mercoledì 11 giugno 2025

Perché temono la la Messa in latino.




Questo movimento non può essere fermato perché non è una moda, è un ritorno. Un ritorno a ciò che è perenne, sacro e cattolico. 



10 giugno 2025


Dopo aver assistito alla chiusura di nove Messe Tradizionali in Latino diocesane nella Diocesi di Charlotte, ora ridotte a una sola sotto il Vescovo Michael Martin, dobbiamo fare un passo indietro e porre la domanda più profonda: Perché? Perché sta accadendo questo non solo a Charlotte, ma nelle diocesi di tutto il mondo? Perché le comunità della Messa Tradizionale Latina vengono cacciate dalle loro parrocchie e costrette in palestre scolastiche, edifici industriali e cappelle rurali a miglia di distanza dai centri cittadini? E perché quando è permesso loro di esistere, è sotto la costante minaccia di soppressione, sorveglianza e marginalizzazione?

I fedeli che partecipano alla Messa in Latino non sono estremisti. Non sono radicali. Non stanno fomentando divisioni o rigettando il Vaticano II, come spesso affermano i loro critici. Infatti, molti di loro partecipano a entrambe le forme del Rito Romano e vivono in pace con gli altri parrocchiani. Vogliono semplicemente la libertà di adorare nel modo in cui adoravano i loro antenati cattolici, nel modo in cui adoravano San Tommaso d'Aquino, Santa Giovanna d'Arco, Santa Teresa di Lisieux e Padre Pio.

Vogliono inginocchiarsi davanti al loro Dio, sentire il silenzio sacro ed essere immersi nella bellezza, reverenza e mistero di una liturgia che si è sviluppata organicamente nel corso dei secoli e ha santificato le anime di innumerevoli santi. Eppure, solo per questo desiderio, vengono trattati come cittadini di seconda classe nella loro stessa Chiesa.

Siamo onesti, non si tratta di unità. Si tratta di ideologia. La Messa Tradizionale in latino anche nel silenzio, insegna una teologia che il clero modernista trova profondamente inquietante. Insegna la gerarchia, il sacrificio, la penitenza, la regalità di Cristo e la centralità della Croce. Insegna che la Messa non è un raduno comunitario, non è un palcoscenico per la personalità, ma una ri-presentazione del Calvario. E questo è precisamente il motivo per cui stanno cercando di eliminarla, non per quello che le manca, ma per quello che proclama.

La vecchia Messa non si conforma alla tenera teologia moderna che pone l'uomo al centro del culto, dove il sacerdote diventa un performer, il santuario diventa un palcoscenico e la Messa diventa un'esperienza sociale piuttosto che un'offerta sacra. La Messa Latina si erge come una barriera all'agenda progressista.

E ora il Vescovo Martin di Charlotte non solo sta eliminando la vecchia Messa, ma sta attivamente spogliando il Novus Ordo di qualsiasi elemento che possa ricordare la tradizione. Nelle sue direttive, ha proibito il latino nella liturgia, ordinato che il crocifisso dell'altare sia rimosso per non "ostruire" la vista della congregazione, ha liquidato come non necessarie le preghiere di vestizione del sacerdote e ha effettivamente bandito le balaustre dell'altare e l'inginocchiarsi per la Santa Comunione.

Canto gregoriano? Eliminato. Ad orientem? Proibito. Persino l'architettura dell'altare deve ora conformarsi all'ideologia, indipendente, rivolto al popolo, senza nulla che ricordi ai fedeli il mistero o il sacrificio. Sta sistematicamente rimuovendo ogni vestigio di continuità con il Rito Romano e trasformando la liturgia in qualcosa che piace alle sensibilità moderne ma affama l'anima.

Ma ecco l'ironia: questi vescovi affermano di sostenere il Concilio Vaticano II, eppure ne stanno violando proprio i precetti. La Sacrosanctum Concilium, la Costituzione sulla Sacra Liturgia, stabilisce esplicitamente che "l'uso della lingua latina deve essere conservato" nel Rito Latino, e che "al canto gregoriano si deve dare il primo posto". Come possono allora giustificare questo rifiuto totale di ciò che il Concilio ha effettivamente detto? È chiaro: non si preoccupano dei documenti del Vaticano II, si preoccupano del suo spirito, o meglio, del falso spirito del Vaticano II che è stato strumentalizzato per smantellare la tradizione.

Papa Benedetto XVI aveva previsto tutto questo. Aveva avvertito che l'antica Messa non era mai stata abrogata, che entrambe le forme del Rito Romano potevano e dovevano coesistere, e che la Chiesa doveva riscoprire la ricchezza liturgica che un tempo possedeva. Ma quel messaggio è stato soppresso.

E ora, Papa Leone XIV, che Dio lo fortifichi, ha giustamente sottolineato che la Chiesa Latina deve recuperare un senso del mistero nella sua adorazione. In un recente incontro con i leader cattolici orientali, ha osservato che l'Occidente ha molto da imparare dall'Oriente. Infatti, basta partecipare alla Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo per vedere come appare la vera riverenza liturgica: musica sacra, incenso, veli, iconografia, gerarchia e timore reverenziale. Le Chiese orientali hanno preservato ciò che la Chiesa Latina ha rovinato e i nostri stessi pastori ne sono i responsabili.

Non siamo ingenui. La soppressione della Messa Tradizionale in Latino non riguarda la "cura pastorale", né l'"unità". Si tratta di sostituire la teologia della Croce con la teologia del comfort. Si tratta di silenziare la voce della tradizione perché possa prendere il suo posto una nuova liturgia antropocentrica, che si allinei alle ideologie moderne piuttosto che alla rivelazione divina. Ma i fedeli non sono ciechi. Più sopprimono la tradizione, più le anime affamate diventano desiderose di riverenza, bellezza e verità. Questo movimento non può essere fermato perché non è una moda, è un ritorno. Un ritorno a ciò che è perenne, sacro e cattolico.

Quindi dobbiamo pregare, per il Vescovo Martin, per la Diocesi di Charlotte, e per tutti coloro che soffrono sotto restrizioni ingiuste. Ma più di questo, dobbiamo parlare. Dobbiamo agire. E dobbiamo restare saldi nella fede dei nostri padri, sapendo che Cristo stesso è il centro della Messa, non noi. Lex orandi, lex credendi. Se cambi il modo in cui la gente prega, cambi ciò in cui crede. Ed è esattamente quello che stanno cercando di fare.

La tradizione non è nemica dell'unità. La tradizione è la radice dell'unità. E se la Chiesa si separa da quella radice, non porterà frutto. Possa Papa Leone XIV avere il coraggio non solo di richiamarci al mistero, ma di restituire al Rito Romano la gloria che un tempo possedeva. Perché finché non recupereremo il culto reverente, non recupereremo mai l'anima della Chiesa.





martedì 10 giugno 2025

Dermine: dimenticando il diavolo si nega anche la Redenzione



Se non parliamo più del demonio, allora non si sa da cosa dovremmo essere salvati, osserva l’esorcista domenicano intervistato durante la Giornata della Bussola a Staggia Senese. E invita a non sottovalutare l’azione più ordinaria ma più pericolosa: la tentazione.


L'intervista

Ecclesia 



Il diavolo esiste, lo affermano la Scrittura e la tradizione della Chiesa, nonché l’esperienza di chi lo combatte sul campo, l’esorcista domenicano François Dermine, che ha concluso la Giornata della Bussola Toscana con un seguitissimo intervento sulla demonologia prolungato dalle numerose domande del pubblico, a ulteriore smentita di chi la vorrebbe “superata”. Ci siamo ritagliati un momento di pausa nell’intensa giornata per una breve intervista a padre Dermine, che ha risposto con chiarezza cristallina – e un tocco di garbata ironia: «è la polvere, non è il demonio», commenta scherzosamente quando viene colto da uno starnuto. L’esorcista va dritto al punto: negare l’esistenza del diavolo significa negare anche il mistero della salvezza. E invita a non sottovalutare l’azione più ordinaria ma più pericolosa: la tentazione.

Padre Dermine, molti nostri contemporanei si chiederebbero perché parlare ancora del diavolo nel XXI secolo...
Se non ne parliamo la vita cristiana e il mistero dell'Incarnazione, della Redenzione non hanno nessun senso, perché Gesù si è incarnato «per distruggere le opere del diavolo» (1 Gv 3,8). Questo è il senso dell'Incarnazione. Se non esiste il demonio non si può parlare di mistero di salvezza, perché esso si riferisce alla salvezza da un essere più forte di noi, che si chiama appunto il demonio. Altrimenti Gesù Cristo che è venuto a fare? Non ha più senso. Noi dobbiamo essere salvati dalle opere del demonio. Ma se non esiste, non sappiamo da che cosa dovremmo più essere salvati: mistero di salvezza, da che cosa?
Se non si parla del demonio e degli angeli – quindi buoni e cattivi che siano – trascuriamo la fetta del creato più consistente in assoluto, cioè gli esseri angelici (buoni e cattivi). Mentre gli esseri umani per esistere hanno bisogno di uno spazio e quindi non possono essere creati in modo infinito da Dio, il problema non si pone per gli angeli che sono dei puri spiriti e quindi Dio ne può creare finché vuole. Lo scopo della creazione è creare il maggior numero possibile di persone che potranno diventare beate per l'eternità e Dio a questo ci tiene, per cui crea, crea, ma non può creare degli esseri umani come può creare degli angeli: non c'è posto qui sulla Terra. Se gli esseri umani fossero numerosi quanto lo sono gli angeli, noi saremmo stipati l'uno accanto all'altro.

Lewis che diceva che il diavolo ha due modi per ingannarci, uno è di far credere che non esiste e l'altro è di farci credere troppo e di farne parlare in maniera morbosa. Non vale forse anche per gli angeli buoni, quando vengono fatti oggetto di un approccio deformato, in senso New Age?
Sì, certo il New Age ha stravolto l'angelologia a suo favore e senz’altro questo rappresenta un pericolo, che però è abbastanza recente. Questa “prudenza” che si dovrebbe avere a causa dell'invasione di campo da parte del New Age è recente e non ci deve spingere a trascurare appunto un aspetto importante della cosmologia – perché, ripeto, se vengono a mancare gli angeli manca la fetta principale del creato – e tutt’altro che superfluo dal punto di vista della vita cristiana.

E riguardo agli angeli cattivi, perché si riscontra un interesse malato verso di loro? Per esempio quando si sente parlare di sedute spiritiche o di fatti di cronaca in cui c’entra il satanismo...
Senz'altro perché la figura del demonio attira e soprattutto i perversi hanno bisogno di un loro “santo patrono” – scusi l’espressione – quindi il più rappresentativo è Satana che si è ribellato contro Dio e che pur di fare di testa sua ha rifiutato la beatitudine eterna. Satana è il ribelle per eccellenza e allora fa comodo a chi ricerca figure del genere per dare consistenza alle proprie scelte.

