Per il beato cardinale inglese coscienza non significa autodeterminazione contro le esigenze della verità, ma la voce percepibile e imperativa della verità nel soggetto stesso
gennaio 22, 2017 Hermann Geissler
Articolo tratto dall’Osservatore Romano – A John Henry Newman ed Edith Stein è dedicato il convegno “Maestri perché testimoni” che si svolge dal 19 al 20 gennaio al campus dell’Istituto universitario salesiano di Venezia-Mestre.
Newman e Stein, nati in contesti religiosi diversi (la Chiesa d’Inghilterra di inizio Ottocento e il mondo ebraico mitteleuropeo del Novecento) hanno impegnato la loro vita in una suprema sintesi di rigorosa ricerca filosofica, fede e sequela evangelica.
«Purtroppo – chiosa Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz nel suo intervento – non esistono, a prescindere dalle traduzioni, pensieri esplicitamente elaborati da Edith Stein su Newman, ma la scelta fatta nelle Briefe und Tagebücher vor der Konversion è eloquente. Nell’immediato contesto della conversione di Newman, Stein traduce ad esempio il doloroso addio a sua sorella Jemima, il 15 marzo 1845: “Rattristo tutti quelli che amo, rendo inquieti tutti quelli che ho istruito o sostenuto. Vado da uomini che non conosco e dai quali mi aspetto molto poco. Faccio di me stesso un reietto, e ciò alla mia età. Che cosa può spingermi a questo, se non una severa necessità?”. Theo Gunckel, l’oratoriano di Leipzig, riassumeva questo tono malinconico della traduzione delle lettere da parte di Stein in modo commovente: “Abbandona il tuo popolo e la casa di tuo padre e va’ in terra straniera”. Ciò permette di intuire un’immagine speculare della giovane convertita all’ombra del grande predecessore».
Nel necrologio in memoria di Joseph Schwind, suo direttore spirituale, viene citata di nuovo una frase del cardinale Newman: «È relativamente facile sviluppare in sé un lato della vita cristiana, severità o clemenza, serietà o allegria, ma la vera perfezione cristiana si mostra solo nell’unione di virtù contrapposte».
Pubblichiamo l’intervento di Hermann Geissler*.
La riduzione dell’uomo alla sua soggettività non lo rende libero, ma schiavo dell’opinione pubblica. Chi parifica la coscienza con la convinzione superficiale la identifica con una sicurezza solo apparentemente razionale, tessuta in realtà di presunzione, conformismo e pigrizia; la degrada non raramente a meccanismo di assoluzione e ignora che essa rappresenta la trasparenza del soggetto al Divino. La riduzione della coscienza a certezza soggettiva è allo stesso tempo «sottrazione della verità», lasciando la persona sola in mezzo a «un deserto senza strade».
Quasi 150 anni fa, John Henry Newman aveva già denunciato questa interpretazione soggettivistica e immanentistica della coscienza, scrivendo nella sua famosa Lettera al Duca di Norfolk (1874):
«Quando gli uomini si appellano ai diritti della coscienza, non intendono assolutamente i diritti del Creatore, né il dovere che, tanto nel pensiero come nell’azione, la creatura ha verso di Lui. Essi intendono il diritto di pensare, parlare, scrivere e agire secondo il proprio giudizio e il proprio umore senza darsi alcun pensiero di Dio… La coscienza ha diritti perché ha doveri; ma al giorno d’oggi, per una buona parte della gente, il diritto e la libertà di coscienza consistono proprio nello sbarazzarsi della coscienza, nell’ignorare il Legislatore e Giudice, nell’essere indipendente da obblighi che non si vedono. Consiste nella libertà di abbracciare o meno una religione… La coscienza è una severa consigliera, ma in questo secolo è stata rimpiazzata da una contraffazione, di cui i diciotto secoli passati non avevano mai sentito parlare o dalla quale, se ne avessero sentito, non si sarebbero mai lasciati ingannare: è il diritto ad agire a proprio piacimento».Queste parole rivestono tuttora un’attualità sorprendente: oggi la coscienza è spesso confusa con l’opinione personale, il sentimento soggettivo, il proprio piacimento. Per molti non significa più la responsabilità della creatura nei confronti del Creatore, ma la totale indipendenza, l’assoluta autonomia, la pura soggettività. Il santuario della coscienza è stato “desacralizzato”. La responsabilità nei confronti del Creatore è stata bandita dalla coscienza.
