Definisce papa tradizionale non tradizionalista.
Leonardo Lugaresi, 1 giugno 2025
Nelle analisi che molti osservatori stanno facendo dei primi passi del pontificato di Leone XIV, mi pare che prevalga finora l’uso della categoria di continuità/discontinuità, applicata al confronto con il pontificato precedente. Se si potesse impiegare una metafora ludica, direi che, dagli spalti delle opposte tifoserie, le prime mosse del nuovo papa vengono giudicate paragonando il suo ‘stile di gioco’ con quello del predecessore e valutando di conseguenza quanto egli si dimostri ‘bergogliano’ o ‘non bergogliano’, se non addirittura ‘antibergogliano’.
È una tendenza comprensibile, sia perché si tratta del confronto più facile ed immediato – e spesso anche l’unico possibile ad una cultura sociale ormai del tutto priva di memoria storica e abituata al respiro corto di un’attualità schiacciata sui tempi stretti della cronaca –, sia perché la ‘discontinuità’ è stata in effetti la cifra, puntigliosamente cercata fin dal primo momento ed esibita con indubbia efficacia comunicativa sino alla fine, del papato di Francesco; o quantomeno della sua rappresentazione mediatica, da lui stesso peraltro voluta e promossa e che, in ogni caso, è quella che è giunta alla grande maggioranza delle persone, dentro e fuori la Chiesa. Il messaggio percepito praticamente da tutti è che Francesco è stato un papa diverso. Diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto, diverso dal resto della gerarchia cattolica, diverso dalle istituzioni della Chiesa (papato compreso), e per questo ‘straordinariamente’ amato o detestato proprio in quanto ‘eccezione’.
Lo ‘stile’ di papa Leone.
Tale criterio, tuttavia, risulta a mio avviso largamente inadeguato a comprendere il senso di ciò che sta accadendo nella Chiesa, ed in particolare non aiuta a cogliere un aspetto dello stile di pensiero e di governo di papa Leone XIV, che mi pare stia invece emergendo con nettezza nei suoi primi discorsi; un tratto che è invece meritevole della massima attenzione per il suo valore paradigmatico, non solo sul piano dei contenuti ma anche, e direi soprattutto, su quello del metodo. Non vi è dubbio infatti che, rispetto all’eccezione bergogliana, il pontificato di Leone XIV si presenti chiaramente, quantomeno nello stile – e, direi, non tanto per una scelta programmatica, quanto per il suo naturale modo di essere – come un ritorno all’ordine, alla ‘normalità’ e alla tradizione cattolica (se si intende questa espressione nel suo significato autentico, su cui tra poco torneremo), ma sarebbe del tutto sbagliato interpretare tale movimento come una reazione, cioè come un’azione di segno contrario ma di uguale natura rispetto alle tante ‘novità’ del pontificato precedente, volta a ripristinare la continuità eliminando ciò che nel recente passato l’aveva messa in discussione.
Colpisce, in tutti i primi interventi del nuovo papa, la felice naturalezza con cui egli fa continuamente appello alla tradizione della Chiesa attraverso grandi autori che ne sono testimoni: nell’omelia della messa celebrata con i cardinali all’indomani della sua elezione ha citato Ignazio di Antiochia; nel discorso agli operatori della comunicazione, il 12 maggio, Agostino; il 14 maggio, nel discorso ai partecipanti al Giubileo delle chiese orientali, è stata la volta di Efrem il Siro, Isacco di Ninive, Simeone il Nuovo Teologo e di nuovo del ‘suo’ Agostino, che è ritornato nell’omelia della messa di inizio del pontificato, il 18 maggio, poi nel discorso del 19 maggio ai rappresentanti di altre chiese e comunità ecclesiali, nell’omelia a San Paolo fuori le mura il 20 maggio – durante la quale il papa ha evocato anche Benedetto da Norcia – e ancora nel discorso all’assemblea delle Pontificie Opere Missionarie del 22 maggio e nell’omelia a San Giovanni in Laterano, il 25 maggio, in cui ha citato anche Leone Magno. Riferimenti brevi (come brevi, peraltro, sono i suoi discorsi, e anche questo è un tratto significativo), ma non di maniera, bensì tutti rilevanti per la pertinenza ai temi che il papa stava toccando. A questi riscontri patristici si accompagna quello costante al magistero dei papi moderni, in particolare Leone XIII, che è stato ricordato almeno cinque o sei volte nei primi discorsi, e soprattutto Francesco, che è per così dire onnipresente: credo che il nuovo papa non abbia mai mancato di citarlo, ogni volta che ha preso la parola.
