sabato 13 dicembre 2025

La regalità sociale è conquista della Passione e Morte di Cristo




Pubblichiamo un breve estratto dell’articolo di Padre Serafino Lanzetta dal titolo “La Regalità di Cristo e la libertà religiosa: due antipodi?”, tratto dal libro da poco pubblicato dal nostro Osservatorio: Pio XI, Quas primas. Sulla Regalità sociale di Nostro Signore Gesù Cristo. Vedi la scheda-libro QUI; fai la tua donazione QUI; ordina il libro scrivendo a: acquisti.ossvanthuan@gmail.com

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Di P. Serafino M. Lanzetta, 12 dic 2025

Quando i cattolici rifiutano la regalità sociale di Cristo e accettano la libertà religiosa senza distinzioni, come pura libertà, non dicono anch’essi: «Non abbiamo altro re che Cesare?» (Gv 19,15). E quando dicono che tutte le religioni hanno pari dignità nella sfera sociale, non dicono forse: «Diamo a Cesare ciò che è di Dio?». Si subordina Dio a Cesare, con buona pace del Santo Vangelo. Invece, dando a Cristo ciò che è suo: l’onore, l’adorazione e la gloria, si dà a Cesare ciò che è veramente suo, senza togliere a Cristo ciò che non è di Cesare. Solo nel riconoscimento del potere regale di Cristo è implicato il riconoscimento gerarchico di Cesare e di tutti gli attori sociali, senza discriminazioni o disparità. Ciò che Cristo porta al mondo è il potere della verità e dell’amore: l’atto del regnare di Dio. Si tratta di un atto trascendente che non appartiene a questa creazione, ma è la principalità del Creatore su tutto ciò che esiste[1]. È proprio questo che Gesù aveva detto a Pilato, quando, incalzato dal Procuratore romano preso da due fuochi: rilasciare l’innocente Gesù o compiacere i giudei per evitare una sommossa, rispose: «Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36). Il regno di Gesù non appartiene a questa creazione quanto alla sua origine; è l’atto del regnare di Dio sulle cose e sugli uomini che dà autorità alle autorità terrene, finanche il potere a Pilato di giudicare suo Figlio (cf. Gv 19,11).

Gesù professa apertamente la sua regalità davanti al Procuratore romano che gli chiede se è re: «Tu lo dici; io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37). Il Signore è nato ed è venuto in questo mondo per essere re. La sua regalità trascendente non è evanescente: è una potestas esercitata quaggiù perché gli uomini abbiano accesso al mondo di lassù. Il potere regale di Gesù è il potere della verità. Esso abbraccia tutto ciò che è vero e buono, tutto ciò che è. È il potere di Dio che regna e il suo regno è amore. La verità di tutto ciò che è e di ciò che Dio è si compie nell’amore. Dio è amore e nel suo amore regna donando ragion d’essere alle cose e all’uomo. Fuori di questo potere regale dell’amore non c’è regalità. Ogni potere terreno dovrà conformarsi a questo potere della verità e dell’amore per essere vero, autentico e quindi propriamente umano. Questo potere regale dell’amore è il fulcro della vera religione.

A Pilato, tuttavia, non interessava la verità e neppure la giustizia. Una manovra politica ebbe la meglio. Fece condannare Gesù pur riconoscendolo innocente. Quella sentenza si eresse a modello di ogni umana macchinazione e ingiustizia. Era necessario liberare quel potere senza Dio e senza la verità dal sopruso del relativismo. Gesù fu consegnato alla Croce. Pensavano così di liberarsi di un intruso nel sistema sociale della politica e della religione, dove ognuna segue il suo corso in un facile contratto di sottomissione arbitraria della religione alla politica. Ma è proprio sulla Croce che Gesù manifesta il suo potere regale. Aveva infatti predetto di dover essere innalzato da terra, esaltato, così da attirare tutto a sé (cf. Gv 12,32), rinnovando tutta la creazione nell’effusione del suo Sangue. Di più, quell’innalzamento tra cielo e terra sarà rivelazione della sua divinità: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono» (Gv 8,28).

Sulla Croce fu posta l’iscrizione in tre lingue, latino, greco ed ebraico, che spiegava il motivo della condanna. Tutto il mondo doveva capire. Tutti dovevano guardare al vero Re esaltato sul suo Trono d’amore e di dolore. È la Croce di Gesù che libera la vera regalità dal sopruso della menzogna e dell’invidia. È ancora e sempre la Croce che ci libera dalle false concezioni della religione e da un facile irenismo dove ciò che conta di più è la stabilità sociale o la dignità dell’uomo, dimenticando Dio. Lo si consegna alla Croce, ma è dall’alto di essa che il Signore ci dice: Io Sono. È solo nella Croce, allora, che possiamo riconciliare il dato dottrinale-morale della libertà religiosa con il suo aspetto sociale e con l’assenza della coercizione. Lo si proverà a fare per l’unità della Chiesa e il bene delle anime?




(Foto: Duccio di Buoninsegna)


[1] Per un’indagine sistematica sulla regalità sociale di Cristo, vedi S.M. Lanzetta, «Oportet enim Illum regnare» (1Cor 15,25). La regalità sociale di Cristo, in «Fides Catholica» 1 (2020) 111-134.





Guida per principianti ai problemi del “novus ordo missae” (2)








di Aldo Maria Valli, 13 dic 2025

Una volta un’amica, reduce da una santa messa tradizionale, disse: “È un po’ come un vino rosso ben invecchiato rispetto alla bevanda Kool-Aid”.

Ecco un commento sincero, da parte di chi non è abituato alla polemica ma è sensibile alla realtà. Il buon vino e la Kool-Aid [bevanda dolce americana, che si produce mescolando acqua, zucchero e una polvere al sapore di ciliegia, limonata e tante altre varianti, N.d.T.] appartengono a mondi completamente diversi, non solo per il gusto, ma per origine, scopo e profondità. Kool-Aid è prodotta per l’immediatezza: dolce, colorata, gratificante all’istante, non richiede pazienza, nessuna formazione del palato, nessuna riflessione prolungata. Il vino è coltivato lentamente, invecchiato in silenzio, plasmato dal tempo, dalla tradizione e dalla moderazione. Confondere l’una con l’altro è impossibile una volta che si sono veramente assaggiati entrambi.

La mia amica era cresciuta, come molti cattolici della sua generazione, conoscendo solo il novus ordo missae. Per lei era familiare, comprensibile, sincero, spesso benintenzionato. L’aveva incontrato in chiese parrocchiali organizzate ed efficienti, accompagnato da inni che sapeva già cantare dopo averli ascoltati una sola volta, celebrato da sacerdoti che parlavano in modo diretto, amichevole, rassicurante. Niente di tutto ciò le sembrava scandaloso. Era semplicemente la messa. E quando si ritrovò, quasi per caso, ad assistere a una santa messa solenne in rito romano tradizionale – con i suoi canti, il silenzio, la gerarchia ordinata dei ministri e il senso di gravità – ne emerse visibilmente turbata. Non arrabbiata, ma pensierosa. Qualcosa l’aveva toccata, ma faceva fatica a dargli un nome.

Ciò che sperimentò non fu semplicemente un’estetica diversa, né una mera preferenza per il latino, l’incenso o i paramenti. Incontrò una concezione del culto completamente diversa. Nella santa messa antica nessuno si affretta a spiegare. Il rituale assume il mistero anziché gestirlo. Il significato non è costantemente verbalizzato, ma incarnato attraverso gesti, orientamento e moderazione. Il sacerdote non si rivolge ai fedeli, ma li guida. I fedeli non vengono intrattenuti, istruiti o incoraggiati a ogni occasione; sono posti, in modo consapevole, al cospetto di Dio.

Il paragone proposto dalla mia amica, fatto senza secondi fini e senza ideologia, coglie con disarmante chiarezza il cuore del dibattito che riguarda il novus ordo missae. La controversia è spesso inquadrata in termini di obbedienza contro preferenza, progresso contro nostalgia, accessibilità contro elitarismo. Ma tutte queste dicotomie oscurano la questione più profonda: non si tratta di vedere se una forma della messa sia valida, ma se tutte le forme trasmettano ugualmente la pienezza di ciò che la messa è. Se la santa messa è, come insegna la Chiesa, la rappresentazione incruenta del sacrificio del Calvario, l’asse su cui cielo e terra si incontrano, allora il modo in cui questa realtà viene espressa – ritualmente, teologicamente, simbolicamente – è di fondamentale importanza.

La seconda parte del nostro contributo [qui la prima] si fonda su questa convinzione. Non si basa su sentimentalismi o gusti, ma sulla sostanza. Per il bene di coloro che ancora si chiedono cosa ci sia di sbagliato nella “nuova messa”, cerchiamo quindi di esaminare, in modo completo e schietto, i problemi che teologi, sacerdoti, liturgisti e fedeli cattolici hanno individuato nel novus ordo missae nell’ultimo mezzo secolo.

Il paragone tra la bevanda Kool-Aid e il vino invecchiato è una diagnosi calzante. E come tutte le diagnosi oneste, richiede che la prendiamo in considerazione attentamente, senza distogliere lo sguardo.

Dalla rottura rituale alla conseguenza spirituale


Se le prime ferite inflitte dal novus ordo missae furono teologiche e rituali, le loro conseguenze più profonde si dispiegarono lentamente, quasi impercettibilmente, nell’ambito della cultura, della psicologia e della fede. La riforma non si limitò a modificare preghiere e gesti; riformulò sottilmente, e dall’interno, il culto stesso. Se un tempo la Chiesa attraverso il culto attirava l’anima verso l’alto, verso la trascendenza, ora la educava a mantenere lo sguardo orizzontale. Il mistero divenne spiegazione. Lo stupore cedette il passo alla familiarità, il silenzio al suono. In questo modo la riforma diede inizio a una trasformazione non solo liturgica, ma anche antropologica.

Spostamento del mistero e della trascendenza


Il Rito Romano tradizionale non si spiegava. Avvolgeva. I suoi silenzi non erano vuoti imbarazzanti, ma spazi sacri, carichi di attesa e di significato. Il canone silenzioso, pronunciato quasi in un sussurro, lasciava intendere che qualcosa di terribile e sacro stava accadendo. Il mistero non veniva semplicemente osservato. Ci si inginocchiava davanti a esso.

Nel novus ordo missae questa grammatica del mistero svanisce. Quasi ogni preghiera viene pronunciata ad alta voce. I microfoni amplificano ciò che un tempo era velato. La preghiera eucaristica diventa un’azione narrata piuttosto che un evento avvolgente. Invece del silenzio che indica la vicinanza divina, il suono riempie ogni fessura del rito. Anche quando il silenzio è prescritto, è comunque facoltativo, breve e spesso ignorato.

Questo cambiamento non è banale. Il mistero non può sopravvivere a continue spiegazioni. La trascendenza si ritira quando il sacro viene verbalizzato incessantemente. L’anima, privata del linguaggio del timore reverenziale, perde lentamente l’istinto di adorare.

Crollo dei confini liturgici


Strettamente connesso a questa perdita di mistero è il crollo di confini liturgici netti. Per secoli il culto cattolico ha accuratamente segnato le soglie: tra navata e presbiterio, clero e laici, preparazione e consacrazione, parola e silenzio. Questi confini non erano espressione di clericalismo, ma indicazioni teologiche che facevano capire che ci si stava avvicinando a un luogo sacro.

Nella liturgia riformata queste distinzioni si perdono quasi completamente. I “ministri” laici entrano regolarmente nel presbiterio. I “ministri straordinari” si radunano attorno all’altare. Il presbiterio stesso è spesso architettonicamente indistinto, privo di prospetti, balaustre o separazione visiva. Ciò che un tempo era avvicinato con trepidazione, ora è accessibile con facilità.