Venendo al suo specifico ministero di esorcista, quali sono i danni peggiori che infligge il demonio?
L'esorcista si occupa dell'azione straordinaria del demonio, che se la prende con l'essere umano in maniera violenta, cosa che non fa abitualmente, poiché di solito agisce in una maniera molto più pericolosa che si chiama tentazione. Non dobbiamo esagerare l’azione straordinaria rischiando di sottovalutare la tentazione: mentre una persona vessata duramente, anche addirittura posseduta può salvarsi – un posseduto può salvarsi –, invece un peccatore che asseconda la tentazione non può salvarsi e allora stiamo attenti a non dare troppa attenzione, troppo peso all'azione straordinaria del demonio, che proprio perché straordinaria rischia di abbagliarci e di farci trascurare l’azione ordinaria.

E quindi ci farebbe illudere che invece su di noi non ha potere... Quali sono i mezzi ordinari per difendersi, appunto, da questa azione ordinaria?
Consistono nel tendere alla santità, nel tendere a Dio e al prossimo. E la confessione.

Un'ultima domanda pensando al nome scelto dal nuovo Pontefice. Fu Leone XIII a volere la preghiera a San Michele dopo una visione di Roma infestata dai diavoli che minacciavano la Chiesa e il mondo. È ancora attuale quella preghiera?
A me è dispiaciuto molto che sia stata soppressa. In passato la si recitava dopo ogni Messa. Ho conosciuto quel periodo lì, era una ottima forma di protezione e di affidamento a Dio.





Il cattolicesimo tradizionale, il nuovo "attraente" per i giovani americani


L'incenso sta di nuovo salendo.


Nella traduzione a cura di Chiesa e postconcilio da The Catholic Herald La generazione Z si inginocchia davanti al mistero, non agli algoritmi. Il cattolicesimo - esigente, bello, insultante - sta crescendo come forza controculturale.

 9 giugno 2025


Non solo nelle cattedrali gotiche o nelle enclave della Messa latina, ma nel cuore dei giovani americani che, contro ogni corrente culturale, stanno risalendo la corrente verso il cattolicesimo. È un fenomeno che sconcerta sia le élite laiche che i protestanti progressisti. Come può, in quest'epoca di decostruzione e nichilismo digitale, la Chiesa della gerarchia, del rituale e della confessione essere considerata – tra tutte le cose – cool?

Eppure lo è. Silenziosamente, con costanza, e poi all'improvviso. La Messa in latino è di tendenza. I catechismi sono tra i preferiti. I giovani citano Tommaso d'Aquino allo stesso modo di Camus. Non è ironico. Non è estetico. Non è un fenomeno di costume. È una rivolta contro la mancanza di radici.
Perché ciò che sembra un risveglio religioso è anche una ribellione culturale.

Ci avevano detto che il futuro sarebbe stato illimitato, totalmente stimolante. Ci avevano detto che saremmo stati più felici con meno regole, meno ruoli, meno tradizioni. Solo vibrazioni.

Ma l'esperimento è fallito. Siamo più soli. Più malati. Spiritualmente affamati. Al posto del significato, abbiamo avuto algoritmi. Al posto della trascendenza, abbiamo avuto la terapia di TikTok. E sotto la sdolcinata foschia della cura di sé, molti giovani sentono la presenza struggente di qualcosa che manca.

Il cattolicesimo offre ciò che il mondo moderno non può offrire: struttura. Disciplina. Mistero. Non sussurra che sei perfetto così come sei. Esige trasformazione. Esige sottomissione a qualcosa di più antico, più saggio e più grande di te.

Essere cattolici significa vivere dentro una storia. Una storia lunga duemila anni, intrisa di sangue, intessuta di fili d'oro, che ha plasmato il mondo. Ha martiri e miracoli. Santi e mascalzoni. Un'architettura che ti fa piangere. Un Dio che si è fatto uomo. Un falegname che ha sofferto per i tuoi peccati. Una madre vergine incoronata in cielo. Prova a racchiuderla in un video Instagram di 15 secondi.

Per i giovani americani cresciuti con i film Marvel e i meme decostruzionisti, l'audacia del cattolicesimo è inebriante. Non si nasconde né attenua le sue affermazioni. Dice: Questo è il Corpo. Questo è il Sangue. Questa è la Verità.

E i giovani, stanchi degli eufemismi e del relativismo morale, dicono: Amen.

La Chiesa, nonostante tutti i suoi difetti, non ha mai promesso di essere perfetta. Ha promesso di essere vera. E per molti convertiti, soprattutto quelli cresciuti in sterili megachiese o famiglie atee, il cattolicesimo offre l'unica cosa che manca in ogni incontro "spirituale ma non religioso": la gravità.

Non entri in una messa cattolica tradizionale e ti senti come se fossi incappato in un seminario di auto-aiuto con inni. Senti il ​​peso di due millenni gravare sulle tue spalle. Non ci sono mood board, né macchine del fumo, né pastori in jeans attillati che offrono trucchetti per la vita. Ci sono solo il sacerdote, l'altare, il sacrificio e il silenzio. Un silenzio che, per molti, è più onesto di qualsiasi sermone.

E poi c'è internet. Ironicamente, la stessa tecnologia che ha aiutato il secolarismo a colonizzare la cultura ora sta aiutando il cattolicesimo a reagire. Le stesse piattaforme che un tempo riducevano la verità a tendenza ora ospitano dibattiti di lunga durata sul Concilio di Nicea e sul dogma mariano. Dibattiti su YouTube, saggi su Substack e account social "TradCath" stanno trasformando l'apologetica di vecchia scuola in contenuti virali. I meme sono taglienti. Le argomentazioni sono inconfutabili. Quella che è iniziata come curiosità – "Cos'è la Messa in latino?" – è diventata convinzione, conversione e catechesi. Non si tratta solo di creatori di contenuti. Sono apostoli con il Wi-Fi, armati non di luci ad anello, ma di Padri della Chiesa e note a piè di pagina. E stanno conquistando anime in 4K.

Il loro messaggio è chiaro: la Chiesa non è anti-intellettuale. Ha inventato la tradizione intellettuale. Ha canonizzato la ragione molto prima che la modernità cercasse di sterilizzarla. E per una generazione cresciuta credendo nella scienza ma anelando alla metafisica, il cattolicesimo sembra l'anello mancante: mente e anima in armonia.

Ma non scambiatelo per un mero esercizio filosofico. C'è qualcosa di più profondo che si sta risvegliando.

In una cultura ossessionata dall'identità, il cattolicesimo offre l'identità attraverso la resa . Non quella curata e performativa, ma quella cruciforme: morire a se stessi per vivere in Cristo. È tutto ciò che l'io moderno rifugge, ed è proprio per questo che è così potente.

In un mondo di smussature e di poltiglia morale, la Chiesa osa ancora dire di no. No all'aborto. No al relativismo. No ai vuoti rituali del progresso. E ogni "no" è legato a un sonoro "sì" – alla vita, alla verità, alla bellezza, alla sacra dignità dell'anima umana.

Non è oppressivo. È liberatorio.

Non è "basato". È beatificante.

Non si tratta di una moda spirituale. È un movimento controculturale, proprio perché si rifiuta di adulare la cultura. Esige qualcosa. Rischia qualcosa. Costa qualcosa. Ed è proprio per questo che funziona.

La Chiesa cattolica non è "cool" nel senso in cui i marketer intendono il termine. È cool perché non le importa di esserlo. In un'epoca ossessionata dal branding, il cattolicesimo offre un senso di appartenenza . In una cultura al collasso, offre una cattedrale. E per molti giovani americani, questo è l'unico futuro che valga la pena costruire. Perché quando tutto il resto crolla, la tradizione non è un peso morto.







È un'impalcatura.

lunedì 9 giugno 2025

Freud, il maestro del sospetto







Roberto Pecchioli 6 Giugno 2025


Decostruire i decostruttori (II) 

Dopo la rottura cartesiana, la scissione tra pensiero e materia ( res cogitans e res extensa), l’edificio della conoscenza sembrava ancorato a un dubbio che diventava nuova fonte di certezza in senso scientifico.

Poi arrivarono i “maestri del sospetto”, Marx, Nietzsche e Freud, ed anche la coscienza fu messa in discussione E’ quanto sostiene il filosofo Paul Ricoeur: i tre hanno compromesso la fiducia nella coscienza, per Marx subordinata all’essere sociale, per Nietzsche battuta dalla volontà di potenza, secondo Freud dominata dall’inconscio.

Sigmund Freud (1856-1939) ebreo viennese, è una delle figure più rilevanti della cultura occidentale del XX secolo. Fu l’inventore della psicanalisi, una teoria generale sull’uomo a cavallo tra neurologia, psicologia, psichiatria e filosofia che ha influenzato in maniera determinante le società occidentali. Le sue teorie hanno avuto un enorme impatto su tutti i settori della cultura , dalla psicologia all’arte alla religione, alla filosofia, sino alle ricerche antropologiche (Malinowski, Kardiner, Margaret Mead) e alla visione generale dell’essere umano.

Medico interessato ai meccanismi della psiche, formato presso i luminari dell’epoca, fu in gioventù appassionato di studi biblici , ma divenne presto ateo, considerando ogni religione e il sentimento che ne deriva una nevrosi di massa (L’avvenire di un’illusione).
Nondimeno, restò profondamente legato alla cultura ebraica d’origine. Fu iniziato alla massoneria, aderendo al B’nai B’rith, la loggia internazionale riservata agli israeliti.

Psicanalisi è il termine che descrive un procedimento d’indagine dei processi mentali inaccessibili alla coscienza e un metodo terapeutico per la cura delle nevrosi. Il contributo più significativo di Freud al pensiero moderno è l’elaborazione del concetto di inconscio.

Gran parte della neurologia del suo tempo era già persuasa dell’esistenza dell’inconscio. Il concetto era rivoluzionario in quanto mostrava che la consapevolezza (o coscienza) è allocata nei vari strati cerebrali e che ci sono pensieri non immediatamente disponibili in quanto situati sotto la superficie. Già nel 1890 il filosofo pragmatista e psicologo funzionale William James esaminò varie definizioni di inconscio e subconscio provenienti da filosofi come Schopenhauer e Hartmann e psicologi e neurologi (Pierre Janet e Alfred Binet). Per non parlare di intuizioni risalenti al pensiero greco classico e a Tommaso d’Aquino. Fu tuttavia Freud a costruire un’interpretazione generale del comportamento e dei fondamenti umani basta sull’inconscio.

La sua è una teoria scientifico-filosofica –largamente indimostrata con i criteri epistemologici della scienza- influenzata dall’interpretazione simbolica dei sogni, secondo la quale i processi psichici inconsci (quindi incontrollabili) esercitano influssi determinanti sul pensiero e sul comportamento. L’inconscio diventa il re dell’homo sapiens, centro della rappresentazione simbolica di processi reali.