Un papa tradizionale, non tradizionalista.
È proprio su quest’ultimo dato che vorrei attirare l’attenzione. Nella prospettiva ermeneutica del confronto tra Leone e Francesco sopra accennata, esso potrebbe facilmente venire interpretato o come una prova della sostanziale ‘continuità’ del nuovo papa con il predecessore, dal quale si distinguerebbe solo in superficie, per ovvie e scontate differenze di temperamento; oppure, al contrario, come un mero accorgimento tattico e strumentale, volto a prevenire e lenire possibili reazioni ostili nei confronti di un papato che starebbe operando con discrezione una sostanziale (e salutare, dal punto di vista di chi sostiene questa tesi) rottura con la cosiddetta ‘chiesa di Francesco’. Credo che entrambi gli approcci siano sbagliati. Ciò che papa Leone ha espresso, in ogni suo atto e parola durante queste prime due settimane di pontificato, non è altro che la concezione autenticamente cattolica di tradizione.
Sul modo di intendere tale concetto mi pare sia molto diffuso oggi tra i cattolici un equivoco che paradossalmente accomuna in larga misura i fronti opposti dei ‘tradizionalisti’ e dei ‘progressisti’ (adopero per brevità queste etichette ormai logore confidando nella comprensione del lettore): quello di legare la tradizione al passato, poco importa se con l’intento di preservare e riproporre tale passato, o al contrario per rifiutarlo e superarlo definitivamente. In entrambi i casi, infatti, si dipende da un’idea della tradizione come depositum, una sorta di patrimonio ereditato, magazzino o scrigno in cui giace tutto ciò che hanno pensato e vissuto i nostri antenati, cristallizzato in dottrina e in usanze. Lo si può apprezzare o disprezzare, ma resta in ogni caso un oggetto, un lascito che appartiene al passato e che spetta agli eredi, cioè a noi soggetti viventi oggi, decidere se e come impiegare.
Tradizionalisti e novatori, pur combattendosi, su questo la pensano, loro malgrado, in modo molto simile: se ci si pensa bene, a entrambi si potrebbe muovere l’accusa di ‘passatismo’ o di ‘indietrismo’ (come avrebbe detto papa Bergoglio). Se si prende, ad esempio, il tema delicato e doloroso del conflitto sulla liturgia, si può vedere che, paradossalmente, tanto i fautori del vetus ordo quanto i difensori esclusivi del novus ordo possono essere considerati dei traditionis custodes (per riprendere ironicamente il titolo dell’infelice Motu proprio del luglio 2021) nel senso riduttivo e inadeguato di cui sto parlando. Gli uni, infatti, rifiutano di riconoscere che fa parte della tradizione anche ciò che è avvenuto dopo il 1962, ma non si accorgono che, così facendo, la dichiarano finita, cioè morta; gli altri non accettano che anche ciò che chiamano novus appartenga in realtà alla tradizione di un’epoca della Chiesa per certi aspetti già remota (anche perché, nella sua pretesa di innovazione, è invecchiata prestissimo). I primi fanno dell’antiquariato, i secondi del modernariato; entrambi, però, non colgono il punto, che è la vita attuale della Chiesa come tradizione vivente.
