sabato 16 luglio 2022

A proposito di sinodi. “Ogni tentativo di allineare la Chiesa al mondo aggraverà la sua distruzione





15 LUG 22

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by Aldo Maria Valli

Cari amici di Duc in altum, mi sono imbattuto in un articolo di un sacerdote francese, Padre Luc de Bellescize, e desidero proporlo a tutti. Ciò che il sacerdote spiega vale anche per noi laici. Inutile che la Chiesa cerchi le soluzioni inseguendo le idee del mondo. Il sinodo sulla sinodalità, da questo punto di vista, pur contenendo qualche spunto valido, è solo rimasticatura di un pensiero anni Settanta che è già fallito. Non è “dalla base” che viene la verità della fede, ma anzitutto dalla Rivelazione che il Signore fa del suo mistero così come ci è stato trasmesso da coloro che ci hanno portato la Parola di Vita. Ogni vera riforma non può che abbeverarsi alla fonte e ancorarsi in una maggiore fedeltà alla Parola di Cristo trasmessaci dalla Tradizione viva. Non c’è nulla da inventare. Nell’articolo, padre de Bellescize ha espressioni di stima per Francesco: in coscienza, purtroppo, non riesco a condividerle. Ma sono d’accordo quando dice che non si può sempre e solo denunciare la bruttezza: meglio rivelare la bellezza.

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di padre Luc de Bellescize

Eravamo a Notre-Dame, a Parigi, il 30 maggio 1981. Il Santo Padre aveva onorato la missione fondamentale del successore di Pietro, ricevuta dalla bocca stessa del Signore: confermare nella fede i suoi fratelli (Lc 22, 32). Dopo gli anni travagliati seguiti al Concilio, che avevano visto una significativa fuga di sacerdoti che non credevano più nella loro missione, Giovanni Paolo II aveva restituito alla Chiesa che è in Francia la consapevolezza della propria grazia, delle proprie radici profonde: è una gioia credere e dare la propria vita. Non aveva accusato la bruttezza, ma aveva rivelato la bellezza. La vocazione ultima della luce è illuminare e abbellire, non principalmente denunciare e sfigurare. La denuncia può essere solo un percorso temporaneo, che deve portare a una maggiore chiarezza e fiducia. La sua stessa presenza era fonte di pace e di consolazione. E i sacerdoti alzarono il capo. Ricordo la Gmg di Parigi del 1997, quella a Roma nel grande giubileo del Duemila, il cardinale Lustiger e la forte impressione di chiarezza dottrinale, di comprensione della fede, di benevola amicizia tra questi due uomini che guidavano la Chiesa nel nostro paese come buoni pastori.

Oscillazioni dottrinali e sfiducia latente


Senza dubbio c’erano anche ombre, tensioni e meschinità, come in tutta la vita. Lo scandalo della pedofilia di alcuni chierici covava sotto le ceneri di compromessi e silenzi colpevoli. Benedetto XVI è stato il primo ad avere la forza di denunciare risolutamente questi crimini. Il Signore lo benedica per la sua lucidità e il coraggio, perseguiti poi con determinazione da papa Francesco. Senza dubbio, come diceva Saint Exupéry, “vestiamo i morti con il loro sorriso più limpido”, ma Giovanni Paolo II era un santo, nonostante la cecità, gli errori di giudizio e la parte delle tenebre, e la sua santità ha restituito forza e vigore alle nostre mani deboli. Era ieri. Ho l’impressione, però, che fosse un altro mondo rispetto a oggi, all’odierno vacillamento dottrinale, in particolare sulla morale sessuale e familiare, e rispetto alla latente sfiducia nei confronti del nostro impegno sacerdotale e del nostro celibato consacrato.

Rileggo con commozione le parole che “l’uomo in bianco”, “l’atleta di Dio” ha pronunciato a Notre-Dame: “Per camminare con gioia e speranza nella nostra vita sacerdotale, bisogna risalire alle fonti. Non è il mondo che determina il nostro ruolo, il nostro status, la nostra identità. È Cristo Gesù; è la Chiesa (…) Siamo stati presi di mezzo agli uomini, e noi stessi rimaniamo poveri servi, ma la nostra missione di sacerdoti del Nuovo Testamento è sublime e indispensabile: è quella di Cristo, unico Mediatore e Santificatore, tale nella misura in cui richiede una totale consacrazione della nostra vita e del nostro essere. La Chiesa non potrà mai farsi mancare sacerdoti, sacerdoti santi”.