In sostanza, viene cancellata l’idea di libero arbitrio, di responsabilità personale, situando al livello più basso della psiche i moventi del nostro agire. Una bomba sulla concezione generale dell’uomo, unita alla svalutazione più assoluta delle istanze dello spirito. Come fece notare Paul Ricoeur, Freud aderiva alla visione scientista e meccanicistica: nella psicanalisi l’uomo è simile a una macchina guidata dagli istinti (in particolare dalla libido sessuale), prigioniero delle pulsioni più basse, dunque non libero, sostanzialmente irresponsabile delle sue azioni. Più dell’animale, in cui gli istinti della specie determinano una sicura condotta volta al soddisfacimento dei bisogni quotidiani e all’imperativo della riproduzione.

La psicanalisi diviene un potente elemento di decostruzione dell’intero apparato della civiltà occidentale con immense ricadute sociali, antropologiche, ontologiche e finanche giuridiche. Il filosofo della scienza Karl Popper annoverava la psicanalisi tra le discipline non scientifiche poiché risulta impossibile sottoporla al giudizio di fallibilità. Un altro austriaco, il positivista Wittgenstein, sostenne che la psicanalisi fosse una mitologia che ha molto potere, criticando soprattutto il procedimento della libera associazione delle idee, oscuro perché Freud non chiarisce mai come possiamo sapere dove fermarci, dove la soluzione sia giusta.

In termini di falsificabilità, ossia la possibilità che un’affermazione smentita con metodo scientifico faccia crollare l'intero edificio, i freudiani ribattono che il pilastro fondamentale della psicoanalisi è il complesso di Edipo. Indubbiamente non si tratta di pensiero magico, ma non può essere generalizzato sino a porlo a fondamento di un’intera teoria dell’uomo, tanto più che Freud lo osservò analizzando un solo soggetto, il piccolo Hans, figlio di un suo allievo che manifestava un morboso interesse per i propri organi genitali.

Il bimbo esprimeva fobia verso i cavalli e ostilità nei confronti del padre. Alla nascita della sorellina notò subito l’assenza del pene. Cominciò a pensare che l’organo sessuale fosse proporzionale all’età e che quello della sorella sarebbe cresciuto in seguito. Freud rilevò un complesso di inferiorità del piccolo Hans nei confronti del padre e la paura che la madre potesse preferirgli il padre perché aveva un organo genitale più grande del suo, lo stesso motivo per cui inconsciamente era terrorizzato dai cavalli.

Questo comportamento dimostrerebbe la lotta del figlio per il possesso della madre e il complesso di castrazione, la paura di essere evirato dal genitore dello stesso sesso. Le femminucce soffrirebbero di invidia del pene nella fase del passaggio dall’attaccamento alla competizione con la madre per l'attenzione e l'affetto del padre.

Diventato adulto, Hans lesse la documentazione del suo caso: non vi si riconobbe affatto, tutto gli parve estraneo e sconosciuto. Facile la replica, affidata al primato dell’inconscio. Quanto all’invidia del pene, è interessante la contro teoria dell’antropologa Ida Magli, che ipotizzò l’ invidia maschile della vagina per il misterioso potere femminile di dare la vita.

Freud sosteneva che la psiche ha tre componenti: l’ Es, l’Io e il Super-Io L’Es domina l’inconscio ed è il processo di identificazione–soddisfazione dei bisogni di tipo primitivo.

Costituisce l’elemento inconscio, libidinale che non conosce né negazione né contraddizione. Il Super-io rappresenta la coscienza e si oppone all’Es con la morale e l’etica, la struttura mentale sulla quale si basano l’ambiente educativo interiorizzato, gli ideali dell’Io, i ruoli e le visioni del mondo, la conoscenza, l’etica, la morale. L’Io si frappone tra Es e Super- io per bilanciare le istanze di soddisfazione dei bisogni istintivi, primitivi, e le spinte contrarie derivanti dalle convinzioni morali ed etiche. Sin troppo agevole ricordare che se milioni di Io hanno determinato il Super Io significa che nell’uomo agiscono istanze psichiche di livello superiore e che la coscienza ha una sostanza morale e comunitaria che produce il “noi”, cioè l’adesione libera alla società e ai suoi principi.

Secondo Freud gli esseri umani sono guidati da due pulsioni ( concetto simile a quello di istinti): la libido, o principio di piacere, la pulsione di vita (lustprinzip o Eros), e la pulsione di morte (todestrieb o Thànatos). La libido comprende la creatività e gli istinti, mentre la pulsione di morte sarebbe un desiderio innato finalizzato alla creazione di una condizione di calma o non-esistenza, una sorta di nirvana. Quando le pulsioni e l’energia libidica rimangono fissate nell’inconscio generano nevrosi e psicosi. Gli esseri umani per la psicanalisi nascono “polimorficamente perversi” e si sviluppano attraverso differenti stadi: la fase orale, il piacere del neonato nell’allattamento, la fase anale, piacere del bambino nel controllo della defecazione, e fase genitale o fallica, in cui il bambino si identifica con il genitore di sesso opposto, mentre il genitore dello stesso sesso è visto come rivale (complesso di Edipo o Elettra).

Se il complesso di Edipo (il personaggio mitologico che sposò inconsapevole la propria madre e si accecò per l’orrore dell’incesto) è l’architrave della costruzione teorica e le pulsioni libidiche e distruttive il fondamento della psiche, ben povera creatura è l’homo sapiens, di cui viene negata non solo ogni tensione spirituale o trascendente (le nevrosi massime) ma anche la tensione verso l’eccellenza, la capacità di sacrificarsi per gli altri, di allargare lo sguardo e ragionare in termini non immediati e non soggettivi. Se esiste il Super Io frutto della società, delle sue regole e, in senso lato, dell’etica, la creatura umana non è mossa esclusivamente dalle pulsioni di cui parla Freud.

La sua scuola psicanalitica iniziò con incontri regolari che riunivano seguaci presto segnati da problemi personali e rivalità sanguinose. La fortuna della psicanalisi si manifestò a partire da un viaggio di Freud negli Usa nel 1909.

Da allora la teoria si propagò a macchia d’olio, tra dissensi, rotture – la più clamorosa con Carl Gustav Jung- scuole e interpretazioni distinte. Il principale campo di interesse di Freud era la nevrosi, l’ affezione legata a una sofferenza del sistema nervoso non provocata da lesioni anatomiche e non collegata a fenomeni psicopatologici. La risposta psicanalitica rimanda in gran parte a conflitti irrisolti di natura sessuale. L’obiettivo della terapia psicoanalitica di Freud era indurre allo stato cosciente i pensieri repressi/rimossi, per rafforzare l’ Io. Per portare i pensieri inconsci al livello della coscienza, il metodo prevede sedute in cui il paziente è invitato a effettuare associazioni libere partendo dai propri sogni.

Attraverso la psicoanalisi, Freud ha proposto un’antropologia in cui il soggetto non viene considerato un essere razionale, ma un'entità caratterizzata da una dotazione prevalentemente istintuale derivante da pulsioni sessuali e distruttive.

Sotto il profilo terapeutico le critiche furono molteplici.

Per lo scrittore Karl Kraus la psicoanalisi è la malattia di cui ritiene di essere la terapia. Freud stesso era consapevole di aver fondato una nuova teoria antropologica (negativa, nel fondo nichilistica) riconoscendo che l'importanza della psicoanalisi come scienza dell'inconscio oltrepassa di gran lunga la sua importanza terapeutica”.

Questo è chiaro con gli studi sul totemismo. Per Freud il totem- la rappresentazione reale o simbolica che lega un soggetto o un grupposociale in una relazione speciale- riflette la codificazione del complesso di Edipo, il ricordo di un ancestrale parricidio di cui ogni uomo serberebbe il senso di colpa.

Nell’antropologia freudiana la specie umana non solo è prigioniera di questo “peccato originale “, ma non è più un soggetto razionale. La rappresentazione del parricidio esprime l’attacco contro ogni paternità, da Dio- il padre eterno- al genitore, padre naturale, sino alla legge e alla morale, in definitiva la vittoria dell’Es e l’uccisione di un altro padre/giudice, il Super Io. In questo modo Io e Es finiscono per coincidere, con gli esiti drammatici che sperimentiamo nella postmodernità: assenza di norma, ripudio del limite, tirannia del desiderio. L'uomo psicanalitico decade a lupo parricida schiavo delle pulsioni di piacere e distruzione, i suoi valori sono ridotti a convenzioni da smontare.

Sigmund Freud, probabilmente oltre le sue stesse intenzioni, è il primo vero decostruttore della civiltà e dell’antropologia occidentale.






COME DIO SI MANIFESTA A NOI





Commento al libro del Levitico


Don Dolindo Ruotolo

Dio ordinò ad Aronne e al popolo di offrire un triplice sacrifizio, dicendo esplicitamente che voleva loro manifestarsi. Quei sacrifizi erano dunque una preparazione prossima alla divina manifestazione. È una grande lezione che il Signore fa a tutti.

Noi siamo tanto desiderosi di vedere Dio, di ammirarne la magnificenza e la gloria. Non vi è anima che non abbia avuto almeno una volta il desiderio di vedere Gesù Cristo o di controllare qualche fatto soprannaturale. Noi ci accoriamo assai constatando il silenzio di Dio nel mondo. Ci sembra ch' Egli sia quasi assente, notiamo che non accadono più ai nostri tempi tanti fatti soprannaturali come in passato, e ne proviamo un profondo dolore. Alcuni ne subiscono addirittura una scossa nella fede, e con facilità prestano l'orecchio agli stolti che riguardano come fiabe e come leggende tutti i fatti soprannaturali che si raccontano.

Noi non pensiamo che la manifestazione di Dio è una grande grazia, e che richiede una grande preparazione interiore, simboleggiata appunto dai sacrifizi offerti da Aronne, in nome suo e in nome del popolo. È necessario prima di tutto fare il sacrifizio espiatorio, purificando la coscienza da ogni colpa e facendone penitenza.

Dio, quando si rivela ai Santi, comincia precisamente con l'introdurli nella via purgativa, immolandoli in molti modi. Come la vittima veniva uccisa, così Dio uccide nell'anima la vecchia creatura, e come la vittima veniva recisa nelle sue parti, così Dio recide dall'anima tutto quello che le impedisce di comunicare con Lui. Egli distacca l'anima da tutto e richiede da lei l'olocausto della sua volontà, delle sue passioni, del suo io.