L’effetto psicologico è profondo. Quando nulla annuncia “qui inizia il sacro”, nulla educa l’anima a inginocchiarsi interiormente. La familiarità non genera disprezzo, ma indifferenza sì.

Fragilità rituale della nuova liturgia

Uno dei contrasti più evidenti tra la messa tradizionale e il novus ordo risiede nell’adattamento. Il rito antico è pressoché indistruttibile. La sua densità di preghiere, gesti e silenzi crea una struttura che resiste alle intrusioni. La creatività personale ha poco spazio. Il sacerdote si sottomette al rito.

Il novus ordo, al contrario, è straordinariamente fragile. Privato di molte ridondanze rituali, dipende fortemente da fattori esterni per quanto riguarda tono e significato. La musica, la personalità del celebrante, l’ambiente architettonico e lo stile pastorale assumono un ruolo sproporzionato. Il risultato è che il carattere della messa non è più intrinseco, ma contingente.

Questa fragilità spiega la straordinaria varietà del culto cattolico moderno. Ci sono messe guidate dalla chitarra, liturgie riccamente coreografate, preghiere eucaristiche colloquiali, applausi, tamburi, processioni che sembrano performance e commenti improvvisati che si intrecciano lungo tutto il rito. Questi fenomeni sono sintomi di un rito privo della sufficiente gravità interna necessaria per reggersi in piedi.

Antropocentrismo e ascesa della performance

Man mano che il rito perde trascendenza, acquisisce inevitabilmente un nuovo centro: l’assemblea umana. Il centro si sposta dal sacrificio all’assemblea, dall’oblazione alla partecipazione, dall’offerta all’espressione. La messa non è più ciò che Cristo fa attraverso il sacerdote, ma ciò che la comunità fa secondo gusti e circostanze.

Il cambiamento è rafforzato dall’orientamento fisico. Quando il sacerdote si rivolge al popolo, diventa necessariamente un punto focale. I suoi atteggiamenti, il suo tono, il suo calore o la sua goffaggine plasmano l’esperienza. La pressione a coinvolgere, a essere accessibile, a personalizzare il rito si fa intensa. Col tempo, il sacerdote smette di essere uno strumento nascosto e diventa un facilitatore visibile e persino un intrattenitore.

Il pericolo qui non risiede nelle cattive intenzioni, ma nella struttura stessa. Un rito che richiede un contatto visivo costante invita alla performance. Un rito che sopprime il silenzio incoraggia il riempimento verbale. Un rito che premia l’accessibilità rischia di banalizzare il sacro.

Amnesia calendariale e perdita del tempo sacro

Il tempo liturgico è la memoria della Chiesa. Attraverso ripetuti periodi, digiuni, veglie e feste, i cattolici hanno imparato a vivere la storia sacra. Il calendario preconciliare ha formato gradualmente i fedeli, tornando anno dopo anno agli stessi momenti, le stesse letture, le stesse preghiere, fino a farle diventare istintive.

La riforma postconciliare ha sconvolto questa memoria. Antiche festività come la Settuagesima sono scomparse da un giorno all’altro. Le Quattro Tempora e le Rogazioni sono scomparse dalla pratica comune. Le ottave sono state abolite. Il lungo ritmo pedagogico della ripetizione è stato sostituito da una costante variabilità.

L’introduzione del lezionario triennale amplificò questo effetto. Ne ampliò la portata, ma ne frammentò la coerenza. I fedeli non ascoltavano più le stesse letture ogni anno, né trovavano la stessa unità tematica tra preghiere e letture. La memoria si indebolì. La familiarità si dissolse. La messa divenne informativa anziché formativa.

Una Chiesa che dimentica come ricordare, dimentica presto chi è.

L’assottigliamento dottrinale della lex orandi

Poiché la Chiesa insegna principalmente attraverso il culto, i cambiamenti nel linguaggio liturgico plasmano inevitabilmente la fede. La riforma non ha negato esplicitamente la dottrina cattolica, ma ha spesso attenuato, minimizzato o eliminato enfasi dottrinali da tempo presenti nel Rito Romano.

Le preghiere che facevano riferimento al giudizio, alla penitenza, al combattimento spirituale e all’ira divina furono rimosse o ridotte. Il linguaggio del sacrificio fu eliminato. I riferimenti al merito, alla mortificazione e al timore di Dio divennero rari. Le invocazioni mariane diminuirono in frequenza e densità.

Ciò che rimaneva non era eresia, ma vaghezza e ambiguità. E col tempo la vaghezza genera incertezza. Una generazione formata da questo linguaggio fatica ad articolare chiaramente ciò che la Chiesa crede riguardo al peccato, alla salvezza e al sacrificio, perché non avverte più che queste verità sono racchiuse nella preghiera.

Casualità eucaristica ed erosione della fede

Forse nessuna conseguenza della riforma è più visibile del drammatico indebolimento della venerazione eucaristica. Pratiche un tempo universalmente proibite o sconosciute sono diventate normali: la comunione sulla mano, la sua ricezione in piedi, l’uso diffuso di ministri straordinari e la scomparsa del digiuno e della confessione come prerequisiti.

Ogni cambiamento all’inizio sembrò insignificante. Attorno a ciò che i cattolici professano essere il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità di Cristo si stava creando un’atmosfera di straordinaria disinvoltura. La scomparsa della patena, la riduzione delle genuflessioni, lo spostamento del tabernacolo e la moltiplicazione dei laici addetti alla cerimonia comunicano, seppur involontariamente, che non sta accadendo nulla di particolarmente sacro e solenne.

La fede segue il gesto. Quando i gesti non proclamano più il mistero, la fede si erode silenziosamente.

Funerali senza giudizio e speranza senza paura

In nessun luogo il cambiamento teologico è più evidente che nei funerali cattolici. La tradizionale messa da requiem metteva i fedeli di fronte alla morte, al giudizio e all’urgenza della preghiera per l’anima del defunto. I paramenti sacri neri, gli “Alleluia” repressi e la poesia agghiacciante del “Dies irae” formavano i cattolici al realismo e al timore di Dio.

I riti riformati, al contrario, spesso evitano del tutto il giudizio. I funerali sono concepiti come celebrazioni della vita. Gli elogi funebri prevalgono. I paramenti bianchi sostituiscono quelli neri. La consolazione eclissa la supplica. I defunti sono implicitamente canonizzati.

Il costo dottrinale è elevato. Quando il giudizio scompare dal culto, il pentimento scompare presto dalla vita.

La Chiesa non giudica la verità solo in base alle statistiche, ma i frutti contano. Dall’introduzione del novus ordo missae la Chiesa occidentale ha vissuto un crollo senza precedenti: la partecipazione alla messa è precipitata, le vocazioni sono diminuite, la fede nella presenza reale è caduta, la conoscenza catechetica è evaporata e la pratica religiosa si è disintegrata nel giro di una sola generazione.

La correlazione non implica automaticamente causalità, ma negare qualsiasi connessione è intellettualmente disonesto. È un fatto: la rottura liturgica più radicale nella storia cattolica ha coinciso con il crollo spirituale più drammatico nella storia della Chiesa. Questo non può essere casuale.

Una lex orandi indebolita produce una lex credendi indebolita. Una lex credendi indebolita produce una Chiesa indebolita.

2.Fine

La precedente puntata si trova qui.

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venerdì 12 dicembre 2025

Guida per principianti ai problemi del “novus ordo missae”






by Aldo Maria Valli, 12 dic 2025

Che si possieda o meno una comprensione intellettuale di ogni rubrica, di ogni gesto e di ogni preghiera della liturgia tradizionale, è chiaro la santa messa vetus ordo opera a un livello profondo. Siamo nel campo dell’adorazione, non dell’analisi. È quindi impossibile accostarsi a questo tesoro della nostra Fede senza l’inequivocabile consapevolezza di partecipare a qualcosa di veramente altro rispetto al tempo e allo spazio profani, qualcosa di grandioso e davvero trascendente. Nella santa messa tradizionale sappiamo di trovarci, per quanto indegni, davanti al trono di Dio e sappiamo che un tale incontro non richiede altro che totale riverenza, umiltà e timore reverenziale.

La mia intenzione è di esaminare il netto contrasto tra questa sacra eredità e ciò che è venuto a sostituirla, ovvero quella costruzione neo-protestante nota come novus ordo missae.

La sostituzione avvenne nonostante il solenne decreto di papa san Pio V “Quo primum tempore” (14 luglio 1570), che promulgò il Messale Romano della liturgia tridentina e ne impose l’uso esclusivo in tutta la Chiesa latina. La bolla papale, lo ricordo, proibiva esplicitamente qualsiasi aggiunta, sottrazione o alterazione della messa, invocando l’ira di Dio Onnipotente su coloro che avessero osato manometterla, ma tali avvertimenti evidentemente hanno scarso peso per i modernisti, che infatti hanno sostituito il Dio veramente esigente e giusto con una divinità di loro creazione, accomodante e addomesticata.

Sono convinto che gran parte dei lettori comprenda bene perché la santa messa tradizionale sia la più gradita a Dio e riconosca i gravi difetti del novus ordo. Tuttavia, poiché so che un numero considerevole di fedeli cattolici si chiede sinceramente che cosa ci sia di sbagliato nella messa riformata, ecco alcune indicazioni, il cui obiettivo è fornire spiegazioni chiare e accessibili ai problemi teologici, liturgici e spirituali posti da un rito che considero pseudo-cattolico.

Vi chiedo di condividere questi articoli con chi è alla ricerca, si interroga o è inquieto. La verità, una volta incontrata, rifiuta di rimanere in silenzio.

Rottura teologica, liturgica e rituale


Per gran parte della sua storia, la Chiesa ha pregato come credeva e ha creduto come pregava. Il Rito Romano non è nato da una teoria o da un comitato, ma da secoli e secoli di pratica, sacrificio e santificazione. Ogni gesto, ogni preghiera, ogni silenzio portava i segni di generazioni che si erano inginocchiate, avevano sussurrato e offerto il Santo Sacrificio in ogni situazione, anche in mezzo a persecuzioni, pestilenze, rivoluzioni e guerre. La liturgia non fu mai un testo da rivedere, ma un’eredità da accogliere e trasmettere.

La promulgazione del novus ordo missae nel 1969 segnò una rottura decisiva. Una riforma senza precedenti per portata, rapidità e metodo. Da subito gli osservatori cattolici legati alla tradizione vi scorsero non solo un cambiamento estetico, ma uno spostamento teologico.

Partiamo dal cuore della questione: il sacrificio.

L’oscuramento della natura sacrificale della Messa

Al centro delle critiche c’era e c’è un’unica, grave preoccupazione: il novus ordo missae oscura la dimensione della santa messa come sacrificio propiziatorio. Il Rito Romano tradizionale non smise mai di insistere sul sacrificio. Dall’ascesa iniziale all’altare fino alla proclamazione finale del Vangelo di san Giovanni, la liturgia proclamava che il Calvario si stava rendendo presente, incruento ma reale, offerto da Cristo attraverso le mani del sacerdote per i peccati dei vivi e dei morti.

Questa chiarezza sacrificale era particolarmente evidente nell’offertorio. Nella santa messa tradizionale il sacerdote offre l’ostia come “vittima immacolata” e nomina esplicitamente i suoi “innumerevoli peccati”, le “offese” e le “negligenze”. Il calice viene offerto “per la nostra salvezza e per quella del mondo intero”. Il linguaggio non lascia spazio all’ambiguità. Ciò che giace sull’altare è già destinato al sacrificio.

Nel novus ordo queste preghiere sono state completamente rimosse e sostituite con nuove formule tratte dalle benedizioni ebraiche della mensa: “Benedetto sei tu, Signore Dio di tutta la creazione, perché dalla tua bontà abbiamo ricevuto il pane che ti offriamo”. Queste parole non sono intrinsecamente errate, ma non sono sacrificali. Parlano di doni, non di vittime; di nutrimento, non di immolazione; di lavoro umano, non di propiziazione divina. Questo cambiamento sposta l’asse teologico del rito, così che il significato della messa cambia: da offerta sacrificale a pasto comunitario.