Io non sono un prete che solitamente indossa la tonaca, ho celebrato raramente la Messa di san Pio V (occasionalmente per il mio nonno lefebvriano, tornato a Dio) e mi sono adoperato per tredici anni per servire la Chiesa in missioni a volte delicate. La mia esperienza è simile a quella di tanti miei fratelli sacerdoti. La mia ammirazione va a coloro che sono i più nascosti, i più oscuri, i più silenziosi e che sopportano con coraggio il peso della giornata e del caldo.


Molte proposte del sinodo sembrano un pessimo copia-incolla degli anni Settanta


Puoi chiedere molte cose a un prete. Lavorare sempre di più, santificarsi, vegliare sulla sua condotta, convertirsi quando è infedele, morire, se necessario, come testimone di Cristo. Ma per questo ha bisogno di sapere da dove viene e quale sublime mistero porta nel fragile vaso della sua umanità: quello di perdonare i peccati nel nome del Signore, quello di abbassare il suo santissimo Corpo nelle sue povere mani. Ho letto diverse conclusioni dei lavori preparatori del sinodo sulla sinodalità. Esigono un vigile discernimento critico senza demagogia. Alcuni, costruttivi e arricchenti, vanno nella direzione di un maggiore riconoscimento del posto particolare della donna nella Chiesa, di una maggiore sollecitudine per i più fragili e di un’accoglienza generosa di coloro che si sentono esclusi dal suo Corpo.


Molte altre proposte sono però il segno di una profonda ignoranza della catechesi più fondamentale e sembrano un brutto copia-incolla degli anni Settanta, senza nemmeno approfondire le idee più contrarie all’unità bimillenaria della Tradizione che ci viene dagli apostoli.

È il caso della proposta di far predicare i laici nelle Messe, in particolare le donne, il che non tiene conto del posto particolare del sacerdote nell’unità dell’atto liturgico come rappresentante, nel senso forte del termine, nonostante la sua debolezza, di Cristo sposa della Chiesa. È anche il caso del diaconato femminile, una moda contemporanea distaccata da ogni obbedienza alla Tradizione apostolica. Ed è il caso dell’accoglienza incondizionata verso tutti – divorziati risposati, omosessuali, eccetera -, in sé lodevole, ma che non va mai di pari passo con una chiamata alla conversione, che riguarda tutti, e me in primo luogo.


È tempo di ripeterlo a coloro che rimangono in un’ideologia cieca. Il progressismo è una vecchia luna che non sopravvivrà alla sua eclissi. Le proposte “progressiste” non sono in alcun modo sostenute dai giovani ferventi che restano fedeli alle nostre comunità e che – possiamo deplorarlo – hanno partecipato molto poco al sinodo. Per Parigi, di tutti i partecipanti, solo il 14% ha tra i venti e i trentacinque anni. Senza dubbio per mancanza di interesse, per mancanza di tempo da dedicarvi, e perché le loro domande sono altrove rispetto a tavole rotonde che ai loro occhi sembrano il noioso riempimento di quaderni di lamentele, non veri impulsi entusiastici e missionari. Questo tipo di proposta non è sostenuta dai fedeli della vera “classe operaia”, come le comunità delle Indie occidentali o quelle di origine africana, che rinnovano volentieri le nostre parrocchie in una pietà gioiosa e fervente.

La verità della fede non viene dalla base, ma prima di tutto dalla rivelazione



La conclusione è semplice. Qualsiasi desiderio di allineare la Chiesa al mondo e alle sue evoluzioni contribuirà ad aggravarne la distruzione e ad indebolirne la forza. “Se il sale diventa insipido, con cosa lo saliamo?” (Mt 5,13). Il mondo finirà sempre per girare intorno per fare a pezzi coloro che cercano servilmente di adularlo. “Non vogliamo una rottura – scrive papa Francesco sulla rivista Communio – ma uno slancio spirituale. Vogliamo essere chiaroveggenti e attenti ai segni dei tempi, sapendo che non vanno confusi con lo spirito dei tempi”. Basta vedere, senza bisogno di nominarle, le regioni del Nord Europa, dove gli assi pastorali scelti da decenni hanno prodotto veri e propri deserti spirituali e un quasi totale annientamento delle vocazioni consacrate. A volte raccogliamo qualche fiore sparso nei grandi cimiteri, perché la “speranza da ragazzina” di Péguy si insinua sempre nell’ombra. Ma i risultati sono spaventosi.


