mercoledì 30 marzo 2016

Anima immortale o resurrezione dei morti? Et-et, cioè tutte e due





“Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10, 28).



di Carla D’Agostino Ungaretti
L’esortazione rivoltaci da Gesù, nel Discorso Apostolico secondo Matteo, è piena di significati e di conseguenze sui quali l’umanità dovrebbe seriamente tornare a riflettere, soprattutto in questa travagliata epoca che ha determinato il trionfo del materialismo e l’affievolimento (per non dire la totale scomparsa) del senso del peccato[1]. Due sono i punti salienti di quell’esortazione: da un lato, l’immortalità dell’anima e da un altro, l’esistenza del demonio e dell’inferno. In questa mia riflessione, non certo da teologa o da esegeta ma da cattolica “bambina”, mi soffermerò sul primo dei due problemi, rimandando il secondo a un’occasione futura, sempre Deo favente.

Con il termine “anima” si intende comunemente l’elemento spirituale dell’uomo che, a differenza di quello corporeo, non conoscerebbe l’esperienza della morte. È un tema particolarmente coinvolgente, oltre che affascinante, perché è strettamente connesso con quello che ciascuno di noi immagina sia il nostro destino escatologico. Che cosa ci aspetta dopo la morte fisica? L’annientamento eterno, indistinto e inconsapevole, un sonno profondo dal quale non ci sarà risveglio, come sostengono i materialisti e i laicisti più sfegatati (e in questo caso non dobbiamo aspettarci nulla, perché saremo completamente incoscienti), ovvero la sopravvivenza di quella componente totalmente immateriale del nostro essere che i credenti chiamano “anima” e i non credenti “mente”, anche se i due termini non sono esattamente sinonimi? E se c’è una sopravvivenza, ci aspetta il premio per la nostra vita virtuosa e la nostra fedeltà a Dio o il castigo eterno per i nostri peccati? Il problema è enorme e non può essere liquidato tanto facilmente non pensandoci mai come fanno molti, perché allora ci accomuneremmo agli animali[2].

Lo studio dell’anima è affascinante, come dicevo poc’anzi, non solo per l’ “homo religiosus”, ma anche per l’antropologo, perché gli consente di studiare le modalità con le quali l’essere umano di tutti i tempi e di tutte le latitudini ha immaginato il suo destino dopo la morte, segno che l’aspirazione a una qualche forma di immortalità è sempre stata presente nel cuore e nella mente degli uomini. Infatti tutte le civiltà e tutte le religioni ritengono che “qualche cosa” dell’essere umano sopravviva dopo la morte fisica.

Le neuroscienze moderne però creano alcuni problemi al riguardo e pretendono, senza peraltro riuscirci, di trovare soluzioni totalmente materialistiche. Secondo Edoardo Boncinelli, un primo e più naturale significato del termine “anima” sarebbe “una sorta di energia vitale e di principio organizzatore che permea gli esseri viventi, ne sostiene l’attività e ne coordina le funzioni”[3] .

Inoltre egli riporta, condividendola, l’opinione di F. Crick, secondo il quale la parte più immateriale e, innegabilmente, spirituale dell’uomo sarebbe da identificare con la capacità di tradurre un impulso elettrico nel suo significato. La mente – termine che molti preferiscono usare invece di “anima” – trasformerebbe qualcosa di implicito (neurostato) in qualcosa di esplicito(psicostato). Il passaggio da uno stato all’altro è detto “binding”, ma Boncinelli riconosce onestamente che gli scienziati non sanno che cosa sia esattamente, né come avvenga quel passaggio. Se esso si identifica con una presa di coscienza collettiva e può essere interpretato come capacità di dare un significato, allora si può pensare che esso abbia a che fare con la capacità linguistica dell’uomo. Boncinelli distingue l’autocoscienza, cioè la capacità dell’uomo di raccontare in parole quello che sta vivendo, dalla coscienza fenomenica, di carattere cognitivo – affettivo che si fa fatica a comunicare adeguatamente. Poiché il potersi esprimere implica capacità di progettazione e azione, tale capacità secondo lui sarebbe la caratteristica dell’autocoscienza[4].