Il cambiamento è rafforzato dalla proliferazione delle preghiere eucaristiche. Il Canone Romano, praticamente immutato per quindici secoli e incentrato sul sacrificio, non è più normativo. Nella pratica, è spesso sostituito dalla preghiera eucaristica II, la più breve e meno esplicita nella sua espressione sacrificale. Il risultato non è una negazione formale, ma un’attenuazione abituale: la dimensione sacrificale ora è desunta piuttosto che dichiarata.

La diminuzione del sacerdozio ministeriale

Strettamente legato alla questione sacrificale è il ruolo del sacerdote. Nel rito tradizionale il sacerdote svolge inequivocabilmente il ruolo di mediatore. Sale da solo i gradini dell’altare, sussurra preghiere che i fedeli possono non percepire e offre sacrifici per loro conto. La sua postura, i suoi silenzi e la sua separazione dall’assemblea indicano una realtà teologica: egli agisce in persona Christi, non semplicemente come delegato della comunità lì riunita.

Il novus ordo rimodella questa dinamica. Dal saluto iniziale in poi, il sacerdote assume il ruolo di presidente dell’assemblea. Rivolto verso il popolo, parla costantemente, a volte anche scherzando, e dialoga. Da parte loro, i laici assumono ruoli un tempo riservati ai chierici, non solo leggendo la Scrittura, ma anche distribuendo la santa comunione e maneggiando i vasi sacri. L’attenta disciplina rituale che un tempo enfatizzava il ruolo unico delle mani consacrate del sacerdote – pensiamo alle dita giunte dopo la consacrazione, evitando contatti non necessari con le specie sacre – è in gran parte assente.

Il sacerdozio non viene negato esplicitamente, ma la sua specificità è offuscata e annacquata. Quando il sacerdote appare funzionalmente intercambiabile con i partecipanti laici, il suo ruolo sacrificale unico diventa meno visibile. E col tempo la visibilità plasma la fede. Un sacerdote che assomiglia a un presidente inizia a essere percepito sempre di più come un semplice presidente e non più come sacerdote.

L’indebolimento della riverenza eucaristica e della presenza reale


La dottrina della presenza reale resta affermata sulla carta, ma l’espressione rituale è stata notevolmente indebolita. Nella messa tradizionale la riverenza è insita in ogni movimento. La riverenza espressa dalla postura del sacerdote davanti alla presenza reale è manifestata nel numero di genuflessioni obbligatorie. Durante la messa – bassa o solenne che sia – il celebrante si genuflette circa diciassette volte, senza contare le genuflessioni aggiuntive effettuate avvicinandosi o allontanandosi dall’altare se il Santissimo Sacramento è presente. E queste genuflessioni si verificano in momenti teologicamente decisivi: ogni volta che il sacerdote passa davanti al Sacramento, dopo ogni elevazione dell’ostia e del calice, ripetutamente durante il canone e prima e dopo la propria comunione. Al contrario, nel novus ordo missae il sacerdote è tenuto a genuflettersi solo tre volte: dopo l’elevazione dell’ostia, dopo l’elevazione del calice e dopo l’Agnus Dei al momento dell’”Ecco l’Agnello di Dio”, immediatamente prima della comunione. Ciò rappresenta una riduzione di circa l’ottanta per cento delle genuflessioni, un cambiamento tutt’altro che casuale, perché la genuflessione non è un mero svolazzo cerimoniale, ma una confessione di fede mediante il corpo: lex orandi, lex credendi. La santa messa tradizionale, attraverso i ripetuti inginocchiamenti, abitua il sacerdote ad adorare Cristo presente veramente, sostanzialmente, sull’altare. Il novus ordo, al contrario, riducendo la postura dell’adorazione a un obbligo minimo, rimodella sottilmente l’enfasi della liturgia dalla dimensione del sacrificio a quella di incontro comunitario, contribuendo così a una profonda erosione della fede eucaristica.

Nella santa messa tradizionale i fedeli si inginocchiano per ricevere la santa comunione sulla lingua. Il tabernacolo si trova al centro del presbiterio, segnalato da una lampada accesa e fiancheggiato da candele.

Al contrario, il novus ordo consente di ricevere la comunione in piedi e sulla mano, spesso da ministri laici. In innumerevoli chiese il tabernacolo è stato spostato dall’asse centrale o trasferito in una cappella laterale. Queste pratiche non sono obbligatorie in base al Messale, ma in concreto si sono imposte come normative.

La dottrina non vive solo nei testi. Vive nell’abitudine, nei gesti, nella postura e nel silenzio. Quando i fedeli non sono più addestrati a inginocchiarsi, ad adorare e ad avvicinarsi con timore e tremore, la fede nella presenza reale inevitabilmente si erode. Il crollo generalizzato della fede eucaristica nei decenni successivi alla riforma non è una coincidenza. Si tratta di una conseguenza.

Ecumenismo e sensibilità protestante

Un altro aspetto deplorevole della nuova messa risiede nell’orientamento ecumenico imposto dalla riforma. Il coinvolgimento di osservatori protestanti nella stesura del nuovo rito fu solo consultivo, ma non ha mai cessato di destare sospetti. La liturgia che è stata adottata, infatti, minimizza proprio gli elementi storicamente rifiutati dalla teologia protestante: il linguaggio sacrificale, la mediazione sacerdotale e la nozione di propiziazione.

Non si tratta di preoccupazioni infondate. Le dichiarazioni di quel periodo riflettono un desiderio esplicito di rimuovere gli ostacoli al dialogo ecumenico. Così facendo, la riforma attenua aspetti del culto cattolico che non erano periferici, bensì costitutivi. Una messa che possa essere facilmente riconosciuta come accettabile da un ministro protestante è già un segno di compromesso molto preoccupante.

Perdita del linguaggio sacro e dell’espressione ieratica

La lingua plasma la coscienza e la fede. Così, l’abbandono del latino rappresenta una delle rotture più evidenti con la tradizione. Il latino non è mai stato semplicemente uno strumento. Era lingua sacra, separata dal linguaggio quotidiano perché immune da derive colloquiali e universalmente unificante. Il latino aveva legato i cattolici attraverso i secoli e i continenti. Attraverso il latino, avevamo le stesse parole, le stesse preghiere, lo stesso culto.

La volgarizzazione della messa ha frantumato questa unità. Le prime traduzioni sacrificarono la precisione in favore dell’accessibilità, come si vede nel caso del “pro multis” diventato “per tutti”, un errore di traduzione che si è protratto per decenni. Preghiere un tempo dense di contenuto teologico sono state appiattite in una prosa funzionale. Le invocazioni di angeli, santi e intercessioni cosmiche sono state abbreviate o rimosse.

Quando il linguaggio del culto diventa indistinguibile dal linguaggio comune quotidiano, il senso di sacra alterità inevitabilmente diminuisce. E la messa comincia a suonare come qualcosa di rivolto agli uomini piuttosto che a Dio.

Eccessiva facoltatività e frammentazione liturgica

Il novus ordo missae è definito non da norme stabili e universali ma dalla libertà di scelta. Molteplici i riti penitenziali, molteplici le preghiere eucaristiche. Variabili le letture, facoltativi i gesti. Ampia la possibilità di adattamento. Risultato: un rito senza un’identità fissa, tanto è vero che non esiste un novus ordo missae standard. Due parrocchie della stessa diocesi possono celebrare la messa in modi così diversi da sembrare appartenenti a religioni diverse.

Nel Rito Romano tradizionale la stabilità aveva una portata formativa. I fedeli imparavano la messa attraverso la ripetizione. Il sacerdote non plasmava il rito, ma vi si sottometteva. Nella nuova liturgia, invece, la personalità del celebrante e le preferenze individuali spesso colmano il vuoto lasciato dalla mancanza di prescrizioni.

All’interno di questo relativismo liturgico la messa diventa una piattaforma per la creatività personale e locale piuttosto che un atto di culto recepito universalmente. Il sacerdote sceglie, adatta e improvvisa. I fedeli incontrano non più il Rito Romano, ma una sua versione modificabile e adattabile.

Semplificazione e perdita di densità rituale

Infine, va segnalata la deplorevole semplificazione sistematica della liturgia. Le preghiere ai piedi dell’altare, il Salmo 42, i molteplici segni della croce, i baci rituali dell’altare e l’ultimo Vangelo non erano eccessi decorativi, ma pedagogia teologica. Incarnavano umiltà, preparazione, riverenza e contemplazione.

La loro rimozione ha prodotto un rito che, secondo i suoi sostenitori, è più breve, più chiaro e più accessibile, ma in definitiva è più esile e impoverito, il che lascia i partecipanti spiritualmente denutriti. Il silenzio è stato ridotto. La gestualità è stata minimizzata. Il canone, un tempo avvolto in un silenzio reverente, ora viene proclamato ad alta voce. Il mistero cede il passo alla spiegazione.

La messa tradizionale non andava spiegata. Il suo significato non veniva svelato attraverso il commento, ma attraverso la forma stessa. Semplificando il rito, la riforma lo spogliò proprio di quegli elementi che formavano le anime.

Ciò che emerge da queste prime annotazioni non è un elenco di lamentele sconnesse, ma un’unica diagnosi: c’è stata una vera e propria rottura. Una rottura nell’enfasi sacrificale, nell’identità sacerdotale, nella riverenza eucaristica, nel linguaggio sacro, nella stabilità rituale e nella profondità simbolica. Ritenere questa rottura giustificata o catastrofica non è lo scopo delle nostre osservazioni. Ciò che non si può negare è che la rottura c’è stata, e che i suoi effetti sono stati profondi.

In una seconda parte esamineremo le conseguenze storiche, pastorali, sociologiche ed estetiche di questa rottura, passando dalla struttura ai frutti, dalla riforma alle sue conseguenze.

2.continua

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Provetta letale, le malattie dei padri ricadono sui figli



Un unico "donatore" portatore di una mutazione genetica e quasi 200 bambini ad altissimo rischio di tumori. Senza contare le piccole vittime che la fecondazione extracorporea miete già di per sé. Si invocano controlli più rigorosi ma il peccato originale è manipolare la vita.



Le colpe dei padri ricadranno sui figli. A volte anche le malattie dei primi ricadranno sui secondi. A seguito di un’attività investigativa svolta da 14 emittenti pubbliche, si è scoperto che quasi 200 bambini, concepiti tramite fecondazione artificiale, sono nati dallo sperma di un unico “donatore”, il quale è portatore di una mutazione del gene Tp53. Questa mutazione può far insorgere nel 20% di questi bambini la sindrome di Li Fraumeni la quale aumenta fino al 90% il rischio di contrarre dei tumori nell’infanzia e il tumore al seno per le donne.

L’uomo ha iniziato a “donare” il suo sperma nel 2005 e si è fermato nel suo desiderio di emulare Abramo nel 2022. La Banca europea del seme ha reso noto che l’uomo non è malato e che il suo seme è stato utilizzato da 67 cliniche in 19 Paesi per far nascere 197 bambini. Circa 200 bambini a cui bisogna sommare almeno altri duemila bambini morti durante le tecniche di fecondazione artificiale. Il calcolo riguardo ai bambini venuti alla luce è sicuramente in difetto perché non tutti i Paesi hanno comunicato i dati relativi a questo caso.

67 di quei 197 bambini sono stati già sottoposti ad esame e in 23 di loro è stata rinvenuta la maledetta mutazione. A dieci di loro è stato diagnosticato un tumore e alcuni sono già morti. Per gli altri, come già accennato, il rischio di ammalarsi gravemente è elevatissimo.

