Pubblichiamo la seconda parte dell'articolo apparso sulla rivista online Disputationes Theologicae.
Risposta alle obiezioni d’ordine pratico-politico:
1) Non abbiamo mai sostenuto che tale Fraternità sia scismatica o che lo sia stata: abbiamo detto che nel suo interno ci sono tendenze in tal senso, che non sembrano affatto diminuire, e che questo dato avrebbe dovuto consigliare mons. Fellay ad accettare, anni fa, l’accordo offerto da Roma. Accordo che non era “inaccettabile” e che avrebbe lentamente stemperato gli eccessi da “pétite église” nella società religiosa. Che al suo interno vi siano esponenti che già si esprimono con attitudine gravemente scismatica è invece un dato di fatto. In generale rinviamo allo studio C. Héry, “Non lieu sur un schisme” (2005), le cui conclusioni ci paiono più che condivisibili.
2) Gli accordi dottrinali così come erano stati illustrati da S. Ecc.za Mons. De Galarreta, capo della delegazione della Fraternità, sono falliti. L’autorevole ecclesiastico il 19 dicembre 2009 nel corso della nota omelia a la Reja disse che la delegazione andava «semplicemente a dare una testimonianza di fede» o ancora «andiamo fin là (a Roma ndr) per predicare, così come sto predicando a voi» (!). Questi non condivisibili toni s’univano alla perentoria dichiarazione: «noi sappiamo molto chiaramente quello che non abbiamo assolutamente l’intenzione di fare : primo, cedere sulla dottrina e secondo, fare un accordo puramente pratico». Se Econe non ha ceduto sulla dottrina, di per sé ha fatto bene; se passasse all’accordo cosiddetto pratico, o meglio sostanzialmente canonico (ammesso che sia ancora fattibile, viste le resistenze esterne e interne maggiormente sviluppatesi), di per sé farebbe bene. Ma fare un “accordo pratico” significherebbe che c’è stato un ripensamento rispetto ai proclami sopracitati fatti a la Reja, all’omelia di Mons. Fellay a Flavigny il 2 febbraio 2010, ai contenuti del libro di Mons. Tissier, “L’etrange théologie de Benoit XVI”, sul quale è meglio stendere un velo pietoso, all’asserita impossibilità di “communicatio in sacris” con chi è sottomesso al Papa e ai Vescovi territoriali, sostenuta dal superiore di Francia abbé de Caqueray (vedi qui), e soprattutto alla più che ufficiale dichiarazione dell’ultimo Capitolo della FSSPX (2006), che testualmente definiva un accordo pratico, senza preliminare conversione di Roma “impossibile”. Se tale cambiamento ha avuto luogo ce ne rallegriamo, ma sarebbe serio e onesto dichiararlo.
3) Se la Fraternità procederà ad un tale accordo, accettando un Ordinariato personale, sarà magari un atto di saggezza e di romanità. Ma in tal caso dovrà fare prova d’umiltà, riconoscendo onestamente che tanti suoi proclami dello scorso decennio sulla necessità preliminare della conversione di Roma, dalla quale si andava unicamente per “predicare” la verità, erano del tutto fuori strada. L’eventuale accettazione di un ordinariato personale può non essere in contraddizione col fallimento dei colloqui dottrinali, ma significherebbe semplicemente che si è saggiamente scelto “l’accordo pratico”, finora disprezzato ed escluso in maniera categorica. Aggiungiamo che la proposta di un ordinariato personale (o similia) non sarebbe conseguenza del buon esito degli “accordi dottrinali”, ma una vecchia e mai ritirata proposta di Roma fin dal 2001-2002 (speriamo che a tutt’oggi le condizioni richieste da Roma siano limitate, almeno quanto lo erano allora e non siano diventate più esigenti - come sembrerebbe indicare la Nota ufficiale della Segreteria di Stato Vaticana del febbraio 2009). Questa vecchia e ragionevole proposta è già stata rifiutata in passato da Mons. Fellay, quando ancora la si chiamava “Amministrazione apostolica personale”. Il rifiuto della proposta fu anche comunicato alla stampa nel