“Sarà … !” commenta, certamente non persuasa, la vostra amica cattolica “bambina”. Ma piuttosto si domanda: “Chi ha “progettato e instillato” nel cervello umano quell’ “energia vitale, o principio organizzatore” che gli scienziati non sono neppure riusciti a capire come funzioni e, tanto meno, riuscirebbero a fabbricare in laboratorio, se non Qualcuno la cui intelligenza trascende enormemente le capacità umane?” A questa domanda gli scienziati non rispondono.

Ma come è stato trattato nei secoli il problema dell’anima e dello spirito – termini che io, invece, preferisco usare – di quelle parti, cioè, impalpabili della persona umana che non si vedono ma che è impossibile negare, perché sono sempre stati capaci di produrre effetti straordinari e, loro sì, ben visibili?[5] Al tempo, ormai purtroppo lontano, del mio liceo classico – frequentato come usava una volta, ossia sul serio, e non secondo la deleteria moda post sessantottina – la filosofia greca mi aveva particolarmente appassionato. Infatti, avendo io ricevuto una rigorosa educazione cattolica basata sul Catechismo di S. Pio X – fatto come tutti sanno di domande e risposte, facilissime da memorizzare, che mi aveva insegnato come, dopo la morte, l’anima non muore col corpo, ma va in Paradiso o all’inferno – inizialmente avevo trovato nei grandi filosofi greci, e soprattutto in Platone, una straordinaria assonanza con il messaggio cristiano, come se Dio avesse instillato in quella grande mente, una sorta di anteprima di quella Parola che sarebbe stata pronunciata secoli dopo.

E infatti un po’ è avvenuto davvero così, anche se soltanto un po’: infatti già Platone, nel Fedone, aveva intuito che l’anima è razionale, spirituale e immortale, tanto che la filosofia patristica aveva trovato nella sua dottrina una straordinaria armonia con la frase di Gesù che ho citato in epigrafe. Ma più tardi, progredendo negli studi e nel cammino di fede, ho capito che le cose non stanno esattamente in questi termini, o meglio l’anima è, sì, immortale, ma è tale perché così Dio, creandola, l’ha voluta e non già perché essa vive, eterna ed increata, nel Mondo delle Idee ed esce dalla sostanza di Dio per entrare in un corpo, come credeva Platone. Secondo lui, filosofo per molti versi affascinante a causa delle poetiche immagini mitologiche di cui si serve per illustrare il suo pensiero, essendo l’anima totalmente distinta dal corpo, l’uomo non può essere costituito da corpo e anima insieme, ma “è” l’anima, e solo quando morendo si sbarazza del corpo, egli può godere del suo destino immortale.

Invece, a differenza di Platone, secondo il pensiero ebraico dell’Antico Testamento Dio crea l’anima dal nulla, ed essa forma un tutt’uno con il corpo. Nell’Antico Testamento non esiste alcuna forma di dualismo tra anima e corpo, infatti sappiamo che per gli antichi Patriarchi l’idea di immortalità e di premio dopo la morte coincideva con la speranza di avere una lunga discendenza. Disse il Signore ad Abramo: “Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande … Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”. E soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”. Egli credette al Signore che glielo accreditò come giustizia” (Gen 15, 1 ss). Perciò in Abramo, nei Patriarchi e nei libri successivi alla Genesi non si rintraccia una chiara visione della sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Anzi: “Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità … tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna alla polvere” , afferma il Qoèlet (Eccle 3, 20)[6] , ma ciò non significa che esso riveli una sorta di antropologia materialistica, perché l’uomo è anche spirito (in ebraico “ruah”). Dio solo è la fonte della vita e l’uomo vive perché ha ricevuto da Lui il soffio vitale, grazie al quale è capace di entrare in relazione con Lui. Ma il termine più usato nella Scrittura è il “cuore”, sede dei sentimenti e dei pensieri, sede della vita, parte del cervello, fattore di unità dell’uomo .“Allevia le angosce del mio cuore / liberami dagli affanni” implora il Salmo 25, 17 .