La ‘tradizione vivente’
Tradizione, infatti, in senso autenticamente cattolico non indica un oggetto, bensì un processo, anzi una relazione. È un nomen relationis che si riferisce ad un rapporto di trasmissione, o meglio di donazione, che implica essenzialmente degli attori viventi (donatore e donatario) e delle interazioni reciproche che vanno al di là del tempo. In questo senso, la tradizione è sempre vivente: appartiene al presente, non al passato, perché avviene ora; e proprio in quanto è vivente ha l’autorità e la forza di esigere un’obbedienza nel presente. Essa sta al cuore della fede, apportandovi un aspetto essenziale, senza il quale semplicemente non c’è più il cristianesimo. La fede cristiana, infatti, è per sua natura sempre e solo una risposta. Non è mai una ‘parola primaria’ originata da un soggetto umano, ma sempre e comunque una ‘parola secondaria’, in risposta ad un appello che spetta solo a Dio il quale, per primo, si rivela a noi. Tale è la fede di Abramo, di Mosè, dei profeti e la fede degli apostoli, su cui la nostra si fonda. Ne deriva che, in questo senso, la parola della Chiesa è sempre e solo parola ricevuta, perciò intrinsecamente ‘tradizionale’. In quanto ricevuta, tale parola va custodita e trasmessa agli altri fedelmente, secondo la modalità limpidamente dichiarata da Paolo sin dai primordi della storia cristiana (quando ancora di passato alle spalle quasi non ce n’era): «vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto» (1 Cor 15, 3). Definire la parola ecclesiale come parola ricevuta significa anche affermare che la Chiesa – a tutti i suoi livelli, papa compreso! – non ha alcuna potestà su di essa: la serve, non se ne serve. Non può dunque disporne come vuole, ad esempio per renderla più idonea ad incontrare la mentalità e le attese della società contemporanea, così come noi le intendiamo.
C’è però ancora un aspetto che bisogna mettere in luce, per cogliere adeguatamente il carattere cattolico di tale concezione: la parola di Dio, a cui ciascuno di noi risponde personalmente, non viene a noi per una rivelazione diretta e personale (come nell’illuminazione interiore, sola Scriptura, della concezione protestante), ma ci viene trasmessa da un’ininterrotta catena ‘martiriale’ di testimoni autorevoli, e dunque ci arriva arricchita, anzi ‘vissuta’ da tutte le risposte che ha ricevuto nel corso della storia cristiana. Come ha scritto splendidamente Joseph Ratzinger, riferendosi al ruolo dei Padri nella teologia contemporanea, «solo perché la parola ha trovato risposta è rimasta tale ed effettiva. La natura della parola è una realtà di rapporto […] cessa di esistere non solo quando nessuno la pronuncia, ma anche quando nessuno l’ascolta». Per questo «non possiamo leggere e ascoltare la parola prescindendo dalla risposta che prima l’ha recepita ed è diventata costitutiva della sua permanenza».
Ecco perché la Chiesa non può mai, in nessun caso, rompere con la tradizione o trascurarla: è sempre ‘sulla scorta dei Padri’ (intendendo qui in senso lato tutti coloro che ci hanno preceduto nella fede e ce l’hanno consegnata) che essa legge la Scrittura e comprende la Rivelazione. La tradizione ha dunque un’autorità a cui nessuno nella Chiesa può sottrarsi: meno di tutti il papa. Da un punto di vista cattolico, è perciò aberrante la teoria, che pure è circolata in questi anni, secondo la quale esisterebbero, nella dinamica ecclesiale, due poli distinti: da una parte il depositum fidei tradizionale, acquisito sì come patrimonio inalienabile della Chiesa, ma di per sé ‘morto’ e bisognoso di essere attivato e ‘rianimato’ per acquisire significato pastorale e vitalità comunicativa, e dall’altra un carisma petrino (che però sarebbe, più che istituzionale, strettamente legato alla singola personalità del papa pro tempore), a cui spetterebbe, in via preminente se non addirittura esclusiva, appunto la funzione di vitalizzare, interpretare (e a questo punto, perché no, all’occorrenza correggere) tale depositum, per tracciare la strada che la Chiesa deve percorrere. Si rischia, per questa via, di dare corpo ad una forma di ‘papismo non cattolico’ che, sulla base dell’erroneo principio che il ‘papa che può fare quello che vuole’, attribuisce al successore di Pietro non il compito di confermare nell’unità della fede i suoi fratelli, secondo il mandato di Cristo, ma piuttosto quello di plasmare una chiesa a sua immagine. Ieri la ‘chiesa di Francesco’, oggi quella di Leone e così via.