Clare Turnbull, genetista oncologa presso l’Istituto di ricerca sul cancro di Londra, ha dichiarato alla BBC: «Quella della sindrome di Li Fraumeni è una diagnosi terribile. È molto difficile da accettare per una famiglia, è pesante convivere con la probabilità di sviluppare un cancro». I genitori sono infatti obbligati per molti anni a sottoporre i figli ad esami per individuare in modo precoce eventuali tumori. Si vive con la spada di Damocle sulla testa e spesso quella spada cade impietosa.

La levata di scudi è stata immediata. Il problema sarebbe duplice: a livello internazionale e nazionale si permetterebbero troppe “donazioni” da un unico soggetto. Secondo: occorrono screening più accurati. 

Partiamo dal primo inciampo il cui ragionamento è semplice: meno concepimenti, meno bambini ammalati. Ciò non corrisponde al vero: se si diminuiscono i concepimenti da un unico donatore si aumenteranno per compensazione i concepimenti da più donatori, anch’essi portatori eventualmente della stessa o di altre patologie genetiche. In secondo luogo e andando al nocciolo del problema, parrebbe che la malvagità della fecondazione eterologa risiederebbe nel numero di “donazioni”. Sarebbe una questione quantitativa e non qualitativa, ossia riferibile alla qualità dell’atto, al cosa è la fecondazione extracorporea. Ma il vero problema etico non è nel grado dell’atto – individuare la soglia oltre la quale il numero di “donazioni” diventa moralmente illecito – bensì nella specie dell’atto – è la fecondazione artificiale in sé ad essere atto moralmente illecito: il numero rende “solo” più grave l’illecito.

In merito all’esigenza di esami più accurati sui gameti, risponde Allan Pacey, già direttore della Sheffield Sperm Bank e ora è vicepreside della Facoltà di Biologia, medicina e salute all'Università di Manchester: «Non è possibile effettuare screening per tutto, accettiamo solo l'1% o il 2% degli uomini che si candidano come donatori di sperma nell'attuale sistema di screening, quindi se lo rendessimo ancora più rigoroso non ne avremmo più nessuno», racconta sempre alla BBC per spiegare che per prassi non viene ricercata la mutazione Tp53 al pari di moltissime altre. Dunque non rendiamo più rigorosi i controlli altrimenti non possiamo più vendere l’eterologa a nessuno e lasciamo invece che i rischi sulla salute ricadano sui bambini. D’altronde il ragionamento è coerente: se con la fecondazione artificiale espongo più del 90% dei concepiti ad un rischio mortale perché tenere indenne da questo stesso rischio i sopravvissuti alla provetta?

Qual è invece il peccato originale di questo dramma della provetta? Non sta essenzialmente nel numero di filiazioni per procura, né negli screening genetici, bensì nelle stesse tecniche di fecondazione extracorporea. La generazione a seguito del rapporto sessuale riduce di molto il rischio di trasmettere tare genetiche. Infatti madre natura, o Dio Padre a seconda del proprio grado di maturazione spirituale, seleziona già il migliore (almeno sulla carta) spermatozoo per fecondare. La tanto decantata selezione naturale darwiniana qui viene abbandonata a favore di una selezione artificiale che è assolutamente fallace, perché è quasi impossibile trovare tra centinaia di milioni di spermatozoi il più talentuoso perché il più sano. Siamo tutti per il bio, ma non quando si parla di figli. Il bio-figlio viene sostituito dal tecno-figlio e i risultati sono questi.

È inevitabile: stante l’inscindibile unità di spirito e corpo, quando violiamo una legge metafisica i danni si ripercuotono anche nel mondo fisico. Il disordine morale si riverbera nel disordine fisico. Violate il principio morale secondo il quale solo dall’abbraccio amorevole tra marito e moglie è lecito che nasca un figlio e avrete figli ammalati – e non solo della sindrome di Li Fraumeni, ma anche di moltissime altre patologie (clicca qui qui, qui e qui) – avrete centinaia di figli di un unico padre e centinaia di fratellastri sparsi per il mondo, ledendo così il diritto nativo di ogni bambino di crescere con il proprio padre e con i propri fratelli e ferendo a morte l’istituto della famiglia qui polverizzato in una congerie di relazioni solo biologiche e non più sociali, solo genetiche e non più affettive.
È proprio vero: le colpe dei padri ricadranno sui figli.





giovedì 11 dicembre 2025

Il rovesciamento del quadro ideologico dell’Occidente liberal




Gli USA rovesciano il paradigma liberal, ma i leader UE non comprendono



Di Stefano Fontana, 11 dic 2025

Le valutazioni e previsioni sull’Italia espresse dall’amministrazione americana nel recente Documento sulla sicurezza nazionale (National security Strategy) è stato preso male dai leader dell’Unione Europea, nonostante – per necessità di cose più che per convinzione – il “ministro degli esteri” Kaja Kallas abbia confermato la volontà di continuare a lavorare insieme agli USA. Secondo gli americani “in Europa c’è il rischio di cancellazione della civiltà” e, continuando come ora, essa “tra vent’anni sarà irriconoscibile”.

Il rischio che l’Europa “non capisca” e utilizzi le previsioni di Trump sul crollo di civiltà del vecchio continente per trasformarsi in un unico Stato con un ruolo globale, anche militare, è alquanto probabile. I giornali dicono che con quel documento l’America è diventata un “nemico” dell’Europa. Nel suo libro appena uscito “La scossa globale. L’effetto Trump e l’età dell’incertezza” (Rizzoli), Maurizio Molinari parla appunto di “scossa” e alle pagine 253-268 invita l’Unione Europea ad approfittarne, realizzando le proposte Draghi e Von der eyen. Molinari indica i terreni strategici nei quali l’Europa deve cominciare a fare la voce grossa e parla senza mezzi termini di Stato europeo e di Esercito europeo, pur osservando che in questo campo solo la Germania ha le carte in regola per raggiungere qualche realistico obiettivo.

I leader attuali dell’Unione Europea, deboli da ogni punto di vista a cominciare dalla legittimazione democratica ridotta ai minimi termini; incapaci di gestire politiche nataliste adeguate e di stabilire credibili ostacoli all’invasione immigrazionista; incapaci di riconoscere la possibilità concreta del sorpasso di civiltà soprattutto per la presenza islamica in crescita [Molinari sottovaluta anche questo aspetto, sostenendo che una cosa è la realtà e l’altra è la percezione]; persisi per strada seguendo le ideologie green e woke senza mai pentirsene… non sono in grado di intendere adeguatamente la sfida culturale che viene dall’America e finiscono per intenderla come una “utile provocazione” di cui approfittare per unirsi ed armarsi. Questa visione sembra innovativa e coraggiosa, invece è miope.




Molinari adopera la parola “scossa” che di per sé è già significativa. Gianfranco Battisti nel suo contributo al 17mo Rapporto dell’Osservatorio cardinale Van Thuân parla invece di una “svolta”, riferendosi soprattutto alle tematiche etiche su cui l’amministrazione Trump si è impegnata. Senza negare le enormi ripercussioni geopolitiche, non va dimenticato il nuovo quadro culturale di fondo che sta dietro a queste “scosse” e a queste “svolte”. Come è noto Trump ha bloccato i finanziamenti alle organizzazioni abortiste, ha rilanciato il “Consenso di Ginevra sulla promozione della salute della donna e del rafforzamento della famiglia” favorendo l’aumento dei Paesi firmatari, ha preso le distanze dall’Organizzazione Mondiale della Sanità il cui ruolo ideologico nell’ambito della salute (e della morte) si è rivelato nefasto creando positive difficoltà all’approvazione del pericoloso Trattato pandemico, ha bloccato i finanziamenti per sterilizzazione e aborto che passavano da USAid, è uscito dal trattato di Kyoto e, quindi, dalle ideologiche posizioni di decarbonizzazione obbligata e dalla retorica green del riscaldamento globale, che viene adoperata anche come scusa per ridurre la popolazione.

A ciò si deve aggiungere la recente decisione del Dipartimento di Stato americano (il ministero degli esteri) di considerare violazioni dei diritti umani una serie di attività di punta dell’individualismo liberal, dai trattamenti per la transizione di genere dei bambini, agli aborti finanziati dai governi, all’eutanasia coatta. Tutti hanno notato la svolta storica contenuta in queste disposizioni, una svolta epocale e, questa sì, globale.

Il movimento MAGA non è tutto allineato al suo interno, per esempio ci sono divisioni sulla politica americana nei confronti di Israele, tuttavia non si può negare che si tratti di un cambiamento notevole di paradigma valoriale e politico. Questo cambiamento anima ora le tristi previsioni sul futuro dell’Europa e sulla sua “crisi di civiltà”. Ed è proprio questo che l’Europa non riesce a tollerare e forse nemmeno a comprendere. Non ci riferiamo solo al panorama della sinistra ideologica ormai assimilabile ad una neoborghesia stanca e incredula su tutto quanto vada oltre l’autodeterminazione individuale, ma anche ai partiti che oggi vengono chiamati conservatori, il cui elettorato viene solitamente indicato spregiativamente come “populista”, “identitario” e “anti-istituzionale” (anche Molinari li chiama così nel libro sopra nominato). Se, per esempio, guardiamo al governo italiano dobbiamo notare che, pur essendosi distinto dalle posizioni velleitarie degli altri principali leader europei e pur dovendo manovrare in una situazione complicata sotto gli occhi vigili della Presidenza della Repubblica, avrebbe però potuto dare più evidenti segnali di aver percepito il cambiamento in atto. Ciò che gli illuminati chiamano populista e identitario ha una sua potenzialità politica che i partiti conservatori finora non hanno sviluppato fino in fondo.

La “svolta” di Trump ha molti aspetti, ma il principale è il rovesciamento del quadro ideologico dell’Occidente liberal. I leader dei Paesi dell’Unione Europea, oltre ad infastidirsi davanti alle telecamere, dovrebbero sforzarsi di capirne qualcosa in più.


(Foto di Natilyn Hicks Photography su Unsplash)




Una nuova discesa verso gli abissi della distruzione del matrimonio e della famiglia cristiani



Nuova tappa verso l'abisso della distruzione del matrimonio cristiano: la diocesi di Chiavari prende a modello di amore e di vita famigliare anche le coppie gay.


Chiavari

La diocesi lancia le coppie gay come modello di famiglia cristiana

 di Andrea Zambrano, 11-12-2025

La coppia gay credente, la coppia gay in cui uno dei due non crede, la coppia di due divorziati uniti civilmente sono tutte esperienze di amore e quindi di famiglia. Al pari di chi, retrogrado, si è unito in matrimonio ed è rimasto per anni fedele al coniuge. La deriva del todos, todos, todos applicata al love is love fa tappa a Chiavari. È qui che la diocesi ha dato alle stampe un libretto che segna una nuova discesa verso gli abissi della distruzione del matrimonio cristiano e della famiglia cristiana che di esso è frutto.

Si chiama “Non c’è amore più grande” ed è un opuscolo licenziato dal Servizio di pastorale famigliare diocesana diretto da don Marco Torre, che ha lo scopo di «raccogliere storie d’amore della nostra diocesi». Scordatevi le testimonianze per suscitare il desiderio della santità tra i coniugi. No, anzi, più c’è “imperfezione” meglio è. Solo che quella che viene definita imperfezione, in realtà è una vita che contraddice in toto l’insegnamento della Chiesa e di Gesù sulla morale, sulla famiglia e sul matrimonio.

Ma si sa, ormai la deriva omoeretica ha trovato casa stabilmente negli uffici pastorali delle diocesi dove sacerdoti confusi e orientati ideologicamente ricevono dai loro vescovi carta bianca per stravolgere chimicamente il dna della famiglia. Quella famiglia fondata sul matrimonio che, dai tempi di Gesù era «per questo l’uomo si unirà alla sua donna», oggi è molto più variegato all’insegna del «tutto fa brodo». È tutto, infatti, un profluvio di amore di qua e amore di là, in un verboso argomentare da baci Perugina. Si arriva persino a dire che «l’amore è qualcosa che muove, che informa l’agire e lo plasma». E quindi? Ma soprattutto: quale amore?