L'anima può essere aiutata nelle vie del bene da tutte le persone che la circondano, ma il suo interno è purificato solo dal Sacerdote, ed i suoi passi, figurati nelle zampe della vittima, sono diretti a Dio, solo dal suo Ministro. È Gesù Cristo stesso che per il ministero sacerdotale e con una speciale provvidenza di grazia, purifica l'anima e la guida nelle vie soprannaturali. Senza questa purificazione interiore, che dai mistici è chiamata via purgativa, è impossibile entrare in intima familiarità con Dio.

L'Eucaristia, la comunione intima con Gesù Cristo nell'unzione soave dell'umiltà e della preghiera, è quella che dà efficacia e valore alle rinunzie, alle pene, alle offerte, alle preghiere nostre, e che ci rende capaci di comunicare intimamente con Dio. Non è uno scherzo una comunicazione soprannaturale con Dio. Bisogna leggere le profonde opere di San Giovanni della Croce per avere un'idea della vita veramente soprannaturale e dell'intensa preparazione che richiede.

Noi presumiamo di vedere la gloria di Dio per una curiosità, o peggio per volere orgogliosamente controllare il Signore. In queste condizioni interiori, macchiati di colpa come siamo, avvelenati ed asfissiati dalla miscredenza, immersi nella nostra carne, nella nostra volontà, nella nostra superbia, Dio non si mostra, ma tace e si nasconde sempre più.





Fonte web

domenica 8 giugno 2025

Santa Messa di Pentecoste. Mons. Schneider a Chartres






domenica 8 giugno 2025

Oggi, 20.000 pellegrini hanno condiviso il fervore della Messa pontificale della Pentecoste, celebrata all'aperto da Mons. Schneider e trasmessa su CNEWS.

Momenti di adorazione e di riconciliazione.Attraverso la liturgia tradizionale, si vuol far risplendere la regalità di Cristo.

Affinché Egli regni!













I doni dello Spirito Santo e la nuova Pentecoste





Riproponiamo dalla pagina fb del prof. Massimo Viglione. 
Un capolavoro assoluto della spiritualità cristiana è l’opera I doni dello Spirito Santo di dom Prosper Guéranger. Leggendolo, non è possibile non trarre – oltre agli irrinunciabili insegnamenti spirituali e pratici in esso contenuti – amarissime considerazioni sul presente.


Quali sono i doni dello Spirito Santo?

Il Timor di Dio, che oggi è sparito in nome di un dio perdonista e stucchevole, un juke box dove mettere la monetina per far partire il disco delle nostre – il più delle volte – ridicole richieste. Il timore è il dono che ci illumina della nostra finitezza e inconsistenza, ma questo va cancellato in nome dei diritti dell’uomo e di un umanismo incontenibilmente sovversivo; è il dono che ci illumina la via per evitare il castigo di Dio, ma questo va cancellato perché l’inferno è stato chiuso da non si sa chi, e Dio è diventato il dio dei nostri piaceri.

Il dono della Pietà, che è la compunzione dei propri peccati, oggi cancellato perché si è cancellato il peccato e il concetto stesso di compunzione e penitenza. Ma è anche l’amore per Dio e il prossimo, che oggi è stato sostituito dal mio diritto di essere ciò che voglio.

Il dono della Scienza, che ci rivela il fine di Dio nella creazione e l’uso che dobbiamo fare delle creature, oggi cancellato perché il fine di ogni cosa è l’egoismo dell’uomo, nuovo dio di un “ecosistema” senza Creatore.

Il dono della Fortezza, che concede la forza per resistere alle tentazioni del peccato e il coraggio per opporsi al male, oggi cancellato in quanto è venuta meno la nozione stessa di peccato e perché ciò che è male è divenuto bene. E per un’umanità sempre più debosciata e corrotta.

Il dono del Consiglio, che deve guidare le nostre scelte razionali e controllare quelle emotive e la passioni, oggi cancellato per lasciar posto alla “libera espressione” della natura umana senza “condizionamenti” religiosi e storici, ciò che ha creato l’uomo-bestia tutto istinto e ribellione di oggi.

Il dono dell’Intelligenza, finalizzato all’unione intellettiva con il proprio Creatore, oggi cancellato dall’infinito ammasso di beni materiali e l’indecente trionfo della stupidità generale sotto il termine di “moda” e del “politicamente corretto”, che generano burattini incapaci di autonomo reale giudizio.

Il dono della Sapienza, morto anch’esso, perché morti sono i frutti dei sei doni precedenti, senza i quali è impossibile ogni sapienza, sia spirituale che terrena.

Quando è successo tutto questo? Nella società il processo è iniziato da secoli, nella Chiesa è più recente, da quando è iniziata la “nuova Pentecoste”, di cui oggi possiamo tutti ammirare i meravigliosi frutti.

Preghiamo lo Spirito Santo che ponga fine quanto prima a questa devastante “nuova Pentecoste” conciliare, tutta umana e antropocentrica, relativista e chiacchierona, ballerina e “caciarona” e ci restituisca una Chiesa legata esclusivamente alla Pentecoste, a quella vera, a quello Spirito Santo che l’ha creata e guidata nella storia e nella formazione della civiltà cristiana nel mondo e contro il quale ogni peccato commesso non sarà perdonato.

E preghiamo lo Spirito Santo Dio di illuminare ognuno di noi nelle scelte che dovremo compiere, a livello personale e sul piano sociale, nei giorni che ci attendono. 

(MV)

Veni Sancte Spiritus…



Fonte web


sabato 7 giugno 2025

L'arte della meditazione cristiana: NON è una questione di "Zen"



Nella traduzione a cura di Chiesa e postconcilio da Substack un approfondimento di Come toccare l'eternità attraverso il tempo liturgico (qui).  (6 giugno 2025)


Alcuni consigli pratici da sant'Agostino, Francesco di Sales e Alfonso


Robert Lazu Kmita

NOTA: Negli ultimi mesi ho già pubblicato diversi saggi sull'arte della meditazione cristiana. Il primo, intitolato "Come toccare l'eternità attraverso il tempo liturgico", è una breve introduzione in cui spiego la necessità della meditazione:

Come toccare l'eternità attraverso il tempo liturgico
[...]

Oggi vi propongo un altro articolo in cui cerco di mettere in luce i profondi legami tra meditazione cristiana, catechesi mistagogica (cioè l'insegnamento sui significati dei simboli sacri usati nei Sacramenti) e partecipazione alla Santa Liturgia.

Il primato della vita interiore e il divino Maestro interiore

Nel 1907, il monaco trappista francese Jean-Baptiste Chautard (1858-1935) pubblicò l'opera intitolata L'Apostolat des Catechismes et de la Vie Intérieure ("L'Apostolato del Catechismo e della Vita Interiore"). Mentre le celebri Institutions liturgiques del monaco benedettino francese Prosper Louis Pascal Guéranger (1805-1875) rappresentavano il caposaldo della teologia liturgica, provvidenzialmente eretto per preservare i tesori dei sacri rituali e sacramenti, l'opera di padre Chautard, comunemente nota come L'Anima dell'Apostolato, fu forse l'ultimo grande manuale di teologia spirituale veramente fedele alla dottrina classica della Chiesa.

In sostanza, l'opera si costruisce attorno al postulato dell'assoluta necessità della vita interiore fondata sulla presenza mistica del Signore Gesù Cristo nelle anime di coloro che si dedicano a qualsiasi forma di apostolato. In altre parole, la vita soprannaturale della grazia divina, che è vitale per l'anima quanto l'esistenza dell'anima stessa lo è per l'intera persona, rappresenta sia il cuore sia l'intero "sistema circolatorio" destinato a fornire forza vitale ai cristiani. Questo insegnamento trova fondamento nella Rivelazione trasmessaci da San Giovanni Apostolo, il quale ci insegna nel suo Vangelo – come sottolinea Dom Chautard – che "Dio Padre non fa nulla se non per mezzo del Figlio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste" ( Gv 1,3). L'immagine simbolica proposta è quella del ceppo di vite, Gesù Cristo, in cui tutti i tralci – cioè i cristiani battezzati – devono essere saldamente radicati per partecipare alla vita soprannaturale della grazia, al fine di trasmetterla agli altri. Il piccolo trattato L'anima dell'apostolato descrive dettagliatamente i modi in cui la grazia divina può essere moltiplicata nelle anime dei cristiani, essendo questa l'unica fonte di quella vita soprannaturale.

Qui, possiamo ricordare l'ammonimento di san Bonaventura, secondo cui chi si affida principalmente al proprio intelletto, alla propria "luce naturale della ragione" nello sviluppo di una filosofia, può perdere di vista il fatto che la comprensione dei sacri misteri della Chiesa non può essere fondata unicamente sulla nostra ragione, che dopo tutto è profondamente segnata dalle conseguenze del peccato originale. Se includiamo nella discussione la definizione di fede proposta da san Tommaso d'Aquino, il quale ci insegna che la fede "è un atto dell'intelletto che aderisce alla verità divina al comando della volontà mossa dalla grazia di Dio" (Summa Theologiae, II-II, q. 2, 9), ci rendiamo conto che, in realtà, non ci affidiamo decisamente al nostro intelletto ma all'Intelletto divino. La mente del vero cristiano è subordinata alla mente di Dio. Questa subordinazione sola può concederci la grazia di comprendere il mondo soprannaturale, così come una comprensione del mondo naturale diversa da quella delle scienze moderne.

Crescere in santità e conoscenza significa diventare maturi e pienamente umani, “ad immagine e somiglianza di Dio” ( Genesi 1:26-27). L'apostolo Paolo si riferisce a questo processo di maturazione quando ammonisce i cristiani di Corinto che non sono progrediti nella loro comprensione delle questioni divine. Tale comprensione richiede pazienti sforzi pedagogici per essere trasformati da “bambini” in “uomini” perfetti, capaci di essere nutriti con il “cibo sostanzioso” della Sacra Scrittura. Tale crescita spirituale richiede una pedagogia diversa da qualsiasi cosa possiamo concepire senza la guida dello Spirito Santo. Perché Egli è – come dimostrano i santi Agostino e Tommaso d'Aquino nelle loro opere intitolate De Magistro – il “maestro interiore” che ci guida secondo la promessa del Salvatore, il quale dice che “il Paraclito, lo Spirito Santo… vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Giovanni 14, 26). Come si concretizzi concretamente questo programma pedagogico della comunità cristiana, lo sappiamo dall'opera di san Dionigi l'Areopagita Sulla gerarchia ecclesiastica.

Le tappe della catechesi tradizionale

Innanzitutto, prima di ricevere il Santo Battesimo (che a quel tempo, nella maggior parte dei casi, veniva conferito soprattutto agli adulti), coloro che mostravano una seria intenzione di diventare cristiani venivano incoraggiati a condurre una vita virtuosa osservando i Dieci Comandamenti. Contemporaneamente, iniziava la catechesi fondamentale, in cui a questi "catecumeni" veniva insegnato il Credo e venivano fornite spiegazioni semplici e chiare sui fondamenti della fede cristiana. In questo periodo, la catechesi poteva durare fino a tre o addirittura quattro anni. Solo dopo essere stati "illuminati" attraverso il sacramento del Battesimo, i cristiani ricevevano quel tipo di formazione che oggi è quasi completamente scomparsa dalla pratica religiosa: la catechesi mistagogica. Siamo qui giunti al primo punto decisivo di ogni possibile progetto di recupero della vita mistica cristiana normativa.