Non è così: l’unica Chiesa che noi conosciamo è ‘di Cristo’, e l’unica qualifica che le appartiene, con riferimento ad una funzione umana di custodia e di governo, è di essere ‘apostolica’ cioè incardinata sul fondamento stesso della tradizione, che va accolta e compresa nella sua integralità. Per la sua natura di ininterrotta trasmissione della parola divina continuamente rivissuta attraverso le risposte di fede che l’hanno accolta e ridonata, la tradizione non può essere sezionata, prendendone alcune parti e rifiutandone altre. Questo significa che – piaccia o meno ai tradizionalisti – di essa oggi fa parte anche il Concilio Vaticano II e i pontificati che lo hanno seguito, compreso quello che è terminato poco più di un mese fa. Nei confronti del quale, dunque, per quante critiche si possano muovere, non avrebbe alcun senso cattolico invocare una damnatio memoriae da parte del successore.
Discernimento (krisis) e ‘giusto uso’ (chrêsis) anche della storia della Chiesa.
Questo vuol forse dire che tutto ciò che è avvenuto nel corso della bimillenaria storia della chiesa, per il solo fatto di essere stato, deve essere approvato, santificato e caricato di una ‘valenza normativa’ per il presente, in una sorta di versione cattolica del principio hegeliano che «tutto ciò che è reale è razionale»? Niente affatto, ci mancherebbe altro! La storia della chiesa, che è una realtà teandrica, nel suo versante umano è piena di errori e persino di malefatte, e sotto questo profilo va esercitato nei suoi confronti un discernimento senza sconti. Qui acquista rilievo un altro aspetto che mi ha molto colpito nei primi atti del nuovo papa, ed è la pratica del ‘giusto uso’, la chrêsis di cui parlano i Padri della Chiesa. È merito di un grande studioso recentemente scomparso, a cui mi piace qui rendere omaggio, Christian Gnilka (1936-2025), avere attirato l’attenzione degli studiosi sulla centralità di tale concetto nell’approccio che i Padri hanno verso la cultura profana e, in generale verso tutti i beni mondani. La chrêsis è un atteggiamento che sfugge alla dicotomia, oggi imperante, di inclusione ed esclusione, perché si tiene lontano sia dall’accettazione acritica (che poi degenera in sottomissione), sia dal rifiuto pregiudiziale (di cui è figlio il settarismo), ma è proteso a incontrare l’altro in ogni occasione, “vagliando tutto e trattenendo ciò che vale”, secondo la formula paolina di 1 Ts 5, 21, cioè operando una krisis, il giudizio che ‘entra e separa’: è interessato ad ogni cosa, si coinvolge con chiunque, ma in tutto ciò che incontra distingue ciò che è buono, bello e vero da ciò che non lo è. Con quale criterio? L’unico possibile per il cristiano: quello che, sempre Paolo, con un’espressione folgorante chiama il nous (cioè il pensiero, la mente) di Cristo (cfr. 1 Cor 2, 16).