Le conseguenze di questa visione deformata della coscienza ci stanno davanti agli occhi: emancipandosi dalla responsabilità nei confronti del Creatore, infatti, l’uomo tende a segregarsi anche dal prossimo. Vive nel piccolo mondo del proprio io, spesso senza prendersi cura dell’altro, senza interessarsi dell’altro, senza sentirsi corresponsabile per l’altro. Il puro individualismo e la ricerca illimitata del piacere e del potere oscurano il mondo e rendono sempre più difficile la convivenza pacifica tra gli uomini. Pur vedendo in modo realistico tutte queste sfide, non dobbiamo tuttavia cedere alla tentazione del pessimismo. Le intuizioni di John Henry Newman, infatti, possono aiutarci a trovare delle risposte adeguate.
In Newman, il soggetto trova un’attenzione che nella teologia cattolica non aveva più conosciuto forse dal tempo di Agostino. Per il teologo inglese, tuttavia, non c’è opposizione tra la centralità del concetto di coscienza e la centralità del concetto di verità. Coscienza non significa per lui autodeterminazione del soggetto contro le esigenze della verità, ma la presenza percepibile e imperativa della voce della verità nel soggetto stesso. Il suo cammino personale ne costituisce una testimonianza eloquente.
Paolo VI, pieno di ammirazione e di stupore, disse di Newman nel Discorso ai pellegrini convenuti per la beatificazione di Domenico della Madre di Dio, del 27 ottobre 1963: «Guidato solo dall’amore alla verità e dalla fedeltà a Cristo, ha tracciato un cammino, il più impegnativo, ma anche il più grande, il più significativo, il più risolutivo che il pensiero umano ha mai intrapreso durante il secolo scorso, anzi si potrebbe dire durante il tempo moderno, per arrivare alla pienezza della sapienza e della pace».
Questo cammino è stato un cammino di coscienza, come vorrei mostrare in due momenti cruciali della sua vita: nella sua prima conversione e nel suo passaggio alla Chiesa cattolica. Il giovane John Henry crebbe in un ambiente anglicano normale. Pur leggendo la Bibbia e coltivando una certa forma di religiosità, non ebbe una solida fede personale in Dio. Scrisse nel suo Diario: «Mi ricordo del 1815; pensavo allora d’aver più desiderio di virtù che di pietà; c’era in questa qualcosa che non mi andava. E il fatto d’amare Dio non aveva per me alcun senso». Il giovane, quindi, si trovò nella tentazione di mirare ad alti ideali etici, ma di rigettare la fede in Dio. Nel 1816, in mezzo a questa lotta interiore, nel suo cuore avvenne un grande cambiamento.
Newman aveva trovato la realtà di Dio nel suo intimo, nella sua coscienza. Di conseguenza, cercò di seguire la via della perfezione. Scelse in quel tempo come motto per la sua vita le due frasi «La santità piuttosto che la pace» e «La crescita è la sola espressione di vita». Questa ricerca di perfezione, tuttavia, non fu un ripiegamento su se stesso, ma — al contrario — fu un’apertura verso il Dio personale che aveva parlato alla sua coscienza e gli aveva rivelato la sua trascendenza e vicinanza. Newman, quindi, cercò di lasciarsi guidare da quella voce interiore nella quale percepiva l’eco della voce dell’Invisibile, che è più reale del visibile.
*direttore del Centro internazionale Amici di Newman
Il beato cardinal Newman su coscienza e verità | Tempi.it
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