La catechesi mistagogica prevede l'iniziazione al linguaggio simbolico dei testi biblici, poi a quello dei sacramenti e dei rituali della Chiesa, nonché a quelli dello stesso cosmo creato. Questo tipo di iniziazione si concentra principalmente sui simboli dei sacramenti del Battesimo, della Cresima e della Santa Comunione. Naturalmente, anche gli altri sacramenti possono essere spiegati allo stesso modo.

Essenzialmente, ci sono due assi di formazione mistagogica per coloro che sono già battezzati. Il primo è l'asse allegorico, in cui viene spiegato il significato di alcuni episodi dell'Antico Testamento che trovano compimento nel Nuovo Testamento e si ritrovano nei Sacramenti cristiani. Ad esempio, il passaggio del popolo ebraico guidato da Mosè attraverso la miracolosa divisione del Mar Rosso simboleggia allegoricamente il battesimo di coloro che sono salvati, inseguiti dagli eserciti delle tenebre che alla fine troveranno la loro fine nelle acque scatenate. Allo stesso modo, coloro che sono salvati dal diluvio sull'Arca di Noè simboleggiano allegoricamente tutti i cristiani che sono salvati attraverso la Chiesa dal diluvio che travolge un mondo immerso nel peccato. Il secondo asse di formazione mistagogica riguarda l'interpretazione mistica e la raffigurazione degli effetti dei santi Sacramenti.

Ad esempio, l’acqua benedetta del battesimo simboleggia l’acqua all’inizio della creazione sulla quale si librava lo Spirito Santo (Gen 1,2). Questa interpretazione, attentamente meditata, rivela che tutti i battezzati, in modo misterioso ma non meno vero, vengono ricreati (cioè rinati) in una condizione morale e perfino ontologica che, dal punto di vista della purezza, è simile alla “giustizia/rettitudine originale” in cui si trovavano Adamo ed Eva prima di commettere il peccato originale. Ciò è chiaramente insegnato dal Concilio di Trento nella Quinta Sessione quando afferma che «in coloro che sono rinati, Dio non odia nulla, perché 'non c'è condanna per coloro che sono veramente sepolti insieme a Cristo per mezzo del battesimo nella morte' (Romani 8:1), i quali non 'camminano secondo la carne' ( Romani 8:1), ma spogliandosi 'dell'uomo vecchio' e rivestendo il 'nuovo, creato secondo Dio' (Efesini 4:22 ss.; Colossesi 3:9 ss.), sono resi figli innocenti, immacolati, puri, senza colpa e amati da Dio, 'eredi sì di Dio, ma coeredi di Cristo' (Romani 8:17), cosicché non c'è assolutamente nulla che possa ritardare il loro ingresso nel cielo» (Denzinger 792).

Dalla prospettiva dell'abbondanza delle grazie offerteci da nostro Signore, Gesù Cristo, e della nostra adozione a "coeredi di Cristo", possiamo concludere che la condizione dei cristiani può essere concepita come superiore a quella dei progenitori. E questo nonostante la presenza in noi delle cosiddette "pene" – cioè mali come la concupiscenza, la sofferenza, la malattia e la morte, che non sono altro che "prove" attraverso cui Dio mette alla prova la nostra fedeltà.

Potenzialmente “guarito” da tutte le conseguenze del peccato originale, il battezzato si rende presente nel Regno di Dio, capace di nutrirsi – attraverso i mezzi offerti dalla Chiesa – dei “frutti” del Paradiso che moltiplicano le grazie soprannaturali nel suo essere spirituale. In questo senso, il modello supremo per tutti i cristiani è la Beata Vergine Maria, “piena di grazia” (Lc 1,28).

L'arte dimenticata della meditazione

Qui giungiamo alla parte più importante di ciò che voglio trasmettere: come la meditazione cristiana sia stata messa da parte, ignorata e trascurata a causa dell'eccessiva razionalizzazione della teologia cattolica. Avete mai sentito parlare di meditazione cristiana? Se sì, siete tra i pochissimi. La maggior parte dei cristiani non ne ha mai sentito parlare. La pratica della meditazione è stata eliminata persino dai seminari e dagli istituti teologici. Questa scomparsa della pratica è avvenuta parallelamente alla distruzione della Santa Liturgia (con la sostituzione della Messa del Rito Romano con una versione contraffatta creata da "esperti"), nonché all'esclusione di parti significative di altri rituali sacramentali (ad esempio, la quasi totale eliminazione degli esorcismi dal rito del battesimo). In nome di una presunta chiarezza, unita a un presunto ritorno alle forme “primitive” di preghiere e sacramenti, non solo è stato minato il carattere mistico dei rituali della Chiesa, ma abbiamo perso di vista la teologia sviluppata da autori santi come Dionigi l'Areopagita, Gregorio Magno, Bonaventura e Giovanni della Croce.

Per oltre dieci anni ho tenuto catechesi mistagogica nelle parrocchie e corsi di esegesi biblica sacra. Ho chiesto a decine di cattolici se avessero mai sentito parlare di meditazione. La maggior parte ha risposto parlando di varie forme di cosiddetta meditazione orientale: Zen, Zazen, Tai Chi o altre pratiche simili. La nozione di "meditazione" era, per loro, sinonimo di tali pratiche. Quasi nessuno ha associato il concetto di meditazione alla vita cristiana. Questo fatto indica una delle carenze più gravi nella formazione dei cattolici moderni. Non solo non conoscono il linguaggio simbolico dei testi sacri, dei riti e dei sacramenti, ma sanno molto poco della pratica concreta della preghiera mentale o lectio divina. Ciò è ancora più deludente se si considera che santi di epoche passate, da Dionigi l'Areopagita, Giovanni Crisostomo e Agostino, a Luigi de Granada, Pietro d'Alcantara, Ignazio di Loyola e Alfonso Maria de' Liguori, hanno sottolineato il primato della meditazione nella vita del cristiano. Anche Dom Chautard fa lo stesso nel libro che ho citato all'inizio di questo articolo.

La pratica della meditazione, che è una forma di preghiera associata alla percezione/comprensione dei testi sacri sotto la guida dello Spirito Santo, è il mezzo più importante attraverso il quale i battezzati, per grazia, si uniscono più profondamente al loro Creatore. È da qui che inizia la vera teologia. Per questo Sant'Alfonso insisteva affinché tutti i suoi sacerdoti praticassero la meditazione quotidiana. Questo imperativo, tuttavia, è un imperativo da cui i laici non sono esenti.

Modi concreti per praticare la mediazione


La pratica della meditazione cristiana, che incontriamo, ad esempio, leggendo le Confessioni di Sant'Agostino, inizia con una catechesi mistagogica, che invita tutti gli "iniziati" alla meditazione sui simboli sacri. Inoltre, la Santa Liturgia è l'ambiente più appropriato per la pratica della meditazione. È quanto insegna San Francesco di Sales, nella sua Introduzione alla vita devota – un libro scritto specificamente per la formazione spirituale dei laici – su come meditare durante la Santa Liturgia:

All'inizio, e prima che il sacerdote salga all'altare, preparatevi con lui, ponendovi alla presenza di Dio, confessando la vostra indegnità e chiedendo perdono. Fino al Vangelo, soffermatevi semplicemente e in modo generale sulla Venuta e la Vita di nostro Signore in questo mondo. Dal Vangelo fino alla fine del Credo, soffermatevi sull'insegnamento del nostro caro Signore e rinnovate il vostro proposito di vivere e morire nella fede della Santa Chiesa Cattolica. Da lì, fissate il cuore sui misteri della Parola e unitevi alla Morte e alla Passione del nostro Redentore, ora realmente ed essenzialmente rappresentate in questo santo Sacrificio, che, insieme al sacerdote e all'intera assemblea, offrite a Dio Padre, per la Sua Gloria e per la vostra salvezza. Fino al momento della Comunione, offrite tutti i desideri e le aspirazioni del vostro cuore, desiderando soprattutto con fervore di essere uniti per sempre al nostro Salvatore dal Suo Amore Eterno. Dal momento della Comunione fino alla fine, ringraziate la Sua Graziosa Maestà per la Sua Incarnazione, la Sua Vita, Morte, Passione e l'Amore che Egli dimostra in questo santo Sacrificio, implorando attraverso di esso il Suo favore per te stesso, per i tuoi parenti e amici e per tutta la Chiesa; e umiliandovi sinceramente, ricevete devotamente la benedizione che il nostro caro Signore vi dà tramite il canale del Suo ministro.

Questa è la pratica della meditazione cristiana applicata alla Santa Liturgia. Tuttavia, la forma di meditazione più potente nella vita dei santi di tutte le epoche è quella basata sulla lettura delle Sacre Scritture. Tra tutti i grandi maestri, mi rivolgo a colui che ha trasmesso i più severi moniti sulle conseguenze di una teologia razionale-speculativa(1) che dimentica il potere illuminante della grazia divina: San Bonaventura.

Nelle Collationes in Hexaemeron, il Dottore Serafico spiega alcuni degli aspetti più importanti della meditazione cristiana. Ma soprattutto, il punto che non sottolineerò mai abbastanza è che egli chiarisce con sorprendente forza il quadro in cui è possibile questa formazione della mente di ogni cristiano: nello specifico, il Paradiso.

San Bonaventura insiste sul fatto che, attraverso il Battesimo, siamo stati posti nel Paradiso da cui Adamo ed Eva furono cacciati dopo il Peccato Originale. I testi biblici su cui possiamo meditare sono gli alberi da cui Adamo ed Eva furono invitati a mangiare nell'Eden. Spiritualmente parlando, dopo il Battesimo, le nostre anime si trovano in uno stato paragonabile, grazie al potere della grazia santificante, a quello dei progenitori prima della Caduta. Inoltre, nonostante la persistenza dell'inclinazione al male (la cosiddetta "concupiscenza") anche nei battezzati, a cui devono resistere fino all'ultimo respiro, i cristiani sono "figli adottivi" in Dio Figlio stesso – una condizione certamente superiore a quella in cui si trovavano Adamo ed Eva prima del primo peccato.

Questo perché le nostre anime sono già trasformate dal potere della grazia battesimale, che ci permette di riacquistare l'innocenza e le grazie dello stato originale, e anche di più. Alla fine, anche i corpi dei cristiani saranno trasformati in "corpi celesti" ( 1 Corinzi 15:40). Tuttavia, ciò accadrà solo dopo la seconda venuta di Cristo e il giudizio finale (i corpi incorruttibili di alcuni santi sono – molto probabilmente – segni di questa realtà futura).

