I Magi che con l’oro in dono rovinano il progetto di una Chiesa dei poveri, e il fermo rifiuto di Giuseppe. Così colui che divenne il cardinale Biffi volle riscrivere ironicamente anche i fatti dell’Epifania per denunciare l’ecclesialmente corretto.
La situazione della Chiesa attuale non sembra molto diversa da quella turbolenta di fine anni ’60, quando quello che poi diventò il cardinale Giacomo Biffi, scrisse “Il quinto evangelo”, una rivisitazione ironica del politicamente corretto ecclesiale, che usa come espediente letterario la scoperta di un manoscritto in Terrasanta fatta durante un viaggio dal commendator Giuseppe Migliavacca, parrocchiano dello stesso Biffi. Frammenti che correggono i vangeli canonici dando al vangelo una lettura più aderente ai tempi correnti. Ne proponiamo un brano che si riferisce proprio alla festività dell’Epifania.
di Giacomo card. Biffi
«Prostratisi, lo adorarono. Poi aperti i loro scrigni, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Ma disse Giuseppe: “L’oro non lo possiamo accettare, perché è segno di ricchezza e contamina chi lo dà e chi lo riceve”» (Frammento 1 del Quinto Evangelo scoperto dal comm. Migliavacca).
«Prostrati lo adorarono. Poi aperti i loro scrigni gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» (Vangelo canonico secondo Matteo 2, 11).
L’episodio dei magi ci descrive la vicenda spirituale degli uomini di cultura, che, persi nella contemplazione delle loro chimere e attardati dalla selva intricata dei loro ragionamenti, arrivano a Betlemme in ritardo su tutti, a spettacolo finito. Però ci arrivano, perché nella capanna c’è posto per tutti, perfino per qualche intellettuale. Anche questo evangelo – come quello di Matteo – tace degli altri Magi, che partiti al seguito della stella sbagliata giunsero chi alla reggia del celeste impero, chi dal Negus degli Etiopi e persero così l’occasione di passare alla storia.
Distratti, scombinati, pronti sempre sul terreno pratico ad ogni balordaggine, scelgono per il re dei Giudei i regali meno opportuni. Intanto l’offerta della mirra – che serviva per il trattamento dei cadaveri – era di pessimo gusto per un neonato: non si va a suscitare pensieri di morte laddove è appena sbocciata la vita.
L’incenso poi, avviando l’uso nel cristianesimo di questa materia propria delle corti e dei templi orientali, ha segnato l’inizio del trionfalismo liturgico ed ecclesiastico, che tutti deprechiamo.
Ma con l’oro questi goffi personaggi hanno superato ogni limite prevedibile. Come? Il Figlio di Dio vede la luce in una stalla, si circonda di caprari e di vaccari, volendo in tal modo manifestare la sua volontà di fondare la Chiesa dei poveri, ed ecco che arrivano questi signori a contaminare con la loro ricchezza la pura austerità del quadro. Sotto lo sguardo sbigottito dell’asino e del bue, trovava il suo principio la Chiesa costantiniana. È mai possibile che questa Chiesa costantiniana nascesse senza contestazioni? Stando a Matteo sembrerebbe quasi che l’oro – emblema e fonte di ogni corruzione – fosse stato tranquillamente accettato dalla sacra famiglia. Ma qui veniamo a sapere come si sono svolti veramente i fatti: Giuseppe, uomo taciturno e rude, con dignità e calma, ma con estrema fermezza esprime il suo dissenso, enunciandone la ragione profonda: laddove c’è oro, non ci può essere né Cristo né la Chiesa di Cristo.
Il frammento è tanto più significativo in quanto ci riferisce la sola frase del falegname di Nazaret di cui abbiamo notizia: poche parole che valgono interi decreti conciliari. E i Magi, con l’inconsapevolezza giuliva dei professori quando si avventurano nel mondo degli uomini, se ne ritornarono per un’altra strada, senza avere neppure il sospetto dei guai che avevano causato alla storia universale.
(Il quinto evangelo, 11a ed., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2012, pp. 21-22)
(fonte: lanuovabq.it)
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