Tommaso Scandroglio, 26-04-2023
Riavvolgiamo il nastro. Mercoledì 19 aprile monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, intervenendo al Festival del giornalismo a Perugia, dichiarava che “non è da escludersi che nella nostra società sia praticabile una mediazione giuridica che consenta l’assistenza al suicidio nelle condizioni precisate dalla Sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale”, aggiungendo però che “personalmente non praticherei l’assistenza al suicidio”.
Qualche giorno fa abbiamo commentato questa ennesima uscita disastrosa di mons. Paglia sui principi non negoziabili. Come noi della Bussola, altre testate hanno mosso alcuni rilievi critici alle parole del presidente della Pav. E così la suddetta Accademia, per tutta risposta, si è sentita in dovere di emanare un comunicato stampa in cui si può leggere quanto segue: «Mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ribadisce il suo “no” nei confronti dell’eutanasia e del suicidio assistito. […] Mons. Paglia ha spiegato che a suo avviso è possibile una “mediazione giuridica” (non certo morale) nella direzione indicata dalla Sentenza, mantenendo il reato e le condizioni in cui si depenalizza, in quanto la medesima Corte Costituzionale ha chiesto al Parlamento di legiferare. Per Mons. Paglia è importante che la Sentenza affermi che il reato resta tale e non viene abolito».
Evidentemente a mons. Paglia piacciono le sabbie mobili: più si agita, più affonda. Un paio di commenti alla nota della Pav. Innanzitutto evidenziamo che mons. Paglia è contrario al suicidio assistito e nello stesso tempo è a favore di una norma che lo depenalizzi. Ora, in linea generale, si può benissimo essere contrari ad una condotta immorale e favorevoli ad una sua depenalizzazione quando il divieto giuridico e quindi la relativa sanzione apporterebbero maggiori danni al bene comune della condotta immorale stessa. Ad esempio, bene non sanzionare il tentato suicidio, non perché la vita non sia un bene collettivo da tutelare, ma perché a chi attenta alla propria vita nulla gioverebbe il carcere o una sanzione pecuniaria.
Può essere questo il caso dell’aiuto al suicidio? No. Il nostro ordinamento giuridico giustamente non sanziona il tentato suicidio, ma, almeno fino all’intervento della Consulta, sanzionava l’aiuto al suicidio perché tutte quelle condizioni di carattere psicologico, che spingono l’aspirante suicida a togliersi la vita e che fanno sì che non venga punito, non valgono per chi lo aiuta. Ecco perché, fino alla sentenza 242/2019, si puniva chi collaborava al suicidio. Dunque mons. Paglia non dovrebbe essere a favore della depenalizzazione, seppur solo in certi casi, dell’aiuto al suicidio perché è moralmente doveroso punire chi aiuta altri a togliersi la vita.
Aggiungiamo poi che l’area di depenalizzazione indicata dalla Consulta è di così ampio respiro che rimarrà esclusa da essa solo il caso di chi, fuori da un qualsiasi percorso clinico, fornirà assistenza all’aspirante suicida. Dunque, per rispondere alle ansie di mons. Paglia in merito al fatto che sarebbe necessario che il suicidio assistito rimanga qualificato come reato, solo in principio rimarrà tale. Non certo nella prassi.
Ciò detto, poniamoci una domanda: si tratta di sola depenalizzazione? No, bensì di depenalizzazione e legittimazione del suicidio assistito. La Consulta ha sì depenalizzato il reato in certe circostanze, ma la condotta depenalizzata è diventata contestualmente un diritto. Ricordiamo, citando le parole di Paglia, le condizioni indicate dalla Consulta perché l’aiuto al suicidio non debba essere più considerato reato: “La persona deve essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Inoltre, esistono altre circostanze indicate dalla Corte che fanno riferimento esplicitamente alla disciplina del consenso informato presente nella legge 219/2017, norma che ha legittimato l’eutanasia in alcune ipotesi. Si tratta di condizioni prettamente cliniche e perciò la Consulta descrive uno scenario interessato dalla legge 219/17. Ne consegue che la condotta di aiutare qualcuno a morire, così come descritta dalla Consulta, non solo cessa di essere considerata un reato, ma, dato che materialmente si tratta di un intervento medico, rientra a pieno titolo nella legge 219 e quindi, a motivo di ciò, la richiesta della persona al medico di essere aiutata a morire assurge a vero e proprio diritto, così come indicato dalla medesima legge 219.