Inoltre, a partire da Agostino e fino a Tommaso d'Aquino, è stata sviluppata un'interessante interpretazione che ci dice con precisione quando furono riaperte le porte del Paradiso: quando fu trafitto il costato di Cristo Salvatore, da cui sgorgarono sangue e acqua. Questi sono simboli dei Sacramenti vitali della Chiesa – il Santo Battesimo e la Santa Eucaristia – che possiamo raccogliere dall'Albero della vita, che non è altro che la Croce su cui fu crocifisso nostro Signore. Quindi, in termini concreti, attraverso il Battesimo, siamo reintrodotti in Paradiso, mentre attraverso la degna ricezione della Santa Eucaristia, ci nutriamo dell'albero della vita. Ma c'è anche la terribile possibilità, come ci dice San Paolo, di mangiare il "giudizio" – quando un cristiano riceve la comunione indegnamente, cioè in modo sacrilego: "Chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna, perché non discerne il corpo del Signore" ( 1 Corinzi 11:29). Ma come è possibile una cosa così terribile?

Molti santi e dottori affermano che chi non medita sui significati profondi dei Santi Misteri – in particolare della Santa Eucaristia – può facilmente cadere in tentazione. Infatti, se meditassero, le grazie che riceverebbero impedirebbero il peccato che alla fine porterà alla comunione sacrilega. Se il corpo partecipa al culto attraverso i gesti sacri corrispondenti ai vari momenti della sacra liturgia, la nostra mente deve "sacrificare" tutti i pensieri – attraverso la meditazione – a Dio.

Uno dei maestri che ci ha rivelato tali insegnamenti è l'incomparabile santo dell'Impero Romano d'Oriente, Massimo il Confessore (580-662). Nella Mistagogia, un piccolo trattato liturgico, san Massimo afferma che la conoscenza mistica, sovrarazionale, si acquisisce quando il fedele cristiano attraverso l'altare della mente... evoca il silenzio che abbonda di canto nei recessi più intimi dell'invisibile e sconosciuta espressione della divinità con un altro silenzio, ricco di parole e toni. E per quanto l'uomo è capace, dimora familiarmente nella teologia mistica e diviene tale come si addice a chi è reso degno della sua dimora interiore, ed è segnato dal suo abbagliante splendore.

Questa è la via mistica che ci aiuterà a uscire dall'arida landa desolata di quel tipo di "razionalità" in contrasto con la profonda spiritualità. Tutto inizia e finisce con la scuola della preghiera. Verso la fine della sua vita, il grande Dottore italiano, Sant'Alfonso de' Liguori, si rimproverò di aver fatto troppo poco per risvegliare l'amore per la preghiera nelle anime dei fedeli. In effetti, nulla è più importante della preghiera. Dobbiamo iniziare una vita di preghiera e, una volta iniziata, dobbiamo perseverare con ogni diligenza, seguendo il consiglio dei Padri del Deserto: Prega come puoi, finché non pregherai come dovresti. Come osservava Sant'Alfonso, nessun cristiano battezzato sarà salvato se non prega. Solo da questo punto può iniziare la discussione sul superamento dell'attuale crisi della Chiesa.

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1 I pericoli della teologia razionale-speculativa e l'ammonimento di san Bonaventura Robert Lazu Kmita Chiesa.
19 novembre 2024 Chiesa.

I pericoli della teologia razionale-speculativa e l'ammonimento di san Bonaventura Se interrogassimo San Bonaventura (1221-1274) sulla radice dell'attuale crisi della Chiesa, potremmo rimanere sorpresi dalla sua risposta. Il Dottore Serafico, profondamente impegnato nelle questioni relative alla fine della storia, condanna la dimensione apocalittica di una concezione strettamente razionale…





venerdì 6 giugno 2025

Paura di diventare poveri: Zuppi attacca il governo sull'8xmille



Il presidente della CEI denuncia il governo per una modifica unilaterale della legge sull'8xmille, ma sbaglia obiettivo e argomento. In realtà c'è il timore che possa cambiare il meccanismo di ripartizione così che i fondi si dimezzerebbero. Senza contare il crollo delle firme nella dichiarazione dei redditi a favore della Chiesa: dal 2013 al 2021 un calo del 20%.



CHIESA ITALIANA
Ecclesia 


Riccardo Cascioli, 05-06-2025

Cosa avrà spinto il presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), il cardinale Matteo Maria Zuppi ad attaccare frontalmente il governo sull’8x1000, sbagliando clamorosamente il bersaglio? Già, perché è difficile immaginare che il cardinale Zuppi non conosca la legislazione in materia e soprattutto quanto accaduto in questi anni a proposito del meccanismo istituito nel 1985 per fare in modo che fossero direttamente i cittadini a finanziare la Chiesa cattolica attraverso una quota fissa (l’8xmille appunto) delle proprie tasse.

Parlando in apertura del Convegno nazionale promosso dall’Istituto centrale per il Sostentamento del clero per ricordare i 40 anni della legge 222 che istituiva l’8xmille, Zuppi ha detto: «Esprimo delusione per la scelta del Governo di modificare in modo unilaterale le finalità e le modalità di attribuzione dell’8×1000 di pertinenza dello Stato. È una scelta che va contro la realtà pattizia dell’accordo stesso, che ne sfalsa oggettivamente la logica e il funzionamento, creando una disparità che danneggia sia la Chiesa cattolica che le altre confessioni religiose firmatarie delle intese con lo Stato».
In pratica Zuppi denuncia il governo Meloni per aver introdotto delle modifiche alla legge 222/85 - che porta il nome di “Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi” – che favorirebbero lo Stato nell’attribuzione dei fondi dell’8xmille.

Immediata e sorpresa la reazione del governo: la modifica alla legge del 1985 «fu introdotta dalla maggioranza parlamentare che sosteneva il governo Conte 2», cioè M5Stelle e Pd. Era il 2019, per chi voleva attribuire allo Stato l’8xmille si dava la facoltà di scegliere tra 5 diversi tipologie d’intervento: contrasto alla fame nel mondo, interventi per calamità naturali, assistenza ai rifugiati; conservazione dei beni culturali, ristrutturazione degli immobili scolastici. Nel 2024 il governo Meloni semplicemente aggiungeva una sesta possibilità, ovvero il «recupero dalle tossicodipendenze e dalle altre dipendenze patologiche».

Dunque l’attacco di Zuppi appare non solo rivolto all’indirizzo sbagliato, ma anche senza fondamento, perché lo Stato semplicemente dichiara gli ambiti di finanziamenti con tali fondi dando la possibilità ai contribuenti di scegliere. È ben dubbio che questo possa spostare le firme in modo rilevante verso lo Stato.

È lecito dunque chiedersi – a meno di considerare il cardinale Zuppi uno sprovveduto – la vera ragione di questo attacco.

Per comprendere bene la questione bisogna ricordare che la legge del 1985 intendeva regolare il riconoscimento giuridico degli enti e delle proprietà ecclesiastiche nonché le modalità di sostentamento del clero fino a quel momento garantito dalla congrua, ovvero il reddito minimo garantito dallo Stato ai sacerdoti. Con il nuovo sistema – l’8xmille, appunto – erano gli stessi contribuenti a decidere se assegnare alla Chiesa cattolica o allo Stato (per la cura dei beni culturali) quella frazione del proprio gettito fiscale, semplicemente firmando una casella nella Dichiarazione dei redditi.
Per quanto riguarda la Chiesa, l’articolo 48 della legge stabilisce che i fondi dell’8xmille devono essere utilizzati «per esigenze di culto della popolazione, sostentamento del clero, interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di Paesi del Terzo mondo».

Tale modello di accordo si è poi esteso nel tempo ad altre confessioni religiose tanto che oggi il contribuente ha la possibilità di scegliere tra 12 beneficiari (inclusi la Chiesa cattolica e lo Stato italiano, che in realtà si dividono oltre il 90% della torta).

La grande novità del meccanismo stava nel fatto che la quota di 8xmille dei cittadini che non esprimono alcuna scelta veniva ripartita tra Chiesa e Stato in proporzione delle firme espresse.

Ma è proprio questo sistema di redistribuzione che è molto contestato da chi vorrebbe volentieri cancellare la presenza della Chiesa in Italia, ed è questa pressione per cambiare il meccanismo della ripartizione che preoccupa molto la CEI. Il motivo è semplice: solo poco più del 40% dei contribuenti appone una firma su una delle 12 caselle dell’8xmille, quindi il 60% del gettito da 8xmille viene ridistribuito in base alle firme sul restante 40%.

Tradotto in soldi vuol dire che, tenendo conto che la somma totale dell’8xmille è di 1 miliardo e 320 milioni (ultimo dato a disposizione), del miliardo che è arrivato per il 2023 alla Chiesa (che raccoglie poco meno del 70% delle firme) solo 400 milioni sono frutto diretto della scelta dei contribuenti; il resto (600 milioni) arriva dalla ripartizione dei circa 800 milioni senza firma.

Vale a dire che l’8xmille che arriva direttamente dalla scelta dei contribuenti arriverebbe a malapena a coprire il fabbisogno per il sostentamento del clero (403 milioni nel 2023). Mentre per le esigenze delle opere di culto e pastorale nel 2023 sono stati assegnati 352 milioni e per le opere di carità 243 milioni.

Messe così le cose si comprende quale sia la posta in gioco. E quando il cardinale Zuppi afferma che «a noi interessano i poveri, non i soldi» dice dunque una clamorosa bugia. La verità è che se salta il meccanismo di ripartizione, la Chiesa italiana rischia la bancarotta.
Il governo non lo ha mai messo in discussione ma dalla sinistra più volte si è contestata l’assegnazione “coatta” dell’8xmille e i radicali, ad esempio, da sempre parlano di legge-truffa e promuovono campagne per l’abolizione.

È dunque possibile che il cardinale Zuppi abbia voluto giocare d’anticipo per impedire che altri attacchino il meccanismo di ridistribuzione, cercando al contempo delle sponde politiche per salvare l’attuale regime dell’8xmille (e subito Matteo Renzi ha risposto “presente”).

Le parole del presidente della Cei tradiscono comunque un certo nervosismo perché negli ultimi anni sempre più cattolici hanno tolto la loro firma alla Chiesa cattolica e i motivi sono evidenti: una CEI diventata ormai un’organizzazione collaterale al Partito Democratico, che sostiene a spada tratta e finanzia l’immigrazione illegale, che con il suo giornale (Avvenire) si schiera a favore delle unioni gay, della cultura gender, dell’adozione per le coppie omosessuali non può che provocare una reazione di rigetto da parte di tanti semplici cattolici.

