Intervista a Luigi Martinelli, che ha provato a superare le dispute liturgiche seguite al motu proprio di Benedetto XVI analizzando le due forme del rito romano (ordinaria e straordinaria) come “performance”.
Analizzare la ritualità cattolica comparando sinotticamente la celebrazione della Santa Messa secondo le due forme del rito romano: straordinaria e ordinaria. Come? Seguendo lo schema di una “critica teatrale”, prendendo quindi in esame gli aspetti esteriori e percepibili della liturgia.
Esattamente come farebbe un esperto regista teatrale, il quale, dal banco di una chiesa invece che dal più usuale golfo mistico, assistendo alle due forme del rito, analizzasse criticamente ciò che vede, che ascolta, che avverte: ciò che gli parla. Un’analisi che, tra l’altro, provenendo da un professionista a digiuno di dispute liturgiche, si rivelerebbe depotenziata dall’estenuante dibattito sul tema; felicemente “neutra”.
Questo è il geniale punto di vista del saggio di Luigi Martinelli, giovane studioso bresciano di teatro e cristianesimo (Le forme del sacro. La performance nel rito romano, Cavinato Editore, Brescia, 2015). Un libro che piacerebbe a Benedetto XVI, e non solo certo perché impreziosito dalla prefazione di quel monsignor Nicola Bux (autore di saggi di successo nonché professore di liturgia comparata, teologia orientale e sacramentaria presso la Facoltà teologica di Bari) che il papa emerito volle fortissimamente con sé come consultore dell’ufficio delle celebrazioni liturgiche pontificie.
Martinelli, se scrivessimo che lei ha voluto indagare “l’efficacia” del rito in quanto performance, avremmo centrato il tema del suo saggio?
Direi proprio di sì. Se il saggio si inserisce idealmente nella discussione sulle forme del rito romano sviluppatasi in seguito alla pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI, la specifica indagine del mio studio si muove applicando allo studio delle forme del rito cattolico gli strumenti di analisi messi a punto nel campo dell’antropologia della performance da maestri quali Victor Turner e Richard Schechner. Qualsiasi forma di rito, infatti, è anche “performance”, vale a dire azione concertata di natura relazionale in un contesto comunitario. Per questo motivo, proprio uno studio degli aspetti performativi di un rito può contribuire ad indagarne a fondo l’efficacia, in relazione ai presupposti e agli obiettivi dichiarati.
Lei tratta il tema della liturgia da un punto di vista assolutamente inusuale, quello del teatro e della performance. Come si può trovare il punto di contatto tra un elemento profano come il teatro e uno sacro come la liturgia?
Mi rendo conto che parlando di liturgia i riferimenti teatrali possono apparire stranianti, tuttavia va ricordato come, storicamente, il teatro nasce e si sviluppa proprio all’interno della tradizione rituale religiosa, per cui i meccanismi che stanno alla base dell’azione teatrale e dell’azione rituale religiosa sono per certi versi simili. Quando nel libro parlo di teatro, poi, non lo intendo in senso né in professionistico, né borghese e né spettacolare, ma come attività rappresentativa primordiale che per essere agita richiede un determinato uso del corpo, una disciplina del gesto, del movimento e dell’azione, un’arte del fare e del dire, proprio ciò che è richiesto in un rito, ed è proprio su questi elementi che il mondo del rito e del teatro si avvicinano e si comparano.
Nel suo libro lei fa riferimento ad un preciso momento della storia del teatro, quello del Novecento. Come mai?
Il riferimento non è casuale, poiché i teorici teatrali del XX secolo sono proprio coloro che per ritrovare le specificità dell’azione teatrale, messa in crisi da altri strumenti di rappresentazione come il cinema o la televisione, hanno attinto a piene mani dal grande mondo del rito e della ritualità, rifondando il teatro su valori performativi universali: il corpo, la voce, lo spazio, il movimento, l’attore/performer, la relazione tra pubblico e attori/performer. E questi valori sono comuni all’esperienza teatrale e all’esperienza rituale e concorrono a costituire l’azione performativa ovvero un’insieme compiuto di azioni corporee, visibili ed efficaci che, legate tra loro, fluiscono ordinatamente per esprimere un determinato concetto. È proprio sul terreno dell’attività performativa che si può giocare efficacemente il confronto tra rito e teatro. In definitiva nel libro prendo in considerazione la performance corporea come un campo assolutamente neutro, entro il quale è possibile tessere delle comparazioni in qualche modo “pacifiche”, al di là quindi delle usuali posizioni tradizionaliste-progressiste. Lo scopo ultimo, d’altronde, è quello di offrire indicazioni per uscire dalla crisi liturgica contemporanea, valorizzare l’esperienza della preghiera rituale per fare della liturgia un luogo di incontro vivo tra l’umano e il divino.