Ergo, dirsi a favore della depenalizzazione dell’aiuto al suicidio significa, in Italia, dirsi a favore della sua legittimazione. Ma non si può mai legittimare un male morale. Dunque, l’aiuto al suicidio non solo non dovrebbe essere legalizzato, ma non dovrebbe nemmeno essere depenalizzato, perché è necessario il presidio della sanzione penale per tutelare la vita delle persone da gesti fintamente misericordiosi. La depenalizzazione attenta al bene comune e la legittimazione ancor di più.
Un ultimo appunto. Rileggiamo questa frase: «Mons. Paglia ha spiegato che a suo avviso è possibile una “mediazione giuridica” (non certo morale)». Qualsiasi intervento giuridico - pure le paglierine mediazioni giuridiche - ha carattere morale. Come nella ragione teoretica non si può uscire dal pensiero (è impossibile non pensare, se si è desti), così nella ragione pratica è impossibile uscire dalla morale, perché qualsiasi azione volontaria ha una sua moralità. Ora, le sentenze, come le leggi, sono atti umani che esprimono un fine e laddove c’è un fine c’è un bene, vero o presunto che sia, e dunque laddove c’è un bene c’è un giudizio morale. Ecco perché tutte le sentenze e le leggi di questo mondo possono essere criticate o apprezzate. Ed ecco perché la Chiesa cattolica ha sempre usato, ad esempio, la categoria concettuale delle “leggi ingiuste”.
Invece, Paglia vuole separare il diritto dalla morale, considerando il diritto avulso dal giudizio etico, una zona franca da valutazioni di valore, posizione questa ascrivibile al più puro giuspositivismo kelseniano. E così sul suicidio assistito si potrebbe mediare dal punto di vista giuridico, ma non morale. Peccato, invece, che la morale governi anche le scelte giuridiche e quando queste riguardano assoluti morali come il suicidio e l’aiuto al suicidio non esiste mediazione che tenga, proprio perché la mediazione giuridica sarebbe anche una mediazione morale.
Qualche giorno fa abbiamo commentato questa ennesima uscita disastrosa di mons. Paglia sui principi non negoziabili. Come noi della Bussola, altre testate hanno mosso alcuni rilievi critici alle parole del presidente della Pav. E così la suddetta Accademia, per tutta risposta, si è sentita in dovere di emanare un comunicato stampa in cui si può leggere quanto segue: «Mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ribadisce il suo “no” nei confronti dell’eutanasia e del suicidio assistito. […] Mons. Paglia ha spiegato che a suo avviso è possibile una “mediazione giuridica” (non certo morale) nella direzione indicata dalla Sentenza, mantenendo il reato e le condizioni in cui si depenalizza, in quanto la medesima Corte Costituzionale ha chiesto al Parlamento di legiferare. Per Mons. Paglia è importante che la Sentenza affermi che il reato resta tale e non viene abolito».
Evidentemente a mons. Paglia piacciono le sabbie mobili: più si agita, più affonda. Un paio di commenti alla nota della Pav. Innanzitutto evidenziamo che mons. Paglia è contrario al suicidio assistito e nello stesso tempo è a favore di una norma che lo depenalizzi. Ora, in linea generale, si può benissimo essere contrari ad una condotta immorale e favorevoli ad una sua depenalizzazione quando il divieto giuridico e quindi la relativa sanzione apporterebbero maggiori danni al bene comune della condotta immorale stessa. Ad esempio, bene non sanzionare il tentato suicidio, non perché la vita non sia un bene collettivo da tutelare, ma perché a chi attenta alla propria vita nulla gioverebbe il carcere o una sanzione pecuniaria.
