Solo una riflessione sulla fonte e il culmine della vita della Chiesa può farle superare la crisi, che è una crisi di fede
di Armin Schwibach
La liturgia è la celebrazione del Mysterium Christi. La Chiesa, Corpo mistico di Cristo, offre tale servizio a Dio. “La liturgia, azione sacra per eccellenza, costituisce il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme la fonte da cui promana la sua forza vitale. Attraverso la liturgia, Cristo continua nella sua Chiesa, con essa e per mezzo di essa, l’opera della nostra redenzione” (Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, n. 219). Se la liturgia è in crisi, se è una pura rappresentazione e non il compimento operativo dell’opera di salvezza, allora la verità della fede stessa è colpita al cuore: si evapora in una celebrazione di facciata, che però non ha più nulla a che fare con la vita. La fede avvizzisce e muore, diventa un optional della sfera privata.
Proprio durante il pontificato di Benedetto XVI, si ripresenta per la Chiesa, per i fedeli e per la cultura occidentale il grande problema del nostro tempo: la crisi ecclesiale è una crisi di fede che “parte soprattutto dalla disintegrazione della liturgia, che talvolta viene concepita addirittura quasi ‘etsi Deus non daretur’, dove non importa più sapere se Dio esiste, se ci parla e ci ascolta” (Joseph Ratzinger, Aus meinem Leben. Ricordi, Stoccarda 1998, pag. 174). La crisi di fede tuttavia non è soltanto un problema religioso o interno alla Chiesa, ma si presenta nel contesto di una crisi di identità dell’uomo moderno e della società odierna.
La crisi di fede è una crisi di libertà. La libertà si è fatta noiosa e senza gusto, si manifesta semplicemente come assenza di vincoli e regolamenti, e vi aggiunge la pretesa che tutto si possa fare senza limiti e arbitrariamente. All’uomo di oggi apparentemente libero, riesce difficile vedere o accettare che alla base dell’autorealizzazione e dell’autoaffermazione, sta innanzitutto la consapevolezza di essere stati noi per primi fatti e creati. E’ la verità dell’Essere divino che si dona come immagine all’essere umano. Quanto più si è vicini a Dio, tanto più si è vicini all’altro.
Al contrario, le false libertà dell’autonomia radicale conducono agli abissi della solitudine, alla perdita della fiducia originale, all’incapacità di amare. L’uomo, lasciato all’impulso sfrenato del peccato originale, cede al tempestoso furore della confusione. Ma all’uomo occorre dire che si è veramente autonomi e liberi, quando si riconosce l’unica dipendenza ragionevole: l’uomo è libero, quando obbedisce alla legge di Dio.
La legge di Dio non è astratta, ma concreta, immediata e frutto dell’esperienza di un incontro personale con Cristo. Con l’incarnazione storica del Figlio di Dio, l’umano e il finito sono divinizzati. L’evento Cristo penetra in ogni teoria e prassi, nella ragione e nell’esperienza. Attraverso gli avvenimenti del mondo, viene offerta la possibilità di toccare il Mistero infinito e impenetrabile di Dio. La particolarità del cristianesimo sta nel fatto che la ragione, il finito e l’immediatamente accessibile non si annullano davanti a Dio, non vengono esiliati in una regione remota. Il finito diviene la via e il segno di Dio, e l’uomo è su questa via. Egli deve servire e cercare su questa via il Dio che serve. La liturgia, nella quale sempre di nuovo Dio si rende presente, è il servizio verso Dio.
E’ quindi chiaro che la crisi della liturgia è il primo segnale della crisi di fede, e in questo segnale si rispecchia la perdita della verità a favore di una falsa autonomia. La “piccola barca della Chiesa”, come papa Benedetto XVI aveva dichiarato il 29 giugno 2006, viene schernita, colpita e spinta fuori dal mondo: “sempre di nuovo essa è squassata dal vento delle ideologie, che con le loro acque penetrano in essa e sembrano condannarla all’affondamento”. Tuttavia, “il danno maggiore la Chiesa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, appannando la bellezza del suo volto” (29 giugno 2010).