E i numeri sono impietosi, basta guardare questo grafico elaborato da lavoce.info per capire:


Dal 2013 al 2021 c’è stato un crollo netto degli italiani che hanno firmato per la Chiesa cattolica: dagli oltre 15milioni si è scesi in 8 anni a meno di 12 milioni, un vero e proprio tracollo che è certamente continuato anche negli anni successivi. E che sarebbe di dimensioni ancora più ampie se il meccanismo del recupero dei fondi non assegnati non rendesse quasi inutile l’astensione dalla firma.

Il cardinale Zuppi e tutta la CEI farebbero bene dunque a farsi qualche domanda su questa contestazione silenziosa dei fedeli, invece di buttarla in caciara politica.





Il «ruggito garbato» di Leone XIV nei confronti della Francia sul fine vita





5 giugno 2025

Ieri, a margine del ciclo di catechesi del mercoledì, Leone XIV non si è lasciato sfuggire l'occasione - nel saluto rivolto ai pellegrini di lingua francese - di ricordare loro che «il nostro mondo oggi fatica a trovare un valore alla vita umana, anche nella sua ultima ora», aggiungendo: «Lo Spirito del Signore illumini le nostre menti, affinché sappiamo difendere la dignità intrinseca di ogni persona umana».

Si tratta di espressioni fuori contesto, ma solo in apparenza, perché riguardano la cronaca recente, di fatto molto eclatante, relativa all'approvazione di una proposta di legge sulla morte assistita da parte dell’Assemblea Nazionale francese. Un voto non ancora definitivo perché dovrà passare anche in Senato, ma che ha destato scalpore.

Ed è così che la stampa francese, da La Croix a Le Pèlerin, ha immediatamente colto, insieme a noi, in tutta la sua significativa portata, il «ruggito garbato» del nuovo pontefice.




Tradizione e ‘giusto uso’. Una nota sullo stile di papa Leone XIV.



Definisce papa tradizionale non tradizionalista.




Leonardo Lugaresi, 1 giugno 2025

Nelle analisi che molti osservatori stanno facendo dei primi passi del pontificato di Leone XIV, mi pare che prevalga finora l’uso della categoria di continuità/discontinuità, applicata al confronto con il pontificato precedente. Se si potesse impiegare una metafora ludica, direi che, dagli spalti delle opposte tifoserie, le prime mosse del nuovo papa vengono giudicate paragonando il suo ‘stile di gioco’ con quello del predecessore e valutando di conseguenza quanto egli si dimostri ‘bergogliano’ o ‘non bergogliano’, se non addirittura ‘antibergogliano’. 

È una tendenza comprensibile, sia perché si tratta del confronto più facile ed immediato – e spesso anche l’unico possibile ad una cultura sociale ormai del tutto priva di memoria storica e abituata al respiro corto di un’attualità schiacciata sui tempi stretti della cronaca –, sia perché la ‘discontinuità’ è stata in effetti la cifra, puntigliosamente cercata fin dal primo momento ed esibita con indubbia efficacia comunicativa sino alla fine, del papato di Francesco; o quantomeno della sua rappresentazione mediatica, da lui stesso peraltro voluta e promossa e che, in ogni caso, è quella che è giunta alla grande maggioranza delle persone, dentro e fuori la Chiesa. Il messaggio percepito praticamente da tutti è che Francesco è stato un papa diverso. Diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto, diverso dal resto della gerarchia cattolica, diverso dalle istituzioni della Chiesa (papato compreso), e per questo ‘straordinariamente’ amato o detestato proprio in quanto ‘eccezione’.

Lo ‘stile’ di papa Leone.

Tale criterio, tuttavia, risulta a mio avviso largamente inadeguato a comprendere il senso di ciò che sta accadendo nella Chiesa, ed in particolare non aiuta a cogliere un aspetto dello stile di pensiero e di governo di papa Leone XIV, che mi pare stia invece emergendo con nettezza nei suoi primi discorsi; un tratto che è invece meritevole della massima attenzione per il suo valore paradigmatico, non solo sul piano dei contenuti ma anche, e direi soprattutto, su quello del metodo. Non vi è dubbio infatti che, rispetto all’eccezione bergogliana, il pontificato di Leone XIV si presenti chiaramente, quantomeno nello stile – e, direi, non tanto per una scelta programmatica, quanto per il suo naturale modo di essere – come un ritorno all’ordine, alla ‘normalità’ e alla tradizione cattolica (se si intende questa espressione nel suo significato autentico, su cui tra poco torneremo), ma sarebbe del tutto sbagliato interpretare tale movimento come una reazione, cioè come un’azione di segno contrario ma di uguale natura rispetto alle tante ‘novità’ del pontificato precedente, volta a ripristinare la continuità eliminando ciò che nel recente passato l’aveva messa in discussione.

Colpisce, in tutti i primi interventi del nuovo papa, la felice naturalezza con cui egli fa continuamente appello alla tradizione della Chiesa attraverso grandi autori che ne sono testimoni: nell’omelia della messa celebrata con i cardinali all’indomani della sua elezione ha citato Ignazio di Antiochia; nel discorso agli operatori della comunicazione, il 12 maggio, Agostino; il 14 maggio, nel discorso ai partecipanti al Giubileo delle chiese orientali, è stata la volta di Efrem il Siro, Isacco di Ninive, Simeone il Nuovo Teologo e di nuovo del ‘suo’ Agostino, che è ritornato nell’omelia della messa di inizio del pontificato, il 18 maggio, poi nel discorso del 19 maggio ai rappresentanti di altre chiese e comunità ecclesiali, nell’omelia a San Paolo fuori le mura il 20 maggio – durante la quale il papa ha evocato anche Benedetto da Norcia – e ancora nel discorso all’assemblea delle Pontificie Opere Missionarie del 22 maggio e nell’omelia a San Giovanni in Laterano, il 25 maggio, in cui ha citato anche Leone Magno. Riferimenti brevi (come brevi, peraltro, sono i suoi discorsi, e anche questo è un tratto significativo), ma non di maniera, bensì tutti rilevanti per la pertinenza ai temi che il papa stava toccando. A questi riscontri patristici si accompagna quello costante al magistero dei papi moderni, in particolare Leone XIII, che è stato ricordato almeno cinque o sei volte nei primi discorsi, e soprattutto Francesco, che è per così dire onnipresente: credo che il nuovo papa non abbia mai mancato di citarlo, ogni volta che ha preso la parola.

Un papa tradizionale, non tradizionalista.

È proprio su quest’ultimo dato che vorrei attirare l’attenzione. Nella prospettiva ermeneutica del confronto tra Leone e Francesco sopra accennata, esso potrebbe facilmente venire interpretato o come una prova della sostanziale ‘continuità’ del nuovo papa con il predecessore, dal quale si distinguerebbe solo in superficie, per ovvie e scontate differenze di temperamento; oppure, al contrario, come un mero accorgimento tattico e strumentale, volto a prevenire e lenire possibili reazioni ostili nei confronti di un papato che starebbe operando con discrezione una sostanziale (e salutare, dal punto di vista di chi sostiene questa tesi) rottura con la cosiddetta ‘chiesa di Francesco’. Credo che entrambi gli approcci siano sbagliati. Ciò che papa Leone ha espresso, in ogni suo atto e parola durante queste prime due settimane di pontificato, non è altro che la concezione autenticamente cattolica di tradizione.

Sul modo di intendere tale concetto mi pare sia molto diffuso oggi tra i cattolici un equivoco che paradossalmente accomuna in larga misura i fronti opposti dei ‘tradizionalisti’ e dei ‘progressisti’ (adopero per brevità queste etichette ormai logore confidando nella comprensione del lettore): quello di legare la tradizione al passato, poco importa se con l’intento di preservare e riproporre tale passato, o al contrario per rifiutarlo e superarlo definitivamente. In entrambi i casi, infatti, si dipende da un’idea della tradizione come depositum, una sorta di patrimonio ereditato, magazzino o scrigno in cui giace tutto ciò che hanno pensato e vissuto i nostri antenati, cristallizzato in dottrina e in usanze. Lo si può apprezzare o disprezzare, ma resta in ogni caso un oggetto, un lascito che appartiene al passato e che spetta agli eredi, cioè a noi soggetti viventi oggi, decidere se e come impiegare. 

Tradizionalisti e novatori, pur combattendosi, su questo la pensano, loro malgrado, in modo molto simile: se ci si pensa bene, a entrambi si potrebbe muovere l’accusa di ‘passatismo’ o di ‘indietrismo’ (come avrebbe detto papa Bergoglio). Se si prende, ad esempio, il tema delicato e doloroso del conflitto sulla liturgia, si può vedere che, paradossalmente, tanto i fautori del vetus ordo quanto i difensori esclusivi del novus ordo possono essere considerati dei traditionis custodes (per riprendere ironicamente il titolo dell’infelice Motu proprio del luglio 2021) nel senso riduttivo e inadeguato di cui sto parlando. Gli uni, infatti, rifiutano di riconoscere che fa parte della tradizione anche ciò che è avvenuto dopo il 1962, ma non si accorgono che, così facendo, la dichiarano finita, cioè morta; gli altri non accettano che anche ciò che chiamano novus appartenga in realtà alla tradizione di un’epoca della Chiesa per certi aspetti già remota (anche perché, nella sua pretesa di innovazione, è invecchiata prestissimo). I primi fanno dell’antiquariato, i secondi del modernariato; entrambi, però, non colgono il punto, che è la vita attuale della Chiesa come tradizione vivente.

La ‘tradizione vivente’


Tradizione, infatti, in senso autenticamente cattolico non indica un oggetto, bensì un processo, anzi una relazione. È un nomen relationis che si riferisce ad un rapporto di trasmissione, o meglio di donazione, che implica essenzialmente degli attori viventi (donatore e donatario) e delle interazioni reciproche che vanno al di là del tempo. In questo senso, la tradizione è sempre vivente: appartiene al presente, non al passato, perché avviene ora; e proprio in quanto è vivente ha l’autorità e la forza di esigere un’obbedienza nel presente. Essa sta al cuore della fede, apportandovi un aspetto essenziale, senza il quale semplicemente non c’è più il cristianesimo. La fede cristiana, infatti, è per sua natura sempre e solo una risposta. Non è mai una ‘parola primaria’ originata da un soggetto umano, ma sempre e comunque una ‘parola secondaria’, in risposta ad un appello che spetta solo a Dio il quale, per primo, si rivela a noi. Tale è la fede di Abramo, di Mosè, dei profeti e la fede degli apostoli, su cui la nostra si fonda. Ne deriva che, in questo senso, la parola della Chiesa è sempre e solo parola ricevuta, perciò intrinsecamente ‘tradizionale’. In quanto ricevuta, tale parola va custodita e trasmessa agli altri fedelmente, secondo la modalità limpidamente dichiarata da Paolo sin dai primordi della storia cristiana (quando ancora di passato alle spalle quasi non ce n’era): «vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto» (1 Cor 15, 3). Definire la parola ecclesiale come parola ricevuta significa anche affermare che la Chiesa – a tutti i suoi livelli, papa compreso! – non ha alcuna potestà su di essa: la serve, non se ne serve. Non può dunque disporne come vuole, ad esempio per renderla più idonea ad incontrare la mentalità e le attese della società contemporanea, così come noi le intendiamo.