Accanto a storie di vera donazione di sposi che si amano nella malattia, ad esempio, il libretto ci mostra anche la vita di Marco e Michele, due omosessuali che vivono insieme e raccontano di quanto sia bello «vivere ancora più liberamente il nostro volerci bene anche all'interno della nostra comunità». Ma oltre che a cantare in chiesa e fare parte del gruppo “Amore in cammino”, lo spazio concesso a loro ha uno scopo ben preciso. Eccolo: «Il fine ultimo del nostro lavoro credo sia abbattere quei muri di divisione che hanno sempre ostacolato la partecipazione attiva di persone appartenenti all’ampia sfera dell'omoaffettività, alla vita della Chiesa, sotto l’amore dell'unico Padre che ci accoglie nella libertà di come lui ci ha creati». Il che è già una palese violazione dell’avvertimento non solo del Catechismo ma anche di quello che già nel 1986 l’allora cardinal Ratzinger diceva sull'offensiva dei gruppi Lgbt in Chiesa. Dunque, l’operazione è quella classica che abbiamo visto anche altrove: la Chiesa è vecchia e sull’omosessualità va cambiata.

Ma se non fosse chiaro che queste operazioni sono studiate a tavolino proprio per continuare a infiltrare nella vita della Chiesa l’omoeresia, ecco che arriva la storia di Gianluca a confermarci la strategia. Gianluca si presenta da solo e non in coppia perché il suo “compagno” – che non viene nominato se non con un generico “lui” - «per quanto riguarda il rapporto con la Chiesa è sempre stato molto critico e distante». Però questo non è un problema, anche Gianluca può essere preso a modello dalle parrocchie circostanti come bravo cristiano: «Contrariamente a quanto si possa pensare, questa differenza tra noi non è stata mai di ostacolo al nostro rapporto, ma è stata per entrambi motivo di maggior conoscenza reciproca, di maggiore profondità». E comunque anche questa situazione gli dà il potere di sentirsi «in comunione e in cammino anche con la mia Chiesa, in cui l’ascolto, il riconoscimento e l’accoglienza sono vissuti nella reciprocità».

Oltre alle due storie gay prese a modello, poi, troviamo anche la vicenda di Alessandra e Luca, i quali per giustificare «il nostro cammino di coppia in nuova unione» utilizzano le parole di “Amoris Laetitia” al n. 297: «Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale». Ecco serviti, quindi anche i due ex sposi, divorziati e uniti civilmente che non fanno mistero di aver violato «le regole di Dio» per conoscere meglio il suo volto (!) senza rinunciare «a quell’ideale d’amore da sempre desiderato».

Che cosa dirà il vescovo di Chiavari Giampio Devasini? Al momento nulla, però il fatto che la diocesi non sia nuova a iniziative di stampo omoeretico non fa ben sperare. Il don Torre due anni fa organizzò con la Tenda di Gionata una serie di iniziative Lgbt tenute in seminario. Mentre a Rapallo, che è nella stessa diocesi ligure, stando alla Verità, si scopre che esiste un’associazione chiamata La Nassa che ha sede nella parrocchia di Sant’Anna e organizza il Sextival, il festival della salute sessuale, che da nome è tutto un programma.

Insomma, se il frutto non cade mai lontano dall’albero, il libretto per le famiglie cristiane in salsa gay friendly è destinato a rimanere e a non essere ritenuto solo un incidente di percorso. Dopo le veglie anti omofobia, il passo successivo è sdoganare la pratica omoerotica come pienamente inserita dentro il corpus della famiglia naturale e cristiana. Col placet dei vescovi.






mercoledì 10 dicembre 2025

Legge sull’eutanasia = tentazione. Eutanasia = peccato gravissimo





Tentazione e peccato. L’ultimo pasto del condannato quale alternativa al banchetto eterno


Di Redazione Blog di Sabino Paciolla, 10 dicembre 2025)


di Alfredo Villa

Il dibattito sull’Eutanasia continua nella sua inutilità tra poli opposti, ognuno sospinto da una propria ideologia sclerotizzata e non potrà mai esserci un punto di incontro, se non con l’approvazione di una legge cerchiobottista che scontenterà comunque tutti.

La Chiesa, nel suo desiderio di apertura, sembra convergere verso quello che è stato definito dalla CEI come il minore dei mali, ovvero tendere verso il sostegno ad una legge dello Stato, che, oltre a non risolvere nulla e senza soddisfare nessuno tra i contendenti, avrà come unico risultato il rafforzarsi delle divisioni all’interno della Chiesa stessa e la continua emorragia di fedeli.

Nella Milano della Vanoni, morta naturalmente, quasi sorprendendo tutti su di un evento che ad oltre novant’anni è per lo meno più che probabile ad ogni istante, si è sempre detto “Ofelè fa el to mesté! e quindi la vera domanda da porsi è perché la Chiesa abbia smesso di fare il suo, soprattutto quando interviene su argomenti, come la sofferenza e la morte, sui quali è più che titolata ad esprimersi.

La mia conclusione, divenuta certezza in occasione dei recenti suicidi assistiti, è che, quando la Chiesa si esprime usa parole che lasciano ampio spazio alle più svariate interpretazioni, perdendosi in un linguaggio e in forme di comunicazione che non le competono o, meglio, sulle quali ha indubbia difficoltà a confrontarsi con il mondo.

Se analizziamo i termini in uso nel dibattito sull’Eutanasia, vediamo di fondo che si parla di vita, dono, libertà, dignità, autodeterminazione, volontà, parole ormai lasciate alla mercè di ogni possibile interpretazione, in quanto divenute prive di significato e senso.

Se vogliamo dare alla Chiesa il beneficio di un’assoluta buona fede nel suo parlare, bisogna riconoscere che i termini di cui sopra, hanno per la Chiesa e per i cristiani un significato chiaro ed inequivocabile e quindi vengono usati con il presupposto che il mondo li comprenda nel loro significato cristiano. Sappiamo benissimo come non sia più così.

Se vogliamo invece vedere un progetto suicida determinato e voluto, in come la Chiesa prende blandamente posizione su questo ed altri temi, e siamo in qualche modo autorizzati a pensare così dallo stesso Cardinal Zuppi che ha decretato recentemente la morte della Cristianità, non possiamo non chiederci perché i rappresentanti della Chiesa utilizzino un linguaggio, che all’ascolto dei più, non ha più alcun significato cristiano, ma anzi rafforzi ed indirettamente confermi, il pensiero mainstream su ciò che significhi, vita, dignità, libertà, volontà ed autodeterminazione.

Ho letto recentemente un intervento di Galimberti sul dono.

In poche parole, affermava, e come gli si può dare torto, che una volta ricevuto un dono, il ricevente ne può disporre liberamente. Quindi quando la Chiesa parla di vita come dono di Dio senza parlare di Croce, Redenzione, Salvezza e Vita eterna, non dice nulla e Galimberti ha ragione.

Quando parla di libertà, senza sottolineare che l’unica, vera, libertà è acconsentire a rinunciarvi in favore della volontà divina, viene automaticamente sottinteso che si tratti di ben altro.

Quando parla di dignità, senza introdurre il concetto della natura divina dell’uomo e della sua chiamata alla santità, dà implicitamente ragione ai vacui paladini di una dignità svilita.

Se la Chiesa, quindi, facesse il suo mestiere, proprio come il pasticcere del proverbio milanese, direbbe cose semplici ed inequivocabili, anche perché la Verità non è mai complessa, in quanto in caso contrario non avrebbe potuto essere rivelata ai piccoli e direbbe che la Verità non può essere né modificata né interpretata, poiché un Si è Sì ed un No è No.

Vi sono due termini che non ho ancora sentito pronunciare dalla Chiesa.

Questi sono Tentazione e Peccato.

Queste due semplici parole non solo definiscono con una precisione assoluta cosa sia una legge sull’eutanasia e cosa sia l’eutanasia stessa, ma hanno il pregio di essere comprese da tutti con facilità.

Per quanto si sia perso il senso del peccato, questo non implica che, quando se ne parla, non si capisca di cosa si stia parlando.

Lo stesso dicasi per la tentazione.

Il fatto che ci si lasci tentare e si cada in quest’ultima con grande facilità non implica che non si sappia cosa sia la tentazione e quando a questa cediamo.

Inoltre, tutti sanno che dare a chiunque la possibilità di guidare una macchina veloce, tenti ogni guidatore ad eccedere in velocità e come aver assecondato a tale tentazione, porti ad un comportamento sanzionabile e che avrà delle conseguenze.

Quello di tentazione e peccato è quindi un concetto trasversale e comprensibile da ognuno anche grazie ad esempi semplicissimi come quello che precede.

Quindi, se sull’argomento della legge sul fine vita e sull’eutanasia la Chiesa dicesse che la prima è una tentazione e la seconda è un peccato, per lo meno sarebbe finalmente comprensibile e compresa, potrebbe convincere gli incerti sulla verità di ciò che dice, soddisfare le aspettative dei fedeli e soprattutto nessuno potrebbe ribattere su concetti, quale tentazione e peccato, sui quali la Chiesa può esprimersi con l’autorità che le compete.

Perché una legge sull’eutanasia sarebbe una “tentazione”.

La storia dell’uomo, che è essenzialmente storia di Salvezza, è sempre stata caratterizzata dalla presenza dalla tentazione quasi che quest’ultima sia una condizione necessaria affinché l’uomo impari a scegliere consapevolmente tra il bene ed il male, tra la Grazia ed il peccato.

Se esiste la tentazione, ovviamente vi è un tentatore, che, in prima persona o molto più spesso attraverso inconsapevoli collaboratori, ha come fine il promuovere continuamente ogni tentazione immaginabile.

Lo scopo della tentazione, che del resto è lo scopo del Tentatore, è indurre l’uomo a peccare per separarlo da Dio e, di riflesso, implicitamente portarlo a sé.

È eccezionalmente raro, per fortuna, che l’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, voglia coscientemente separarsi da Lui e quindi affinché questo avvenga, il tentatore deve forzatamente ricorrere alla menzogna.

La modalità classica della tentazione è provare a far apparire buono, razionale, vantaggioso e quando serve, legale, ciò che in realtà non lo è.

Il nutrimento primo della tentazione è quindi la mistificazione della verità, affinché l’uomo allontanandosi da quest’ultima, si allontani, di fatto, anche da Dio.

Nessuno ed in nessuna circostanza è esente dalle tentazioni.

Né l’uomo nel Paradiso Terrestre, né Gesù nel deserto, nel Getsemani e sulla Croce.

La tentazione più grande è, tra tutte, la mistificazione di cosa realmente sia la libertà donata dell’uomo e quindi le tentazioni che chiamano in causa le libertà personali, sono forzatamente le più pericolose e le più difficili da contrastare, perché prendono il dono più grande di Dio, dopo la vita, ovvero la libertà, per dare a quest’ultima una nuova, perversa, interpretazione.

L’eutanasia, quindi rappresenta la peggiore delle tentazioni possibili, perché contemporaneamente, mistifica e stravolge due verità che sono i doni più preziosi di Dio all’uomo, ovvero la vita e la libertà.

Se, sull’eutanasia, i cristiani e la Chiesa si limitassero a dire questo, ovvero che è una tentazione ed un peccato, avrebbero ampiamente adempiuto al loro compito di collaboratori della Verità.

Basterebbe quindi dire con chiarezza che, qualsiasi legge, anche la migliore, che consenta la morte assistita e medicalizzata, è essenzialmente una pericolosissima tentazione e che, per la sua stessa natura, tenderà a favorire il compiersi di numerosi peccati di estrema gravità.

