In Italia scorre un fiume di lacrime che, narrato puntualmente dalla stampa locale, non bagna quella nazionale. A piangere sono le suore contemplative italiane, le “monache di clausura”.
Già con l’esortazione Gaudete et exsultate del marzo 2018 [vedi] avevano ricevuto un avvertimento da un Papa che diceva «non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio».
Subito dopo, il colpo di grazia, arrivato il primo aprile, dal cardinale João Braz de Aviz (focolarino noto per i suoi capelli perennemente tinti di nero) e da monsignor José Rodríguez Carballo (noto per il fallimento finanziario dei francescani quando era loro generale) con l’istruzione Cor orans.
Il testo è un prolisso ukase così sgangherato nella sua presunta “giuridicità” da apparire esagerato persino per l’infelice stagione che il diritto canonico sta vivendo.
Il nocciolo del problema è la perversa intenzione di annullare l’autonomia dei monasteri.
Dal VI secolo, il mondo claustrale femminile si autodeterminava liberamente e democraticamente, con la propria Regola di vita e le Costituzioni.
Con la Cor orans (prima, con Vultum Dei quaerere [vedi] del 2016), i monasteri sono inseriti in un meccanismo burocratico fatto per umiliare e svilire quelli più “deboli”. Questi ultimi vengono svuotati dei loro risparmi, le suore disperse e gli immobili, non di rado, sottoposti a speculazioni.
In queste settimane diversi sindaci stanno difendendo le monache lamentando persino la privazione dei loro mezzi di sostentamento. E sulla stampa nazionale c’è chi sostiene che le donne stanno entrando nei processi decisionali della Chiesa. Sembra una battuta, ma le claustrali non ridono.
(Filippo Di Giacomo, Il Venerdì di Repubblica) -
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