Ogni valore umano che il cristiano incontra, accoglie e fa suo, non può dunque mancare di criticarlo e di risignificarlo alla luce di Cristo. Non si tratta di un’appropriazione culturale, come oggi forse si direbbe per stigmatizzarla, bensì di ricondurre ogni cosa alla sua verità originaria. Mettere le cose al loro posto: questo è il ‘giusto uso’, la chrêsis di cui parlano i Padri della Chiesa, che si compendia nel modo più sintetico nella dichiarazione del Paolo di Atti agli Ateniesi: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve l’annuncio» (At 17, 23). Tale pretesa cristiana, in cui concretizza il compito di essere «sale della terra e luce del mondo» assegnato da Cristo ai suoi, vale però non solo verso il mondo, ma anche, in un certo senso, verso la chiesa stessa nella sua componente umana. Ogni cosa umana, infatti, ha bisogno di essere continuamente purificata, corretta e rimessa a posto: in una parola, riconsegnata alla verità del progetto divino. Qui sta l’origine del principio ecclesia semper reformanda, non in un’istanza di aggiornamento alle vicende del mondo. Per compiere un’operazione di questo tipo occorrono tre cose: una certezza di posizione determinata dall’autocoscienza di essere nuove creature, perché non siamo più noi che viviamo ma Cristo vive in noi; una piena e cordiale apertura alla realtà, che per principio non rifiuta pregiudizialmente niente dell’umano (perché tutte le cose sussistono in Cristo); un grande coraggio nel giudizio (perché il giudizio è una forma di testimonianza di Cristo, cioè di martirio).
Il papa custode dell’unità cattolica.
Nella storia della Chiesa Cattolica non si danno né rivoluzioni né restaurazioni. Nella misura in cui avvengono delle rotture, se esse non vengono ricomposte – e non ‘politicamente’, per via di compromesso o di dissimulazione, ma nella verità della fede – danno luogo a scismi e scomuniche, cioè alla resezione di parti che ‘danno scandalo’ affinché il corpo nella sua organicità possa continuare a vivere unito. Il compito di Pietro è essenzialmente preservare la verità della fede e l’unità del popolo di Dio. Un equivoco che negli ultimi anni mi pare abbia adombrato la coscienza ecclesiale è stato quello di pensare invece che spettasse al papa ‘avviare i processi’ di un cambiamento nel modo di essere della Chiesa, per giunta senza che fosse chiaro in quale direzione andare: si pensi ad esempio a tutto il confuso discorrere di ‘sinodalità’ come se fosse un nuovo carattere essenziale della Chiesa). Oggi sarebbe altrettanto sbagliato pretendere che spetti al papa compiere una sorta di ‘controriforma’. Se posso azzardare una previsione, credo che questo comunque non accadrà. Penso invece che da Leone XIV possiamo attenderci non tanto delle correzioni esplicite o delle formali ritrattazioni di certi aspetti ambigui, confusi e in qualche caso problematici del precedente pontificato, quanto un loro ‘giusto uso’ che, se così posso esprimermi, li ‘rimetta al loro posto’.
Per fare un solo esempio, ad alcuni è dispiaciuto che nel discorso del 19 maggio ai rappresentanti delle altre chiese e di altre religioni papa Leone abbia citato la controversa Dichiarazione di Abu Dhabi. È vero che quel documento contiene il passaggio forse più ‘problematico’ del pontificato di Francesco, perché vi si trova un’affermazione circa la volontà divina che gli uomini aderiscano a religioni diverse dalla fede cristiana che è pressoché impossibile interpretare in modo compatibile con la dottrina cattolica; tuttavia, da parte di chi è ben saldo nella certezza (scritturistica e tradizionale!) che tutti gli uomini sono chiamati a convertirsi a Cristo, perché «in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4, 12), si può benissimo citare un altro passo, del tutto innocuo, di quello stesso documento, proprio nella logica che ho cercato di descrivere. È anche in questo modo, io spero, che si realizzerà una sorta di ‘riassorbimento dell’eccezione bergogliana’ nel corpo vivo della tradizione.
Un fattore fondamentale di sicurezza, nel nuovo pontificato, sembra che in ogni caso si possa già dare per acquisito, sulla base dell’esperienza di queste prime settimane. A differenza del suo predecessore, Leone non ci darà da temere che faccia il papa ‘di testa sua’, e questo è decisivo. Lo ha chiarito sin dall’inizio, quando, richiamandosi ad una frase di Ignazio di Antiochia (ma riecheggiando riflessioni che a suo tempo aveva fatto anche Benedetto XVI), ha definito «un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità [quello di] sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato, spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo». È in questo senso che mi azzarderei a sperare che lo stile del suo pontificato sarà ‘ratzingeriano’ e ‘patristico’.