C’è però ancora un aspetto che bisogna mettere in luce, per cogliere adeguatamente il carattere cattolico di tale concezione: la parola di Dio, a cui ciascuno di noi risponde personalmente, non viene a noi per una rivelazione diretta e personale (come nell’illuminazione interiore, sola Scriptura, della concezione protestante), ma ci viene trasmessa da un’ininterrotta catena ‘martiriale’ di testimoni autorevoli, e dunque ci arriva arricchita, anzi ‘vissuta’ da tutte le risposte che ha ricevuto nel corso della storia cristiana. Come ha scritto splendidamente Joseph Ratzinger, riferendosi al ruolo dei Padri nella teologia contemporanea, «solo perché la parola ha trovato risposta è rimasta tale ed effettiva. La natura della parola è una realtà di rapporto […] cessa di esistere non solo quando nessuno la pronuncia, ma anche quando nessuno l’ascolta». Per questo «non possiamo leggere e ascoltare la parola prescindendo dalla risposta che prima l’ha recepita ed è diventata costitutiva della sua permanenza».

Ecco perché la Chiesa non può mai, in nessun caso, rompere con la tradizione o trascurarla: è sempre ‘sulla scorta dei Padri’ (intendendo qui in senso lato tutti coloro che ci hanno preceduto nella fede e ce l’hanno consegnata) che essa legge la Scrittura e comprende la Rivelazione. La tradizione ha dunque un’autorità a cui nessuno nella Chiesa può sottrarsi: meno di tutti il papa. Da un punto di vista cattolico, è perciò aberrante la teoria, che pure è circolata in questi anni, secondo la quale esisterebbero, nella dinamica ecclesiale, due poli distinti: da una parte il depositum fidei tradizionale, acquisito sì come patrimonio inalienabile della Chiesa, ma di per sé ‘morto’ e bisognoso di essere attivato e ‘rianimato’ per acquisire significato pastorale e vitalità comunicativa, e dall’altra un carisma petrino (che però sarebbe, più che istituzionale, strettamente legato alla singola personalità del papa pro tempore), a cui spetterebbe, in via preminente se non addirittura esclusiva, appunto la funzione di vitalizzare, interpretare (e a questo punto, perché no, all’occorrenza correggere) tale depositum, per tracciare la strada che la Chiesa deve percorrere. Si rischia, per questa via, di dare corpo ad una forma di ‘papismo non cattolico’ che, sulla base dell’erroneo principio che il ‘papa che può fare quello che vuole’, attribuisce al successore di Pietro non il compito di confermare nell’unità della fede i suoi fratelli, secondo il mandato di Cristo, ma piuttosto quello di plasmare una chiesa a sua immagine. Ieri la ‘chiesa di Francesco’, oggi quella di Leone e così via.

Non è così: l’unica Chiesa che noi conosciamo è ‘di Cristo’, e l’unica qualifica che le appartiene, con riferimento ad una funzione umana di custodia e di governo, è di essere ‘apostolica’ cioè incardinata sul fondamento stesso della tradizione, che va accolta e compresa nella sua integralità. Per la sua natura di ininterrotta trasmissione della parola divina continuamente rivissuta attraverso le risposte di fede che l’hanno accolta e ridonata, la tradizione non può essere sezionata, prendendone alcune parti e rifiutandone altre. Questo significa che – piaccia o meno ai tradizionalisti – di essa oggi fa parte anche il Concilio Vaticano II e i pontificati che lo hanno seguito, compreso quello che è terminato poco più di un mese fa. Nei confronti del quale, dunque, per quante critiche si possano muovere, non avrebbe alcun senso cattolico invocare una damnatio memoriae da parte del successore.

Discernimento (krisis) e ‘giusto uso’ (chrêsis) anche della storia della Chiesa.

Questo vuol forse dire che tutto ciò che è avvenuto nel corso della bimillenaria storia della chiesa, per il solo fatto di essere stato, deve essere approvato, santificato e caricato di una ‘valenza normativa’ per il presente, in una sorta di versione cattolica del principio hegeliano che «tutto ciò che è reale è razionale»? Niente affatto, ci mancherebbe altro! La storia della chiesa, che è una realtà teandrica, nel suo versante umano è piena di errori e persino di malefatte, e sotto questo profilo va esercitato nei suoi confronti un discernimento senza sconti. Qui acquista rilievo un altro aspetto che mi ha molto colpito nei primi atti del nuovo papa, ed è la pratica del ‘giusto uso’, la chrêsis di cui parlano i Padri della Chiesa. È merito di un grande studioso recentemente scomparso, a cui mi piace qui rendere omaggio, Christian Gnilka (1936-2025), avere attirato l’attenzione degli studiosi sulla centralità di tale concetto nell’approccio che i Padri hanno verso la cultura profana e, in generale verso tutti i beni mondani. La chrêsis è un atteggiamento che sfugge alla dicotomia, oggi imperante, di inclusione ed esclusione, perché si tiene lontano sia dall’accettazione acritica (che poi degenera in sottomissione), sia dal rifiuto pregiudiziale (di cui è figlio il settarismo), ma è proteso a incontrare l’altro in ogni occasione, “vagliando tutto e trattenendo ciò che vale”, secondo la formula paolina di 1 Ts 5, 21, cioè operando una krisis, il giudizio che ‘entra e separa’: è interessato ad ogni cosa, si coinvolge con chiunque, ma in tutto ciò che incontra distingue ciò che è buono, bello e vero da ciò che non lo è. Con quale criterio? L’unico possibile per il cristiano: quello che, sempre Paolo, con un’espressione folgorante chiama il nous (cioè il pensiero, la mente) di Cristo (cfr. 1 Cor 2, 16).

Ogni valore umano che il cristiano incontra, accoglie e fa suo, non può dunque mancare di criticarlo e di risignificarlo alla luce di Cristo. Non si tratta di un’appropriazione culturale, come oggi forse si direbbe per stigmatizzarla, bensì di ricondurre ogni cosa alla sua verità originaria. Mettere le cose al loro posto: questo è il ‘giusto uso’, la chrêsis di cui parlano i Padri della Chiesa, che si compendia nel modo più sintetico nella dichiarazione del Paolo di Atti agli Ateniesi: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve l’annuncio» (At 17, 23). Tale pretesa cristiana, in cui concretizza il compito di essere «sale della terra e luce del mondo» assegnato da Cristo ai suoi, vale però non solo verso il mondo, ma anche, in un certo senso, verso la chiesa stessa nella sua componente umana. Ogni cosa umana, infatti, ha bisogno di essere continuamente purificata, corretta e rimessa a posto: in una parola, riconsegnata alla verità del progetto divino. Qui sta l’origine del principio ecclesia semper reformanda, non in un’istanza di aggiornamento alle vicende del mondo. Per compiere un’operazione di questo tipo occorrono tre cose: una certezza di posizione determinata dall’autocoscienza di essere nuove creature, perché non siamo più noi che viviamo ma Cristo vive in noi; una piena e cordiale apertura alla realtà, che per principio non rifiuta pregiudizialmente niente dell’umano (perché tutte le cose sussistono in Cristo); un grande coraggio nel giudizio (perché il giudizio è una forma di testimonianza di Cristo, cioè di martirio).

Il papa custode dell’unità cattolica.

Nella storia della Chiesa Cattolica non si danno né rivoluzioni né restaurazioni. Nella misura in cui avvengono delle rotture, se esse non vengono ricomposte – e non ‘politicamente’, per via di compromesso o di dissimulazione, ma nella verità della fede – danno luogo a scismi e scomuniche, cioè alla resezione di parti che ‘danno scandalo’ affinché il corpo nella sua organicità possa continuare a vivere unito. Il compito di Pietro è essenzialmente preservare la verità della fede e l’unità del popolo di Dio. Un equivoco che negli ultimi anni mi pare abbia adombrato la coscienza ecclesiale è stato quello di pensare invece che spettasse al papa ‘avviare i processi’ di un cambiamento nel modo di essere della Chiesa, per giunta senza che fosse chiaro in quale direzione andare: si pensi ad esempio a tutto il confuso discorrere di ‘sinodalità’ come se fosse un nuovo carattere essenziale della Chiesa). Oggi sarebbe altrettanto sbagliato pretendere che spetti al papa compiere una sorta di ‘controriforma’. Se posso azzardare una previsione, credo che questo comunque non accadrà. Penso invece che da Leone XIV possiamo attenderci non tanto delle correzioni esplicite o delle formali ritrattazioni di certi aspetti ambigui, confusi e in qualche caso problematici del precedente pontificato, quanto un loro ‘giusto uso’ che, se così posso esprimermi, li ‘rimetta al loro posto’.

Per fare un solo esempio, ad alcuni è dispiaciuto che nel discorso del 19 maggio ai rappresentanti delle altre chiese e di altre religioni papa Leone abbia citato la controversa Dichiarazione di Abu Dhabi. È vero che quel documento contiene il passaggio forse più ‘problematico’ del pontificato di Francesco, perché vi si trova un’affermazione circa la volontà divina che gli uomini aderiscano a religioni diverse dalla fede cristiana che è pressoché impossibile interpretare in modo compatibile con la dottrina cattolica; tuttavia, da parte di chi è ben saldo nella certezza (scritturistica e tradizionale!) che tutti gli uomini sono chiamati a convertirsi a Cristo, perché «in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4, 12), si può benissimo citare un altro passo, del tutto innocuo, di quello stesso documento, proprio nella logica che ho cercato di descrivere. È anche in questo modo, io spero, che si realizzerà una sorta di ‘riassorbimento dell’eccezione bergogliana’ nel corpo vivo della tradizione.

Un fattore fondamentale di sicurezza, nel nuovo pontificato, sembra che in ogni caso si possa già dare per acquisito, sulla base dell’esperienza di queste prime settimane. A differenza del suo predecessore, Leone non ci darà da temere che faccia il papa ‘di testa sua’, e questo è decisivo. Lo ha chiarito sin dall’inizio, quando, richiamandosi ad una frase di Ignazio di Antiochia (ma riecheggiando riflessioni che a suo tempo aveva fatto anche Benedetto XVI), ha definito «un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità [quello di] sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato, spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo». È in questo senso che mi azzarderei a sperare che lo stile del suo pontificato sarà ‘ratzingeriano’ e ‘patristico’.