La Chiesa si è fatta vittima di una modernità che è in costante conflitto con se stessa, anzi, che ha fatto del conflitto la sua propria sostanza. Ha bisogno però di riflettere su ciò che è essenziale. Lo strappo più forte e marcato per la Chiesa fu la riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano II. Il Cardinal Joseph Ratzinger descrisse una volta i due effetti della riforma liturgica più percepiti da parte dei cattolici praticanti: “la scomparsa della lingua latina e gli altari rivolti verso il popolo”. Di entrambi però non si fa menzione nei testi conciliari. Solo nella introduzione generale al Messale romano del 1969 si parla dell’altare separato dalla parete in modo che “vi si possa accedere facilmente per la celebrazione ‘versum populum’”. Il Cardinal Ratzinger evidenziò un chiarimento della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti dell’anno 2000: L’orientamento fisico deve essere distinto da quello spirituale: “Quando il celebrante officia ‘versum populum’, il suo orientamento spirituale sia sempre ‘versum Deum per Iesum Christum’”. Riti, segni e parole non devono mai svuotare lo svolgimento dei santi misteri, perciò si devono evitare posizioni unilaterali e assolutizzate.
La necessità di una nuova riflessione liturgica, e anzi di un nuovo “movimento liturgico” è stato sottolineato assai spesso in questi ultimi tempi dalle più alte autorità. Di conseguenza, con la “legge della celebrazione”, cioè con la liturgia, stanno o cadono sia la “lex orandi” – la legge della preghiera – cioè la possibilità di accostarsi alla verità divina, sia la “lex credendi” – la legge della fede – cioè la professione della verità assoluta e universale della dottrina cattolica. Si richiede pertanto come prima esigenza, una nuova catechesi eucaristica. La liturgia deve ricondurre al Mistero, invece che banalizzarlo e ridurlo al semplice umano e mondano. La liturgia deve dare espressione a ciò che è nascosto, a ciò che solo nel silenzio si può intuire. Essa deve recuperare la sua dimensione cosmica, poiché “la liturgia cristiana è un evento cosmico – la creazione prega con noi, noi preghiamo con la creazione, aprendosi perciò allo stesso tempo la strada per una nuova creazione, attesa da ogni creatura” (J. Ratzinger, prefazione all’edizione coreana de “Lo spirito della liturgia”).
Riforma e nuova coscienza possono germogliare soltanto da un’approfondita conoscenza della fede, da quella urgente necessità tanto discussa di una “riforma della riforma nella continuità”, che in questo caso riguarda soprattutto la liturgia. A tal fine però, occorrerà fare una seria opposizione tra una “ermeneutica della riforma” e una “ermeneutica della rottura”, in riferimento agli avvenimenti complessivi del Concilio Vaticano II, come pure degli eventi che ne seguirono. Occorre superare quella strana mescolanza tra rottura (con la Tradizione) e continuità (nella Tradizione), e laddove la rottura si verifica o si è verificata, segnalarlo chiaramente e lealmente, dal momento che ne va della credibilità della Chiesa, sia nella sua autocomprensione che nel suo porsi dinanzi all’intera cristianità.
Soltanto quando la Chiesa si ricorderà di nuovo in modo deciso di possedere il soprannaturale “munus docendi”, quando porterà alla luce del giorno la sua forza dogmatica, quando chiamerà l’errore “errore” e che cosa è l’errore, che essa possiede e crea la bellezza, e che cosa è la bellezza, allora si potrà percorrere la via stretta – via che, in ultima analisi, di nuovo conduce nella profondità dei divini misteri e che perciò non può essere facile. La Chiesa non si può sottrarre a tale compito, perché è chiamata alla santificazione: “la Chiesa adempie la funzione di santificare in modo peculiare mediante la sacra liturgia, che è ritenuta come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo, nel quale per mezzo di segni sensibili viene significata e realizzata, in modo proprio a ciascuno, la santificazione degli uomini e viene esercitato dal Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle membra, il culto di Dio pubblico integrale” (CIC 1983, can. 834 § 1).
Così affermava Benedetto XVI, l’11 giugno 2010, nella sua omelia della Messa a conclusione dell’Anno Sacerdotale: “Il pastore ha bisogno del bastone contro le bestie selvatiche che vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano il loro bottino. Accanto al bastone c’è il vincastro che dona sostegno e aiuta ad attraversare passaggi difficili. Ambedue le cose rientrano nel ministero della Chiesa, nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio d’amore”.
“Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non ci lasciamo strappare via. Al tempo stesso però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il vincastro del pastore – vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore”. Resta da sperare che il bastone dell’amore sia usato con chiarezza.
L’anno 2015 è in arrivo: una buona occasione per utilizzare il tempo attuale e far sì che la verità trionfi. Papa Benedetto XVI ha mostrato a tutta la Chiesa una via precisa con il Motu proprio “Summorum Pontificum”. Le ha fatto un regalo, col quale è ora possibile riconoscere i vecchi peccati di omissione, chiedere perdono e osare un nuovo inizio nella verità. Sciocco sarebbe chi rifiutasse tale dono.
fonte: Kath.net, 17/06/2011
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