magistero che infatti mancavano nella ""Relatio synodi"", nonché una proposta pastorale che rimane molto generale.


Un "comune accordo"?

Bisogna ricordare che tra la "Relatio synodi" e l’"Instrumentum laboris", c’è stato il momento dei questionari nelle diocesi, del loro ritorno nelle conferenze episcopali, senza dimenticare il lavoro di vari teologi, istituzioni e università, nonché la sintesi di tutti questi lavori fatta a Roma. Così la riflessione è stata in grado di far sviluppare le linee delle due parti, che era l’obiettivo più o meno riconosciuto di questo anno d’intervallo fra le due assise del sinodo.

Rimane il fatto che questa affermazione di un "comune accordo" sorprende un po': fa riferimento ai padri sinodali, che di fatto non si sono più riuniti da allora? O, in modo più ampio, alle conferenze episcopali? O perfino all’insieme del popolo di Dio? Il testo non lo precisa.

Inoltre non è detto che tale "comune accordo" riguardi la proposta della stessa "Relatio synodi"; forse riguarda soltanto "l’ipotesi di un itinerario di riconciliazione o via penitenziale", che è più larga e che si può comprendere in tanti modi.

Si può immaginare che chi già prima sosteneva il n. 52 della "Relatio synodi" lo sostenga ancora. Ma che cosa hanno fatto gli altri, quelli che lo escludevano? Hanno soltanto cambiato idea dopo qualche ripensamento? O sono stati rassicurati dall’aggiunta di questi pochi riferimenti a testi del magistero che vengono ad incorniciare questa proposta correggendola in un senso più tradizionale? O invece sono soddisfatti dal fatto che l’idea di un "cammino penitenziale sotto la responsabilità del vescovo diocesano" sia un poco più sviluppata e che si consideri di sottoporre questo processo al discernimento di un prete a ciò deputato, il che consentirebbe tanti "adattamenti"? Sicuramente i motivi di tale accordo, se è possibile e persino probabile, sono anche molteplici e variegati.

Ma sopratutto, si potrebbe temere che questa nuova unanimità sia piuttosto l’effetto di una stesura larga e fluttuante dalla quale tutti sarebbero apparentemente soddisfatti, i "novatori" come i "conservatori", ma non per motivi uguali e non con la stessa interpretazione.

Insomma, si potrebbe temere che l’accordo rimanga apparente piuttosto che concreto e che l’indefinitezza della proposta nasconda un dissenso vero e profondo che rischierebbe di durare a lungo, anche nelle proposte finali del prossimo sinodo se non si diventa più precisi. Ci sarebbe il rischio di una dichiarazione di principio sul piano dottrinale che non verrebbe discussa da nessuno, ma che si aprirebbe poi su prassi pastorali variatissime che coinvolgerebbero di fatto dottrine diversissime. Dopo qualche anno, ci si troverebbe di fronte al fatto compiuto di queste prassi e del cambio dottrinale che implicano e che avrebbero fatto entrare nel costume. Bisogna perciò fare subito chiarezza su questo argomento, i suoi presupposti, la sua posta in gioco, i suoi annessi e connessi, affinché tutto questo sia fatto in verità.


Quale cammino penitenziale?

Secondo alcuni commentatori, si è passati dall’idea di un "tutto o niente", di un’ammissione immediata o di un rifiuto persistente dell’accesso dei divorziati risposati all’eucarestia, a ciò che può sembrare una "terza via": l’idea di un’ammissione condizionata al termine di un cammino penitenziale, sul quale tutti sembrano finalmente d’accordo. Benissimo, ma concretamente, di che percorso si tratta? Quali ne sarebbero le tappe precise?

Ci sembra che l’alternativa fondamentale sia la seguente.

Basterà un tempo di penitenza la cui durata sarà lasciata all’apprezzamento del vescovo (o di un prete a ciò deputato), seguito da un’ammissione dei divorziati risposati all’eucarestia così come sono, senza neanche il minimo cambiamento di vita rispetto alla situazione disordinata in cui si trovavano?

Oppure questo tempo sarà non solo un cammino di penitenza e di pentimento, ma anche di vera e propria conversione e di cambiamento di vita; la durata della penitenza essendo in tal caso quella necessaria per ottenere questa conversione?

La scelta da fare tra le due alternative è particolarmente decisiva.

Nella prima ipotesi, che ci pare convergere con quella formulata dal cardinale Kasper (salvo errore di lettura da parte nostra), il matrimonio dopo un divorzio sarebbe l’unico peccato per il quale sarebbe possibile ottenere perdono senza previa rinuncia al proprio peccato. Questo sembra contrario al Vangelo, all’autentica misericordia di Dio che fa misericordia al peccatore non chiudendo gli occhi o dimenticando il suo peccato, bensì trasformando i cuori. Non può quindi essere la via scelta dal sinodo, il quale può soltanto volere rimanere fedele alla dottrina del Vangelo, e sarebbe giusto che lo affermi chiaramente.

