di Giuseppe Versaldi
La vocazione al celibato per il Regno dei cieli e la chiamata al matrimonio sovente vengono percepite, se non proprio in opposizione, almeno di difficile composizione. Da una parte, infatti, la rinuncia del celibe all'amore coniugale è vista come una rinuncia all'amore tout court e, dall'altra, la scelta di unirsi in matrimonio a volte appare come una diminuzione della purezza dell'amore. San Paolo, scrivendo ai cristiani di Efeso, usa un'espressione che offre una visione risolutiva dell'apparente antinomia tra amore verginale e amore sponsale. Parlando del dovere dell'amore reciproco tra marito e moglie, l'apostolo esalta l'originale vocazione dell'uomo a lasciare il padre e la madre per unirsi a sua moglie così che “ i due diventeranno una sola carne” (Genesi, 2, 24), ma subito aggiunge: “Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!” (Efesini, 5, 32). Tale repentino rovesciamento dei termini di paragone rivela una nuova prospettiva: la grandezza dell'amore coniugale viene sì riaffermata nella sua pienezza, ma è messa in relazione di dipendenza con l'amore di Cristo per la Chiesa.
Qui sorgono alcuni interrogativi ricorrenti anche nei confronti del magistero della Chiesa: «Come può Cristo celibe essere modello degli sposi? Come potete voi celibi insegnare e dare regole circa il matrimonio di cui non avete esperienza?». Ebbene, proprio le parole di san Paolo Indicano la risposta. L'amore di Cristo per la Chiesa è certamente insieme amore verginale e sponsale perché è amore che, per citare le parole di Benedetto XVI, «può essere qualificato senz'altro come èros, che tuttavia è anche totalmente agàpe» (Deus caritas est, 9). Un amore che è gratuito e preveniente («non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi»: 1 Giovanni, 4, 10); incondizionato e misericordioso («mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi»: Romani, 5, 8); sacrificato («Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia»: 1 Pietro, 1, 18-19). Caratteristiche, queste, che apparentemente non sembrano connotare l'amore coniugale comunemente inteso che è sì dono di sé, ma in una reciprocità che comporta un mutuo aiuto e una vicendevole gratificazione.
Eppure, proprio perché l'amore coniugale possa realizzarsi non come esperienza esaltante, ma temporanea, bensì perseverare come progetto per tutta la vita, è necessario che anche i coniugi siano capaci di un amore preveniente e gratuito così che, almeno uno, sia capace di amare anche quando l'altro non lo ama; di un amore incondizionato e misericordioso perché, almeno uno, sia capace di perdono quando il coniuge, vinta la sua debolezza, si pente; di un amore sacrificato perché, almeno uno, sappia sopportare le sofferenze dell'attesa senza rassegnarsi alla sconfitta. E in tutto questo il modello è proprio Cristo che così ha amato la sua Chiesa come sposa e «ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell'acqua mediante la parola e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Efesini, 5, 25-27).
Ha ragione, dunque, Benedetto XVI quando afferma che «in fondo l'amore è un'unica realtà, seppure con diverse dimensioni» (Deus caritas est, 8). Nel suo pieno significato l'amore è amore agapico, cioè amore capace di integrare la passione (èros) e la donazione (agàpe) così da poter soddisfare il cuore umano qualunque sia la sua vocazione. In questo senso, l'amore verginale e l'amore coniugale non possono che attingere a un'unica fonte e avere un unico modello che è Cristo.
Certo esiste una diversa modalità nelle due vocazioni, ma proprio la comune sorgente ne garantisce la complementarietà. Il carisma del celibato per il Regno può aiutare gli sposi a non assolutizzare l'amore umano e, in attesa della definitiva comunione con Dio-Amore, a sopportare il peso e il prezzo del dono di sé nonostante le debolezze dell'esperienza coniugale. Anche chi, già qui in terra, è chiamato a consacrarsi all'amore indiviso di Dio può imparare dagli sposi la concretezza e l'attualità dell'amore che non può rivolgersi solo a Dio che non vede, ma deve manifestarsi come effetto anche verso il prossimo che vede. In tal modo non si cade nell'illusione che per amare Dio sia necessario non amare nessuno di quell'amore con cui Cristo ci ha amati. La reciproca illuminazione arricchisce entrambe le vocazioni e abbellisce l'intera Chiesa nella sua missione di testimoniare nel mondo l'amore di Dio.
(©L'Osservatore Romano 22 giugno 2011)
Nessun commento:
Posta un commento