mese di gennaio del 2006 (cfr. La Croix del 13 gennaio 2006). Nel caso accettare oggi un tale accordo si rivelerà difficile o il prezzo da pagare sarà maggiore per le fortissime resistenze interne, sarà giusto che mons. Fellay si assuma la responsabilità di essere stato lui stesso una causa importante di tanta avversione: dopo aver disprezzato tale soluzione per un decennio e in maniera martellante, non potrà lamentarsi se molti fedeli e preti lo avranno ascoltato. E’ chiaro che sulla dichiarazione (non infallibile) “Dignitatis Humanae” n. 2, ad esempio, è difficile trovare dottrinalmente una “via mediana”, ma è sempre stato altresì chiaro che in questo momento storico il Sommo Pontefice difficilmente potrebbe imporre una nuova formulazione, pur avendo di principio la facoltà di farlo. Tuttavia Roma a suo tempo aveva proposto alla FSSPX di affiancare alla dichiarazione di accettazione del “Concilio alla luce della Tradizione” l’istituzione, contestualmente alla regolarizzazione canonica, di una Commissione bilaterale di discussione dei punti controversi, segno che il giudizio su di essi restava aperto, almeno all’epoca tale era la disponibilità (oggi, vedremo).
4) Non abbiamo affatto scordato la parabola del “figliol prodigo”, cui il padre riserva la più festosa accoglienza, tant’è che avevamo scritto che se la FSSPX farà onestamente l’accordo tutti l’aspettiamo a braccia aperte: vien da chiedersi se i nostri critici hanno letto quello che criticano, oppure se alcuni ad arte gettano fumo negli occhi. Semmai questa parabola ci sembra offensiva della Fraternità, poiché essa non è uscita dalla Chiesa né deve scusarsi – il linciaggio subito da Mons. Lefebvre non fu giusto – per ogni sofferenza patita quando era relegata “fuori casa”. Abbiamo sempre sostenuto infatti che questo stato di cose, per un certo tempo, fosse giustificato; esso era realmente coperto dallo “stato di necessità”, il quale - per definizione - non dura all’infinito. Del figliol prodigo invece dovrebbe assumere almeno l’atteggiamento umile e filiale verso il Papa e sconfessare pubblicamente alcune affermazioni, soprattutto le aberranti teorie eucaristiche dell’abbé de Caqueray e le accuse violente al Santo Padre di Mons. Tissier. Ci si obietterà che la maggior parte dei sacerdoti della Fraternità non condivide questi deliri. Benissimo. Allora che la parte romana della Fraternità trovi il coraggio d’esprimersi e di smentire tali farneticanti affermazioni. Finora nessuna voce pubblica si è levata contro l’inconcepibile dottrina che nega, ipso facto, la “communicatio in sacris” con gli Istituti Ecclesia Dei (vedi qui). Il punto è che l’eventuale ritorno, per così dire, l’eventuale accordo, avvenga nella verità. Se realmente si crede al suo primato.
Per riassumere, ribadiamo quanto già scritto. I colloqui dottrinali, è evidente a chiunque abbia occhi per vedere, non hanno portato al risultato prefisso. Si può e si deve tentare lo stesso l’accordo canonico, che siamo convinti potrà portare del bene a tutti. Se le autorità della Fraternità non vogliono l’“amministrazione personale” già rifiutata nel 2006 o l’ “ordinariato personale” – come si dice oggi –, perché aspettano la soluzione dei problemi del Concilio, come dichiarato da Mons. De Galarreta, che lo dicano inequivocabilmente e una volte per tutte. La peggiore prospettiva, purtroppo non del tutto esclusa, sarebbe infatti quella di rinviare “sine die” la definizione della questione, barcamenandosi. Se Roma vorrà presto dare un “ultimatum” di tal genere – non è una novità, lo propone da dieci anni – sarà un segno positivo che la Santa Sede non rinuncia al potere che le spetta; ma va riconosciuto nel contempo che molte questioni teologico-dottrinali sono ancora aperte.
S.C.
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