Alcuni fedeli o pastori giungono al punto di negare che ci possa essere qui una situazione di peccato. Ma allora per che cosa si vorrebbe fare penitenza? E se c’è davvero un peccato, come si può esserne perdonati senza distaccarsene? Ci sembra che questi errori derivino da una grave perdita del senso del mistero in generale e di quello dei sacramenti in particolare. Del matrimonio, in cui non si vede più che il fatto di risposarsi quando il coniuge è ancora vivo è un adulterio, mentre Cristo lo insegna esplicitamente (Mc 10, 11-12). Dell’eucarestia, che non è più ricevuta come corpo sacro del Signore bensì come semplice segno di un legame sociale la cui privazione equivale soltanto all’esclusione dal gruppo. Della penitenza, in cui si fa una confusione tra il rimpianto ed il pentimento, tra la penitenza e la conversione. Non basta infatti "rimpiangere" di essersi messi in una situazione impossibile; bisogna anche volere veramente uscirne, con la grazia di Dio. Perciò non basta neanche proporre un cammino di penitenza per l’atto passato che si rimpiange, se tale cammino di penitenza non mira anche a trasformare il futuro ed ad aprire su una vera via di salvezza, un cammino di grazia, un itinerario di santità.

Nella seconda ipotesi, l’ammissione finale all’eucarestia potrebbe verificarsi a priori soltanto nei tre casi già stabiliti dal magistero ("Familiaris consortio", n. 84 e altri testi): o la ripresa della convivenza (quella del primo matrimonio che è l’unico valido); o l’impegno a vivere "come fratello e sorella" (che equivale all’essere esonerati dalla convivenza pur rispettando gli altri obblighi del matrimonio, cioè l’esclusività promessa nel matrimonio ma anche il dovere di mutua assistenza); o la morte del coniuge, permettendo un vero nuovo matrimonio sacramentale (situazione che ovviamente non è auspicabile). Forse potrebbero presentarsi altri casi, ma a questo punto non si vede quali; ovvero non risulta che chi li ha presentati finora abbia portato la prova della loro conformità all’autentica dottrina cattolica (Scrittura, tradizione e magistero).


Una nuova via?

Questa seconda ipotesi – quella del mantenimento dell’attuale disciplina – è quindi l’unica che ci sembra concepibile, ammettendo che si voglia essere fedeli alla Parola di Cristo. Significa questo che si tratterebbe di un rifiuto assoluto di qualsiasi cambiamento rispetto alla situazione presente? Non necessariamente. Anche nella fedeltà, c’è sempre la possibilità di una novità, di una "sorpresa dello Spirito Santo".

Anzitutto, ci sono vari modi di presentare la cosa. O come una porta che si chiude e un rifiuto di qualsiasi via di salvezza. O piuttosto come un pellegrinaggio nel quale chi prende un cammino di felicità è già sulla strada giusta, anche se non riesce subito a conformarsi a tutti gli aspetti della vita nello Spirito secondo il Vangelo. Questo secondo modo di agire, che deve essere nettamente privilegiato, consiste infatti nell’integrare la legge della gradualità presentata da papa Giovanni Paolo II in "Familiaris consortio" n. 84, senza fare una confusione con la sua figura inversa, cioè quella della gradualità della legge (che sarebbe la prima ipotesi di cui abbiamo parlato poco sopra).

Inoltre, bisogna scoprire che alcune prassi pastorali fedeli a questo insegnamento di papa Giovanni Paolo II sono già state stabilite da allora, facendo vedere che potevano dare buoni frutti di grazia. Ad esempio, è successo che alcune coppie di "divorziati riposati" abbiano manifestato, prendendo la decisione di non comunicarsi più, una fede tale e un rispetto così profondo dell’eucarestia che il vescovo ha concesso loro di conservare a casa la presenza reale, per nutrire il loro cammino di conversione tramite l’adorazione eucaristica.

Quindi queste prassi pastorali esistono, ma non in tutti paesi del mondo; e bisogna ammettere che, anche quando sono presenti e attuate, sono conosciute da pochi. Sarebbe giusto perciò che siano promosse dal sinodo, che esso renda grazie per quelli che hanno obbedito alle chiamate dello Spirito Santo per scoprirle e approfondirle nella preghiera e nell’esperienza, che prenda atto dei frutti che sono già stati ottenuti e di quelli che si possono ancore sperare, e che indichi in modo chiaro che questa direzione è buona da seguire.

Per andare più avanti su questa linea di fedeltà innovativa delineata da papa Giovanniì Paolo II, noi stessi abbiamo fatto la proposta di un aggiornamento dell’"ordo pænitentium", la ripresa di questo antico ordine dei penitenti dell’antichità cristiana che è perdurato a lungo parallelamente alla forma attuale del sacramento della penitenza. Questo "ordo" potrebbe trovare un’interesse rinnovato, perché si inseriva in un tempo lungo e in tappe segnate da celebrazioni liturgiche. Era considerato sacramentale fin dalla tappa dell’imposizione delle ceneri e non solo nell’ultima tappa dell’assoluzione. Aveva anche il vantaggio di dimostrare bene che il peccatore non era escluso dalla Chiesa, poiché faceva parte di un "ordo", essendo anzi esortato a nutrirsi del tesoro di grazie della Chiesa nell’ascolto della Parola di Dio e nella partecipazione alla sua vita di preghiera.

Così come l’uscita dal regime di cristianità ha procurato la grazia del rinascimento dei battesimi degli adulti, essa potrebbe anche fare rinascere questi ordini di penitenti in ciò che avevano di più evangelico, senza riprenderne, ovviamente, gli eccessi che non erano legati alla loro essenza. Così il penitente avrebbe una missione profetica da compiere nella Chiesa: quella di esortare a un maggior rispetto verso l’eucaristia e a una maggiore considerazione verso il suo peccato.

 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351093

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