Questo implica che tale legge deve essere considerata e definita dai cristiani, per ciò che è, ovvero una tentazione grandissima e pericolosa che viene proposta all’uomo, soprattutto ad un uomo sofferente e fragile, atta ad indurlo, per disperazione, a cedere, anche comprensibilmente, a tale tentazione ed a desiderare ed a darsi la morte.

È compito dei cristiani e della Chiesa semplicemente rendere attento chi soffre, sia sulla natura specifica e perversa di tale tentazione, che sulle conseguenze gravissime, che il cedere a tale tentazione comporta.

Se questo fosse chiaro ad ogni cristiano e la Chiesa presentasse tale tematica in questi semplici termini, ovvero chiamando le cose con il loro nome, ovvero legge sull’eutanasia= tentazione ed eutanasia= peccato, con poche frasi avrebbe esaurito in modo definitivo ed esaustivo l’argomento, senza lasciare spazio a quel, “di più” così pericoloso.

Il fatto che uno Stato stabilisca delle norme su ogni possibile argomento, tra cui il fine vita dei cittadini, non deve sorprendere.

Il fatto che spesso tali norme non siano di per sé sbagliate e riducano disagi, sofferenze, abusi e quant’altro è possibile.

Il fatto che l’uomo ritenga di disporre di alcune libertà personali per quanto riguarda sé stesso ed il suo corpo mi pare comprensibile.

Lo Stato, inoltre, non è chiamato ad analizzare gli aspetti trascendenti, misteriosi ed eterni che le sue leggi hanno sulle anime degli uomini.

A tale compito escatologico, Cristo ha chiamato la Chiesa ed i cristiani.

La Chiesa non è chiamata a dialogare, esprimersi, prendere posizione e negoziare il maggior bene ed il minor male possibile; è chiamata a cambiare il cuore dell’uomo e, come promesso, il resto verrà di conseguenza ed in abbondanza.

Il mandato divino, che è il proclamare la Verità Rivelata affinché il cuore di ogni uomo si converta a Cristo, è sufficiente per rendere possibile una gioia piena, già qui ed ora e che tale gioia consolatoria è sufficiente per compensare e rendere sopportabile qualsiasi sofferenza, sofferenza che, se vissuta per Cristo, con Cristo ed in Cristo, non porterà a richiederne la sua abbreviazione.

La vittoria di Cristo sulla sofferenza e la morte, può essere quindi attualizzata e resa reale per l’uomo solo attraverso la conversione del cuore ed è solo un cuore convertito che può, vincendo le tentazioni, combattere il peccato e le sue conseguenze.

Senza l’offrire la proposta di conversione all’Amore e senza l’impegno personale di ogni cristiano affinché questa sia resa possibile, venga offerta ed avvenga nel fratello che soffre, l’opporsi all’eutanasia è una richiesta troppo onerosa ed oltretutto sembra che la si faccia cadere dall’alto su chi vive una sofferenza tale da desiderare la propria morte. (Mt 23,4).

Nel mondo, da sempre, lo scacciare i mercanti nel tempio ha solo un effetto provvisorio, mentre, invece, la conversione del cuore di un uomo ha sempre un effetto eterno.

Quindi prima di parlare e negoziare la Chiesa ritorni ad essere accanto a chi muore, magari favorendo la creazione di Hospice cristiani.

Il presentare il suicidio assistito come una tentazione da vincere insieme, il malato e chi lo ama, per poi condividere la gioia del non peccare e la dolcezza della Grazia, avrebbe, a mio avviso, effetti straordinari su chi soffre e soprattutto, avrebbe effetti eterni.

Oltretutto, nel caso di una ferma opposizione di principio, la Chiesa non verrebbe ascoltata e poco potrebbe contro tale norma, se non il poter dire d’aver preso posizione, mentre nel secondo, nello stare accanto ai morenti, i cuori si aprirebbero alle parole di Vita Eterna, che solo Cristo, attraverso la Sua Chiesa può e sa dare.

In questo caso una legge sull’eutanasia e la tentazione che ne deriva sarebbe inutile e se promulgata non verrebbe utilizzata.

Offrire la possibilità legale di interrompere il soffrire, cosa del resto già offerta dalle cure palliative che verranno comunque depotenziate da una legge sul fine vita, al contrario di quanto asserito dal Vescovo Savino, senza, allo stesso tempo, offrire all’uomo la possibilità di comprendere come questa possibilità di porvi fine sia la più terribile delle tentazioni, porterà molti a cedere inconsapevolmente a quest’ultima tentazione ed a credere, così facendo, di esercitare una libertà, che tale non è.

Perché l’eutanasia è un peccato gravissimo

La morte delle sorelle Kessler ha reso al mio spirito plasticamente evidente come e dove, risieda il peccato mortale nel ricorrere al suicidio assistito.

Anche in questo caso, la Chiesa, in maggioranza silente, ha contrastato con parole vuote l’apologia romantica di quella che è stata definita una scelta d’amore.

Leggendo i vari resoconti di un atto che non può non far sentire il nostro animo “triste fino alla morte”, mi ha particolarmente colpito il fatto che l’azione in sé è stata “pianificata con precisione teutonica”.

Ed è nel termine “pianificare” che risiede la natura stessa del peccato mortale che l’eutanasia porta con sé.

E questo a due livelli.

Uno più vicino alla legge dell’uomo, ovvero il concetto di intenzione e premeditazione.

L’intenzionalità e la premeditazione, sono aggravanti non solo agli occhi di Dio, ma anche nei tribunali terreni.

Mentre spesso il suicidio è frutto di disperazione momentanea e di un gesto d’impeto e non è reato, mentre lo è l’istigazione al suicidio, né è sempre considerato peccato mortale dalla Chiesa, questo non si può dire dell’eutanasia, che non è suicidio assistito, ma uccisione premeditata e quindi peccato grave in quanto intenzionale e premeditato.

A quanto precede si deve aggiungere l’aggravante, in termini cristiani, dello “scandalo”, che oltretutto oggi è amplificato dai media, che comporta l’esporre i “piccoli” ad un esempio negativo atto a traviare la loro innata purezza.

È ad esempio, un triste dato di fatto, che una persona straordinaria che accompagno da anni, malata di Sclerosi Multipla ed inchiodata al letto senza la possibilità di muovere neppure un dito, che mai e poi mai aveva accennato al ricorrere al suicidio, anche a causa di una straordinaria santità, dopo le recenti uccisioni di malati con la sua stessa patologia ed inoltre in condizioni fisiche oggettivamente migliori, ne stia parlando con una frequenza allarmante.

Il secondo aspetto che qualifica l’eutanasia come peccato grave è strettamente correlato alla legge divina e credo che si possa parlare di “Peccato contro lo Spirito”.

Il problema non è quello di accettare o no il dono divino della vita, perché già riconoscere che si tratta di un dono di Dio e che a tale dono si rinuncia per mille motivi anche umanamente comprensibili, è un’implicita affermazione dell’esistenza stessa di Dio.

Il male risiede, a mio avviso nell’eleggere se stessi ad unico Dio, quindi in netta opposizione al Suo stesso essere e Volontà, e, proprio per l’intenzione e la premeditazione di cui sopra, porre sé stessi come unica persona a cui rendere conto.

Questo atteggiamento mette in gioco un aspetto essenziale della natura stessa di Dio e quindi, porta alla Sua stessa negazione ed ancor più, se Dio esiste, ad un rifiuto espresso e volontario.

Il corollario di quanto precede è la negazione dell’essenzialità della relazione.

A partire dalla stessa Trinità, il Dio cristiano è pura relazione d’amore.

Tutto l’insegnamento di Gesù poggia sul sottolineare come solo attraverso atti di relazione amorosa, eradicando egoismo, superbia ed indipendenza, si può partecipare, come condizione necessaria ed in costante ed eterna comunione, al Suo Regno.

La metafora del banchetto rende splendidamente comprensibile questo concetto di comunione e condivisione.

D’altro canto, l’eutanasia è il livello più alto di ribellione alla relazione, in quanto, in qualche modo spinge chi la pratica a deificare sé stesso in una autonomia solitaria e ribelle.

L’inferno viene spesso definito come assenza eterna di Dio e solitudine assoluta, dove proprio l’assenza d’amore, che per essere tale richiede un amato ed un amante in un costante ed eterno scambio di ruoli, è la natura stessa della pena.

Che il mondo abbia già svuotato la morte, che è evento comunitario e che non riguarda solo il morente, da ogni significato relazionale, è un triste dato di fatto.

Ma da un livello sociologico, con la promozione dell’eutanasia, si passa a tutt’altro piano, ad un livello spirituale e trascendente, che è quello del peccato grave e mortale, che è tale, proprio perché recide in modo definitivo ogni relazione con Dio e gli uomini.

Dare inoltre a tale peccato un’aura di libertà, scelta e dignità individuale è la perfetta rappresentazione del sepolcro imbiancato, il cui mefitico contenuto, viene inutilmente abbellito da una narrativa, di cui molti saranno chiamati a rispondere.

Quindi dal banchetto condiviso, instaurato su relazioni d’amore, banchetto che è comunione di gioia, banchetto che dovrebbe essere promosso ed offerto da ed attraverso la Chiesa, chiamata ad invitare ogni persona da ogni crocicchio, mentre la preserva dalle tentazioni e rende attenta alla pericolosità dei peccati, si è passati all’allestimento dell’ultimo pasto del condannato a morte, che oltretutto a tale morte di autocondanna e che prova, mentendo a se stesso, ad addolcire un dramma estremo ed assoluto attraverso i “piatti deliziosi “ degli empi.







Modello dei redenti e basta? La verità dogmatica è un’altra



Padre Serafino Lanzetta, docente di Teologia dogmatica presso la FacoltàTeologica di Lugano, interviene nel dibattito innescato dalla Mater Populi Fidelis, riallacciandosi alla prima grande disputa mariologica risolta a Efeso. Oggi come allora minimizzare il ruolo di Maria significa fraintendere la verità su Cristo.



Sia la Nota Mater Populi Fidelis del Dicastero per la Dottrina della Fede che gli interventi di Sua Ecc.za. mons. Antonio Staglianò, sull’Osservatore Romano e poi su questo giornale, sono di notevole importanza per approfondire la dottrina mariologica relativa ai titoli soteriologici di Maria Vergine. La cosa più interessante prodottasi è che co-redenzione e mediazione mariane, lasciate fino a poco fa in un ambito angusto della teologia, note per lo più agli addetti ai lavori, ora invece suscitano vasto interesse tra il popolo di Dio. Un dibattito nuovo e molto propizio si fa strada. Non bisogna arrestare la riflessione che emerge. È doveroso, invece, rilanciarne i punti cardine che emergono soprattutto dall’analisi del Presidente della Pontificia Accademia di Teologia.

È chiara un’impostazione più antropologica nella riflessione di Mons. Staglianò. Maria non offre una co-soddisfazione pagando con Cristo il prezzo di un riscatto forense, dando voce alla teologia della sofferenza vicaria d’anselmiana memoria, bensì è Colei che riceve l’amore di Cristo, se ne lascia trasformare e lo trasmette ai credenti. C’è una singolarità di Maria, certo. Ma è nel ricevere, non nel fare. Maria è la Madre di Cristo, la prima dei redenti. Redenta anche in modo singolare, ma senza pretese. È un modello di redenzione. Tutto qui. Eppure, se si parte dal dogma di Efeso (431), non si ci dovrebbe accontentare di un modello mariologico recettivo che, in ultima analisi, ascriverebbe alla Vergine il titolo caro a Nestorio di Christotokos e non quello dogmatico, difeso strenuamente da san Cirillo d’Alessandria, di Theotokos, Dei Genitrix.