Nel suo libro si sofferma diffusamente sull’analisi della liturgia nella forma straordinaria del rito romano indicandola come esempio da seguire. Pur avendo lei evidenziato i punti di forza e le criticità di entrambe le forme, nel confronto sinottico col rito ordinario il “Vetus Ordo Missae” sembra vincere abbastanza nettamente. Cosa può comunicare all’uomo di oggi un rito così antico?
Mi soffermo sulla liturgia romana antica proprio perché in essa ha un ruolo fondamentale la performance corporea e sensoriale che comunica efficacemente all’uomo il contenuto essenziale della fede che viene celebrata. Essa manifesta il senso del sacro sfiorando la sensibilità fisica dell’uomo con l’ausilio di azioni esteriori efficaci come la sapiente disposizione del silenzio “attivo” nelle parti centrali del rito; l’importanza accordata ad un certo tipo di canto, quello gregoriano, e alla musica solistica che accompagna il raccoglimento; la parola viva della lingua sacra che emancipa la parola dall’urgenza di significare rilanciando il valore della vocalità; l’importanza riservata alle azioni, ai gesti, alle posture; l’orientamento spaziale e la verticalità. Tutto è costruito attorno ad elementi performativi in grado di generare realtà ed esperienza. Il rito romano antico è un agglomerato di elementi rituali «esoterici», ovvero quelli che non si rivolgono primariamente alla sfera razionale, ma alla percezione sensibile che trascende la ragione umana. Non è una liturgia di sole parole, concettuale, non è un semplice fare memoria, non è un guardare in modo distante per soddisfare il gusto estetico, ma un’esperienza concreta di realtà, una liturgia che interpella la sensorialità umana coinvolgendo il tutt’uno corpo-mente-anima nella celebrazione dei Santi Misteri.
Come mai, secondo le sue ricerche, la liturgia nella forma ordinaria del rito romano non riesce ad esprimere appieno il senso del sacro?
La riforma liturgica ha riformato un rito soffermandosi quasi esclusivamente sul legòmenon, ovvero sulle parole, i testi, le traduzioni, le semplificazioni linguistiche e comunicative, al fine di educare ed istruire le coscienze dei fedeli attraverso la comprensione intellettiva. Si è operato secondo l’atteggiamento moderno di svalutazione del rituale, spostando l’attenzione dal suo potere emotivo al suo significato, nell’illusione che comprendere un rito sia equivalente a viverlo. Questa deriva razionalistica e logocentrica della liturgia, ha ridimensionato l’importanza del corpo e della corporeità, del valore dei sensi e della sensibilità nell’atto comunicativo ed espressivo. Infatti la forma ordinaria è contraddistinta dall’uso della lingua parlata che ha accresciuto la verbosità; dal ridimensionamento del silenzio; dalla riduzione della performance fisica, della formalità e della ripetitività dei gesti; dall’affioramento della comunità come soggetto della celebrazione favorito dal copioso utilizzo del canto comunitario; da una diversa disposizione dello spazio al fine di favorire la conversazione umana orizzontale. Così da una liturgia del corpo, come quella antica, si è passati ad una liturgia della testa. Pertanto, nella forma ordinaria, vi è una predominanza dei testi proclamati o recitati a scapito della performance corporea, del potere dell’azione, del gesto, del movimento, del suono, in altre parole si è accantonata la ri-presentazione performativa. L’insieme di tutti questi fattori ha determinato la predominanza del contenuto sulla forma, dunque la liturgia ne risulta indebolita, con una conseguente perdita del senso del sacro.
Se è vero che «ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso» (così Benedetto XVI nella lettera di presentazione del motu proprio “Summorum pontificum”) non le sembra che oggi, realisticamente, la convivenza delle due forme del rito romano possa concorrere a dividere maggiormente una comunità ecclesiale già per tanti aspetti composita e discordante?
Secondo me questo rischio non esiste. Io, come tantissime altre persone, frequento senza problemi sia l’una che l’altra forma. Anzi, una maggiore diffusione del biformalismo rituale può certamente rappresentare una ricchezza spirituale. In particolare, la convivenza della forma straordinaria accanto a quella ordinaria può essere molto positiva per quest’ultima: è auspicabile procedere sulla strada del confronto e dell’osmotico arricchimento dell’antico sul nuovo, recuperando tutti quegli elementi rituali tradizionali che consentiranno anche alla liturgia postconciliare di porsi maggiormente come tangibile esperienza di fede e di sensibile incontro con Dio.
Che direbbe Papa Francesco in proposito?
Molto probabilmente sarebbe d’accordo. La convivenza parallela delle due forme del rito romano, d’altronde, dovrebbe essere la normalità in una Chiesa aperta, inclusiva, “in uscita”, in cui c’è spazio per tutti.
FONTE: tempi.it
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