Perché questo abbandono? Perché ogni vera riforma non può che abbeverarsi alla fonte e ancorarsi in una maggiore fedeltà alla Parola di Cristo trasmessaci dalla Tradizione viva. Dove sono oggi le coppie che restano vive nella Chiesa e partecipano alla sua influenza missionaria? Si trovano nelle famiglie ferventi, negli scout che hanno conservato una fede vissuta e fedele, nei giovani al confine tra rinnovamento carismatico e amore per la tradizione, anche liturgica, nei servitori spesso nascosti dell’umile carità cristiana. Tra coloro che hanno scoperto o riscoperto la fede, toccati dalla gioia di credere che questi luoghi della vita si manifestino. Non è proprio vero? “Di cosa abbiamo bisogno per compiacere quando siamo veri?” disse il martire san Giustino. C’erano 30 mila giovani scout dalla Francia a Chambord in un totale silenzio durante la Messa di Pentecoste, 15 mila fedeli in pellegrinaggio cristiano, ottomila adolescenti al Frat [pellegrinaggio voluto e guidato dai vescovi dell’Ile-de-France che riunisce per qualche giorno i giovani cattolici francesi, NdT] che in gran numero si sono confessati e hanno lodato il Signore. C’è la sorgente viva, nella diversità delle grazie e dei carismi. E abbiamo bisogno di tutti.

Tutta la vita della Chiesa è racchiusa nel mistero eucaristico. Senza Eucaristia non c’è Chiesa e senza sacerdote non c’è Eucaristia. “L’Eucaristia fa la Chiesa e la Chiesa fa l’Eucaristia” diceva il cardinale de Lubac. La Chiesa sostiene dall’alto. Per l’Altissimo che si è fatto il più basso. Non è “dalla base” che viene la verità della fede, ma anzitutto dalla Rivelazione che il Signore fa del suo mistero così come ci è stato trasmesso da coloro che ci hanno portato la Parola di Vita. Siamo nani sulle spalle di giganti. “Io stesso ho ricevuto ciò che viene dal Signore e ve l’ho trasmesso” scrive l’apostolo Paolo (1 Cor 15, 3).


Abbiamo bisogno di una parola costruttiva e benevola per il nostro sacerdozio


“Guardate la vostra dignità, fratelli sacerdoti – scriveva san Francesco d’Assisi – e siate santi perché Egli è santo. Più di tutto, per questo ministero, il Signore Iddio ti ha onorato; più di tutti, anche tu lo ami, lo veneri, lo onori. Grande miseria e miserabile debolezza se, tenendola così presente nelle tue mani, ti occupi di qualcos’altro al mondo. Il Signore è lì, in mezzo a noi, velato sotto l’apparenza del pane. “Egli è là” diceva il santo Curato d’Ars. “Il prete è qualcosa di grande”. È clericalismo questo pensiero di così grandi santi? Non sarebbero condannati oggi in una Chiesa che sembra dubitare di se stessa e del mistero sublime che porta in sé? Perché sentiamo costantemente che il “clericalismo” è il grande pericolo nella vita della Chiesa? Abbiamo sempre meno sacerdoti in Francia, le vocazioni sono a mezz’asta e sventoliamo il fantasma del clericalismo come uno spaventapasseri. Sarebbe meglio rendere il sacerdote più consapevole della grazia straordinaria che porta dentro di sé piuttosto che accusare lui del potere monopolista. Laddove un sacerdote è veramente un uomo di Dio, un servo del Signore tra gli uomini, dove acconsente profondamente al mistero che si dispiega nella sua debolezza, non sarà tentato di giustificare il dispotismo con l’argomento del sacro. Il grande pericolo per la Chiesa è la mondanità, che consiste nell’offuscare verità eterne e nel lasciarsi guidare dallo spirito del tempo. Lo Spirito Santo soffia raramente assieme ai tempi. L’unico vero pericolo è dimenticare l’obbedienza della fede a Dio che si rivela e la fedeltà ai nostri padri.


“Vieni e bevi alla fonte nascosta”, diceva santa Teresa Benedetta della Croce. Siamo del sangue di martiri e grandi testimoni della fede. Qualsiasi riforma che non si immerga in questa fonte di vita non porterà i frutti sperati. Qualsiasi riforma che pretenda di rinnovare la Chiesa con un “grande balzo in avanti” staccato da questa fonte non può che farle perdere il suo sale e la sua luce. Così possiamo ripetere ai nostri vescovi, e al nostro Santo Padre, che siamo qui, che li amiamo “con rispetto e obbedienza” come abbiamo promesso alla nostra ordinazione, e che non lasceremo mai la nave, come obbedienti figli della Chiesa. Ma che abbiamo bisogno per il nostro sacerdozio di una parola “costruttiva e benevola” (Ef 4,29), abbiamo bisogno di padri attenti che ci rafforzino nella fede in mezzo alle prove della nostra vita sacerdotale, per rimanere, o per ritrovare, per molti di noi, la gioia di aver dato tutto per la Chiesa nostra Madre, per la gloria di Dio e la salvezza del mondo.


Fonte: famillechretienne.fr









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