Il dibattito sulla partecipazione di Maria alla salvezza, infatti, deve ritrovare il suo aggancio a questa prima grande disputa mariologica, risolta egregiamente con il dogma della divina Maternità: Maria è Madre di Dio e non solo di Cristo, pur avendo dato a Gesù la sola natura umana. La maternità termina alla Persona del Figlio e non alla natura. Essendoci in Gesù una sola persona divina e non due, come invece voleva Nestorio, Maria è madre della Persona del Figlio, generato secondo la natura umana. Maria è quindi Dei genitrix non Christi genitrix. Questo secondo titolo, pur suonando meno ridondante e più antropologico, non esprime la verità dogmatica. Per inciso: è molto più arduo accettare Dei genitrix che Co-redemptrix. Anche E.B. Pusey se ne dovette avvedere redarguito da san John Henry Newman.

Difendere la Theotokos, iscrivendo così Maria nell’ordine ipostatico del Verbo incarnato (ordine di grazia singolare realizzato in virtù della sua maternità divina resa feconda dalla grazia), significò ripudiare alla radice un minimalismo ante litteram, più plausibile a livello razionale, ma non per questo reale. Nestorio non puntava alla res ma all’enunciato. Tuttavia, il problema non era mariologico ma cristologico. Maria Madre di Dio teneva insieme l’unità della Persona del Verbo e la verità della natura umana che Cristo assunse dalla Vergine, evitando di scadere nell’errore grossolano di “due Figli”, come ribadì san Cirillo nella sua seconda lettera a Nestorio accolta anche dal Concilio. Si ha qualcosa di molto analogo se si capisce correttamente la co-redenzione di Maria. La Vergine ci aiuta a tenere insieme la verità divina della redenzione e il vero e necessario contributo umano: in primis della natura umana di Gesù, quindi di Maria, non come mera ricettrice di salvezza, ma quale operatrice fattiva in Gesù e per Gesù, in virtù del suo vincolo materno con il Signore. Così, mentre la Vergine salvaguarda la verità della carne della redenzione, prelude in modo unico e pur sempre analogico alla partecipazione associativa di ogni altro uomo alla salvezza di Cristo mediante il merito. Negare una reale e attiva co-redenzione di Maria comporta, in ultima analisi, un rifiuto della dottrina del merito quale vera associazione dell’uomo a Cristo e cooperazione con Lui alla sua salvezza, reso ciò possibile dalla grazia.

Il problema in questo dibattito è senz’altro ontologico. Bisogna attestarsi sull’aspetto metafisico della partecipazione alla salvezza. Cos’è partecipazione nel nostro caso? La capacità di essere collaboratori di Cristo nell’esecuzione soggettiva del fine salvifico. Invitato dalla sua grazia e reso capace dal suo amore, l’uomo, in Cristo, è capace di cooperare alla sua e altrui salvezza. La res partecipativa è costituita dalla grazia di Colui che invita e rende capaci di un tale atto. Il partecipante, a sua volta, si unisce a tale opera e vi contribuisce con ciò che ha di proprio: la sua libertà e il suo merito. C’è una gerarchia di partecipazione tra le creature, in virtù del merito e della dignità, ma non c’è bisogno di una minimizzazione della dissimilitudine, perché in fondo non c’è una partecipazione graduale o quantistica. Non bisogna trasformare la metafisica in una teoria della quantità per appurare il grado minimo di partecipazione di Maria e della creatura così che non si disturbi l’opera di Cristo.

La partecipazione metafisica è in sé stessa dipendenza causale del partecipante da Colui che lo ammette alla partecipazione. Partecipazione, in altre parole, è già in sé dipendenza e subordinazione. Maria come creatura dipende dal Creatore perché partecipa all’essere. Vi partecipa in modo pieno, come del resto ogni altra creatura vi partecipa secondo la sua capacità di essere. In quanto Madre di Dio e Co-redentrice, Maria partecipa all’opera salvifica del Figlio con tutta la sua capacità di Madre e di nuova Eva. Tale partecipazione unica, singolare e inarrivabile, perché fondata sui due connotati soteriologici unici appena enunciati: Madre di Dio e alma Socia del vero Adamo, non diminuisce la precedenza e l’eccellenza del Figlio, ma l’ostende. Maria non è una minaccia a Cristo: è la Madre che lo glorifica nel modo più eccellente. Dire Co-redentrice, pertanto, equivale a dire co-operazione singolare di Maria all’opera della redenzione, non recettiva ma fattiva, ancorata a monte, in modo metafisico, in una partecipazione reale resa tale dalla sua grazia singolare. Non bisogna appurare la partecipazione “minima” di Maria alla salvezza così che non sia troppo invadente e meno antropologica; non è necessario rendere Maria “dissimile" quanto più possibile, perché la dissimilitudo, maior o minor che si voglia, è nell’essere di Maria non nel fare, nella partecipazione alla grazia, non nella quantità dell’azione svolta.

Questo può chiarire, infine, un altro punto che viene spesso sollevato nel dibattito, quasi a voler tranciare la discussione, ma in modo molto poco sinodale: Maria non potrebbe essere Co-redentrice perché in fondo Lei stessa ha avuto bisogno della redenzione. Come si potrebbe essere redenti e co-redimere allo stesso tempo? Sembra che v’è una «contraddizion che nol consente». Sembra. In realtà, non si tratta di una contraddizione per il fatto che essere redenta per Maria è su un piano precedente e più perfetto (in termini di partecipazione metafisica) dell’essere Co-redentrice. Maria è redenta singulari modo ci dice il dogma dell’Immacolata Concezione. È redenta come solo a Lei s’addice. È stata pre-servata dal peccato originale per uno speciale privilegio della grazia di Cristo. Sì, Maria ha ricevuto un privilegio singolare che nessun’altra creatura ha, quello di essere Immacolata, senza peccato. Di qui la sua capacità ontologica di schiacciare con Cristo la testa al serpente infernale; di qui il suo munus associativo cum Cristo e sub Cristo nella redenzione dell’intera umanità. Se Maria partecipa realmente alla grazia e alla salvezza con il suo essere di Madre Immacolata, allora non può non essere Mediatrice di grazia e di salvezza. Questo esprime il termine teologico di Co-redentrice.






La Pearl Harbor della Chiesa cattolica. Anatomia di una rivoluzione





by Aldo Maria Valli 10 dic 2025


Chris Jackson del sito bigmodernism (autore spesso tradotto da “Duc in altum”) ha annunciato l’imminente uscita del suo libro “Vatican II. The Anatomy of a Revolution” (“Vaticano II. Anatomia di una rivoluzione”).

Propongo qui, in italiano, tre contributi: dopo l’articolo con il quale Jackson fa sapere del suo libro, trovate il Prologo e l’Introduzione all’opera.

Ricordo, sullo stesso tema, il libro da me curato “L’altro Vaticano II. Voci su un Concilio che non vuole finire”. Lo trovate qui.

A.M.V.

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di Chris Jackson

Scrivo questo articolo mentre in molte parti del mondo è ancora l’8 dicembre, sotto il manto dell’Immacolata Concezione della Madonna e all’ombra di un altro evento che ha rivendicato la sua festa. In questo giorno del 1965, esattamente sessant’anni fa, i padri del Concilio Vaticano II uscirono da San Pietro e dichiararono conclusa la loro opera. La Chiesa chiuse ufficialmente un convegno che si era rifiutato di dare alla Madonna un suo documento, appiccicandola invece, come un’appendice, alla fine di una costituzione sulla Chiesa. Nei decenni successivi, quel rifiuto si è trasformato in palese imbarazzo. Ora abbiamo Leone che ci dice che è “inappropriato” chiamare Maria con i titoli che generazioni di cattolici hanno amato: corredentrice mediatrice di tutte le grazie. Tutto questo in una festa che esiste proprio per onorare i privilegi unici della donna che schiacciò il serpente.

Negli Stati Uniti, il calendario aggiunge un ulteriore strato di ironia. Il giorno prima dell’Immacolata Concezione è il 7 dicembre, il giorno di Pearl Harbor, quando l’Impero giapponese lanciò un attacco a sorpresa e mandò a morte migliaia di militari americani. Ogni anno i notiziari mostrano immagini sgranate del porto, delle esplosioni, delle navi in ​​fiamme nel porto. Comprendiamo così, almeno in quel contesto, cosa significhi per un nemico pianificare in segreto, colpire all’improvviso e paralizzare una flotta che si credeva intoccabile.

Il Vaticano II è stato la Pearl Harbor della Chiesa. I modernisti avevano predisposto i loro piani in anticipo. Studiarono le correnti, contarono i vescovi e prepararono le manovre. Molti padri conciliari arrivarono a Roma fidandosi della macchina della tradizione. Pensavano che gli schemi preparatori avrebbero avuto successo, che le fortificazioni teologiche costruite dai papi precedenti avrebbero retto. Invece furono presi in giro da giochi procedurali, aggirati dalle commissioni e logorati da un nuovo vocabolario che suonava misericordioso e moderno, allentando al contempo i legami che univano dottrina, liturgia e disciplina. I bombardamenti furono condotti in latino e in italiano, con sorrisi e note a piè di pagina. Solo in seguito la maggior parte dei cattolici si rese conto di tutto ciò che fu affondato.

Il libro “Vaticano II. Anatomia di una Rivoluzione” sarà il mio tentativo di tornare a quel momento e di descrivere l’attacco in dettaglio. Non è una pia celebrazione da tavolino del “Concilio”. È un esame dei testi e delle idee che animarono gli uomini che li scrissero e li riscrissero. Voglio mostrare come un concilio che si definiva “pastorale” abbia usato quell’etichetta come copertura per un mutamento dottrinale silenzioso ma molto concreto, come certe espressioni e certi “piccoli” cambiamenti nel linguaggio abbiano aperto la porta al caos in cui oggi viviamo nella normale vita parrocchiale.

Sto ancora lavorando al manoscritto completo, ma non ho voluto aspettare per condividerne l’introduzione con voi. Quella che segue è la bozza del Prologo e dell’Introduzione. Sono due testi che danno il tono all’intera opera. Il Prologo delinea il contrasto tra la Chiesa fortezza che esisteva ancora nei primi anni Sessanta e l’istituzione disorientata che emerse pochi anni dopo. L’Introduzione espone il metodo e la struttura del libro e spiega perché considero il Vaticano II una rivoluzione nella grammatica della misericordia e del dialogo.

In questa festa dell’Immacolata Concezione, e nel sessantesimo anniversario del Concilio che cercò di mettere la Madonna in secondo piano, voglio rivendicare questa data con un piccolo gesto. Dopo che i modernisti hanno sferrato un attacco a sorpresa alla Chiesa, il minimo che possiamo fare è studiare il loro piano di battaglia. Solo allora potremo iniziare a ricostruire ciò che è andato in frantumi.

Ecco, quindi, un primo sguardo a “Vaticano II. Anatomia di una rivoluzione”.

*

“Se la tromba dà un suono incerto, chi si preparerà alla battaglia?”
(1 Corinzi 14:8)


Prologo

Quando il Concilio Vaticano II si aprì in una mattina d’autunno del 1962, la Chiesa sembrava ancora una fortezza dimenticata dal tempo. Da mille anni, in continuità, il latino si elevava dagli altari con l’incenso. Lo stesso catechismo che istruiva i contadini in Polonia formava i seminaristi a Roma. I sacerdoti parlavano con la sicurezza di uomini convinti che il Cielo sostenesse ogni loro parola. La tiara papale brillava ancora sotto la cupola di San Pietro, e i cattolici la consideravano ancora una corona, non un capo di vestiario.

Qualche anno dopo, la stessa Chiesa sembrò risvegliarsi davanti a uno specchio deformante. La tiara scomparve in una teca da museo; il linguaggio del sacrificio divenne il linguaggio della comunità; i sacerdoti si voltarono verso il popolo e scoprirono, troppo tardi, che il popolo gli aveva voltato le spalle. La quercia non era caduta, ma il tronco si era spaccato, e attraverso l’apertura soffiava l’aria di una nuova religione che insisteva di essere quella antica.