Può essere questo il caso dell’aiuto al suicidio? No. Il nostro ordinamento giuridico giustamente non sanziona il tentato suicidio, ma, almeno fino all’intervento della Consulta, sanzionava l’aiuto al suicidio perché tutte quelle condizioni di carattere psicologico, che spingono l’aspirante suicida a togliersi la vita e che fanno sì che non venga punito, non valgono per chi lo aiuta. Ecco perché, fino alla sentenza 242/2019, si puniva chi collaborava al suicidio. Dunque mons. Paglia non dovrebbe essere a favore della depenalizzazione, seppur solo in certi casi, dell’aiuto al suicidio perché è moralmente doveroso punire chi aiuta altri a togliersi la vita.
Aggiungiamo poi che l’area di depenalizzazione indicata dalla Consulta è di così ampio respiro che rimarrà esclusa da essa solo il caso di chi, fuori da un qualsiasi percorso clinico, fornirà assistenza all’aspirante suicida. Dunque, per rispondere alle ansie di mons. Paglia in merito al fatto che sarebbe necessario che il suicidio assistito rimanga qualificato come reato, solo in principio rimarrà tale. Non certo nella prassi.
Ciò detto, poniamoci una domanda: si tratta di sola depenalizzazione? No, bensì di depenalizzazione e legittimazione del suicidio assistito. La Consulta ha sì depenalizzato il reato in certe circostanze, ma la condotta depenalizzata è diventata contestualmente un diritto. Ricordiamo, citando le parole di Paglia, le condizioni indicate dalla Consulta perché l’aiuto al suicidio non debba essere più considerato reato: “La persona deve essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Inoltre, esistono altre circostanze indicate dalla Corte che fanno riferimento esplicitamente alla disciplina del consenso informato presente nella legge 219/2017, norma che ha legittimato l’eutanasia in alcune ipotesi. Si tratta di condizioni prettamente cliniche e perciò la Consulta descrive uno scenario interessato dalla legge 219/17. Ne consegue che la condotta di aiutare qualcuno a morire, così come descritta dalla Consulta, non solo cessa di essere considerata un reato, ma, dato che materialmente si tratta di un intervento medico, rientra a pieno titolo nella legge 219 e quindi, a motivo di ciò, la richiesta della persona al medico di essere aiutata a morire assurge a vero e proprio diritto, così come indicato dalla medesima legge 219.
Ergo, dirsi a favore della depenalizzazione dell’aiuto al suicidio significa, in Italia, dirsi a favore della sua legittimazione. Ma non si può mai legittimare un male morale. Dunque, l’aiuto al suicidio non solo non dovrebbe essere legalizzato, ma non dovrebbe nemmeno essere depenalizzato, perché è necessario il presidio della sanzione penale per tutelare la vita delle persone da gesti fintamente misericordiosi. La depenalizzazione attenta al bene comune e la legittimazione ancor di più.
Un ultimo appunto. Rileggiamo questa frase: «Mons. Paglia ha spiegato che a suo avviso è possibile una “mediazione giuridica” (non certo morale)». Qualsiasi intervento giuridico - pure le paglierine mediazioni giuridiche - ha carattere morale. Come nella ragione teoretica non si può uscire dal pensiero (è impossibile non pensare, se si è desti), così nella ragione pratica è impossibile uscire dalla morale, perché qualsiasi azione volontaria ha una sua moralità. Ora, le sentenze, come le leggi, sono atti umani che esprimono un fine e laddove c’è un fine c’è un bene, vero o presunto che sia, e dunque laddove c’è un bene c’è un giudizio morale. Ecco perché tutte le sentenze e le leggi di questo mondo possono essere criticate o apprezzate. Ed ecco perché la Chiesa cattolica ha sempre usato, ad esempio, la categoria concettuale delle “leggi ingiuste”.
Invece, Paglia vuole separare il diritto dalla morale, considerando il diritto avulso dal giudizio etico, una zona franca da valutazioni di valore, posizione questa ascrivibile al più puro giuspositivismo kelseniano. E così sul suicidio assistito si potrebbe mediare dal punto di vista giuridico, ma non morale. Peccato, invece, che la morale governi anche le scelte giuridiche e quando queste riguardano assoluti morali come il suicidio e l’aiuto al suicidio non esiste mediazione che tenga, proprio perché la mediazione giuridica sarebbe anche una mediazione morale.
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