Il Concilio si definiva pastorale. 

Prometteva di aggiornare senza alterare, di riformare senza ribellarsi. Eppure, un Concilio che si proclama pastorale lasciando intatta la dottrina solleva una domanda che non vuole scomparire. Se nulla è cambiato, perché è cambiato tutto? I documenti del Vaticano II non hanno inventato l’eresia; hanno fatto qualcosa di più sottile. Hanno allentato le definizioni in modo che quasi tutto potesse entrarvi. Ciò che era stato dogma è diventato dialogo; ciò che era stato salvezza è diventato accompagnamento. La Chiesa ha iniziato a spiegare sé stessa al mondo e, nel farlo, ha dimenticato di spiegare il bisogno di conversione del mondo.

Questo libro affonda il bisturi nel paziente. Esamina i testi conciliari come un chirurgo studia il tessuto di un trapianto fallito, sondando dove l’innesto ha attecchito, dove il corpo lo ha rigettato e dove si è sviluppata l’infezione. Non perde tempo in domande sentimentali sul fatto che il Concilio dopo tutto “aveva buone intenzioni”. Le rivoluzioni hanno sempre buone intenzioni, almeno per chi le guida. Mi chiedo invece se la fede tramandata dagli Apostoli possa sopravvivere a una riscrittura secondo la grammatica dell’uomo moderno, amministrata da uomini che sempre di più hanno preferito quella grammatica al linguaggio della tradizione.

Non è un’elegia, ma un’autopsia. Sono pagine scritte per coloro che credono ancora che il cadavere meriti di essere esaminato, anche solo per capire come sia morto, e per coloro che sospettano che da qualche parte, sotto le macerie, il cuore della vera Chiesa batta ancora, in attesa della resurrezione.

Introduzione

Il Concilio Vaticano II si annunciò come un atto di misericordia. Non avrebbe condannato, ma invitato; non avrebbe definito, ma dialogato. I suoi padri entrarono in San Pietro sotto vessilli che promettevano un rinnovamento senza rotture: la Chiesa che finalmente parlava al mondo moderno in una lingua che tutti potevano comprendere. Sessant’anni dopo, persino molti dei suoi difensori ammettono che il risultato è stato sconcertante. Ci era stata promessa una nuova primavera; abbiamo ricevuto un lungo gelo in cui le vecchie forme sono rimaste sulla carta mentre la sostanza si è esaurita. La tromba ha suonato, ma la nota era incerta, e l’esercito si è disperso invece di marciare.

Questo libro parte da una semplice proposizione. Ogni generazione cattolica riceve un acconto, non una cambiale. La dottrina cresce come cresce un essere vivente, dalla stessa radice e nella stessa specie. Può ramificarsi, fiorire e dare frutto, ma non si trasforma in un’altra pianta. Eppure il Vaticano II ha segnato un momento in cui la Chiesa ha iniziato a descrivere sé stessa con categorie tratte dalla mente moderna piuttosto che dalla rivelazione e dalla metafisica. I documenti del Concilio hanno sostituito la grammatica verticale della grazia e del peccato con una grammatica orizzontale dell’esperienza e del dialogo. L’ordine soprannaturale non è stato negato categoricamente. È stato assorbito nel linguaggio della psicologia, della storia e della sociologia, dove poteva essere reinterpretato a proprio piacimento. La fede indossava ancora i vecchi paramenti, ma parlava un dialetto nuovo, che faceva sembrare l’obbedienza una conversazione e la salvezza una realizzazione personale.

Questa trasformazione non si è verificata mediante un singolo decreto o in un singolo anno. Si è dispiegata attraverso una sequenza di testi che sembravano innocui se letti velocemente ma pericolosi se letti attentamente. La piccola espressione “subsistit in”, inserita nella “Lumen gentium”, sembrava una sfumatura di poco conto. In pratica, ha creato una nuova ecclesiologia in cui la Chiesa di Cristo “sussiste” nella Chiesa cattolica, estendendosi anche, in qualche modo, oltre i suoi confini visibili. La dichiarazione sulla libertà religiosa, “Dignitatis humanae”, ha preso in prestito il vocabolario dei diritti naturali per riaffermare un’antica verità sulla coscienza, ma per poi staccarla silenziosamente dall’antico obbligo di cercare, abbracciare e mantenere l’unica vera fede. La costituzione pastorale “Gaudium et spes” ha trattato il mondo moderno non come una Babilonia da convertire, ma come un interlocutore da affermare e comprendere secondo i suoi termini. Ogni testo sembrava solo regolare un cardine. Presi insieme, hanno girato la porta.

I vari capitoli del libro esamineranno questi cardini uno per uno. Lo faranno non raccontando aneddoti o recitando slogan, ma affiancando i testi conciliari al magistero che li ha preceduti. Il metodo è di una semplicità quasi imbarazzante. Si mettono a confronto le parole del Concilio con quelle dei papi e dei concili precedenti e ci si chiede se possano andare d’accordo senza fare violenza alla ragione o alla fede. Quando Leone XIII scrisse che la Chiesa “è una, nella dottrina, nel governo e nella comunione”, parlò il linguaggio dell’identità. Quando la “Lumen gentium” scelse invece di presentare la Chiesa in termini di “gradi di comunione”, adottò il linguaggio dell’approssimazione. La distanza tra questi idiomi non è una questione di stile. È la distanza tra una teologia che pensa per confini netti e una che procede per sfumature.

A questo punto compare la solita difesa. Ci viene detto che il Concilio deve essere interpretato “in continuità” con il passato. Tale affermazione viene qui esaminata con tutta la simpatia che i fatti consentono. Continuità non può significare che una cosa e il suo opposto siano entrambi veri allo stesso tempo. O il Concilio ha espresso la stessa fede attraverso un nuovo registro, oppure ha introdotto una nuova fede nelle vecchie parole. Per decidere quale sia il caso, bisogna leggere i documenti nel loro senso più chiaro, non nelle parafrasi consolatorie che le generazioni successive hanno fornito quando il danno era già visibile.

C’è un’altra pia storia che deve essere abbandonata. È di moda dire che i Padri conciliari erano personalmente sani e si limitarono a scrivere testi ambigui che furono poi abusati da interpreti senza scrupoli. Senza dubbio molti vescovi firmarono per confusione, paura, abitudine o fiducia mal riposta. Ma ci furono anche uomini che desideravano consapevolmente una rottura con la dottrina e la disciplina del passato e che usarono il linguaggio pastorale come un piede di porco per forzare la porta. Il resoconto non è quello di pure intenzioni tragicamente fraintese. È un misto di ingenuità e calcolo, di sincero ma fuorviato ottimismo e deliberata sovversione. La crisi non fu quindi solo metafisica o semantica. Fu, ed è, anche morale.

Il Vaticano II deve essere studiato non come una serie casuale di interpretazioni infelici, ma come un voluto ri-orientamento di linguaggio e di enfasi che molti dei suoi principali attori sapevano avrebbe avuto conseguenze concrete. Per alcuni, quel ri-orientamento era il punto centrale. Volevano libertà dove la Chiesa un tempo parlava di dovere, dialogo dove parlava di conversione e “apertura” dove un tempo insisteva sulla custodia del gregge. Quando le cose eterne vengono tradotte in idiomi moderni, non rimangono intatte. Un mistero reso “rilevante” cessa di essere misterioso. Una Chiesa che implora di essere compresa inizia a suonare come un corpo che chiede al mondo il permesso di esistere.

La struttura del libro segue la logica della rivoluzione che descrive. La prima parte ricostruisce il contesto storico del Concilio: il crepuscolo di Pio XII, l’elezione di Giovanni XXIII, le correnti teologiche preconciliari, l’apparato delle commissioni preparatorie e le manovre politiche che ne affondarono i lavori. La seconda parte analizza le quattro costituzioni, le travi portanti della nuova costruzione: la costituzione dogmatica sulla Chiesa, la costituzione sulla liturgia, la costituzione sulla rivelazione e la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo moderno. La terza parte segue i decreti, quando la teoria inizia a governare la vita di sacerdoti, religiosi, missionari e laici. La quarta parte esamina le dichiarazioni, in cui la rivoluzione parla più apertamente nel vocabolario della libertà religiosa, dell’ecumenismo e delle religioni non cristiane. La quinta parte ripercorre le conseguenze da Paolo VI all’attuale pontificato, interrogandosi su come il vocabolario conciliare sia maturato nella teologia e nella pratica pastorale del nostro tempo.

Le prove saranno tratte principalmente da testi pubblici: i documenti del Concilio, le encicliche e le allocuzioni che li accompagnano, nonché i catechismi e i codici ufficiali che hanno tentato di addomesticarne il linguaggio. Diari, memorie e lettere private appariranno solo quando faranno luce sull’intento nascosto dietro una frase o sulla manovra dietro una sorpresa procedurale. L’obiettivo non è quello di costruire un ritratto psicologico dello “spirito del Concilio”, ma di mostrare, riga per riga, come certe frasi e scelte lessicali abbiano reso possibile e, in molti casi, quasi inevitabile l’attuale crollo.

Il punto di vista è francamente quello dei fedeli disorientati. Seminari vuoti, parrocchie chiuse, liturgie profanate e catechismi che non catechizzano più non sono dati astratti. Sono il risultato vissuto di decisioni prese in aula e ratificate con l’inchiostro. In teologia, le parole sono fatti. Un aggettivo può spostare il peso di una frase. Un avverbio può svuotare un comando. Una nota a piè di pagina può sabotare un paragrafo dogmatico. I cattolici che si inginocchiano in chiese semideserte, o che hanno dovuto cercare rifugio in cappelle marginali e altari improvvisati, vivono nell’eco di quelle decisioni.

Tutto ciò non ci obbliga a supporre che la vera Chiesa sia perita o che Cristo ci abbia abbandonato. Ci obbliga invece ad affrontare la possibilità che ciò che si presenta come la continuazione ufficiale di quella Chiesa sia diventata, per aspetti importanti, una contro-testimonianza del suo stesso passato, una contro-chiesa che sopravvive parassitando il linguaggio e le strutture che ha ereditato. Che si giunga alla conclusione che i recenti pretendenti al soglio pontificio manchino di autorità o che ne abbiano abusato fino al punto di renderla moralmente inutilizzabile, le prove da valutare sono le stesse. Dobbiamo guardare onestamente a ciò che hanno fatto con il Concilio che celebrano come loro statuto.

Per comprendere la rivoluzione, bisogna partire da dove ebbe inizio: dalla decisione di convocare un concilio in un’epoca che non credeva più nei concili né nella verità stessa. Il capitolo successivo si concentra quindi sul preludio, sugli ultimi anni di Pio XII, sull’elezione di Giovanni XXIII e sulla strana fiducia con cui la Chiesa aprì le sue finestre a una tempesta che non poteva controllare. Solo tornando a quel momento possiamo comprendere la portata di ciò che seguì.

Si alza ora il sipario sugli ultimi anni di un mondo che credeva ancora che la Chiesa non potesse cambiare perché Dio non cambiava. Pio XII regnava su una gerarchia che sembrava incrollabile; eppure, sotto la superficie, il terreno si stava già sgretolando. Teologi che un tempo sussurravano le loro teorie nei seminari avevano iniziato a esprimerle ad alta voce. Vescovi che avevano giurato di difendere la tradizione impararono a parlare di adattamento. Quando Giovanni XXIII annunciò la sua intenzione di convocare un concilio, la maggior parte del mondo lo accolse come una curiosità, non come una rivoluzione. La storia raramente annuncia i suoi punti di svolta con clamore. Inizia in silenzio, negli uffici e nei corridoi, con uomini che pensano di stare solo riordinando i mobili della fede.