Ricordo che al liceo il mio professore di filosofia faceva notare ai suoi allievi il diverso atteggiamento di Socrate e di Gesù di fronte alla morte. Socrate, secondo Platone, bevve la cicuta deliberatamente e serenamente perché per lui la morte significava liberazione dalla prigionia del corpo; invece Gesù, vero uomo oltre che vero Dio, ebbe paura della morte, come ce l’hanno tutti gli uomini di questo mondo. Giunto al Getsemani, “cominciò a sentire paura e angoscia … e diceva: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”. (Mc 14, 34). “Egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte … ” (Eb 5, 7). Infatti la morte è un evento orribile perché è la conseguenza del peccato, cioè della disobbedienza volontaria a Dio, pericolo dal quale Dio stesso aveva chiaramente messo in guardia Adamo ed Eva (Gen 2, 17). Il peccato, perciò, ha provocato la morte, cioè la separazione eterna dal Padre che invece è il Dio della Vita. Gesù accetta la morte solo perché in essa riconosce la volontà del Padre per la redenzione dell’uomo[7]; perciò i cristiani tengono ben distinto il concetto dell’immortalità dell’anima, tipico della filosofia greca, da quello della resurrezione dei morti che, rispetto al primo, per opera di S. Paolo, rappresenta un notevole passo avanti.

Anche Paolo, nelle lettere, rivela una visione unitaria dell’uomo che sarebbe composto addirittura da tre elementi: spirito, anima, corpo (1Ts 5, 23). L’unica opposizione che egli esprime è tra quella tra “sarx” (carne), con significato negativo indicante la parte istintuale e passionale dell’uomo, e “soma” (corpo), indicante l’uomo tutto intero, luogo in cui interagiscono la parte materiale e quella spirituale. Nella visione paolina l’uomo è un corpo animato o un’anima in quanto corpo: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente , santo e gradito a Dio” (Rm 12, 1). Ma il corpo, che è composto di carne e anima insieme, vive in conflitto con lo spirito. Lo spirito spinge l’uomo verso Dio, ma il corpo sente la tentazione della carne: “Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste” (Gal 5, 16, 17). Ma come mai avviene tutto questo, dato che siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio? Perché la vita dell’uomo è stata contagiata per sempre dal peccato originale e può guarire e tornare all’originaria comunione con Lui non liberandosi del corpo (come diceva Platone), né con l’osservanza della legge (come nell’Antico Testamento) e tanto meno con le sue sole forze – come sostenevano la gnosi e l’eretico Pelagio, la cui dottrina fu dimostrata totalmente errata sia teologicamente che filosoficamente da S. Agostino – ma solo per i meriti dell’incarnazione, morte e resurrezione di Gesù Cristo.

Ciò nonostante, l’uomo rimane libero di peccare perché in lui rimane sempre la tendenza a soddisfare la carne; perciò la vera liberazione, secondo Paolo, non avverrà dal corpo (come diceva Platone) ma sarà la liberazione del corpo, tutto intero, da ciò che gli impedisce di diventare spirituale, e dalla morte, che è la più temibile conseguenza del peccato. Infatti l’aspetto qualificante del Nuovo Testamento non è l’immortalità dell’anima – sulla quale non si discute perché, come ha detto Gesù, non può essere uccisa – ma la resurrezione dei corpi.

La visione biblica e patristica dell’uomo presenta di lui una visione unitaria: l’anima conferisce una dimensione all’uomo tutto intero ed è l’uomo tutto intero ad essere redento e salvato nella vita nuova donatagli da Dio attraverso Cristo. Paolo stesso constatò di persona la differenza culturale con l’ellenismo quando si presentò davanti ai colti e smaliziati Ateniesi dell’Areopago per parlare loro della Resurrezione di Cristo: “Ti sentiremo su questo un’altra volta” gli risposero i più educati, mentre altri lo derisero, “ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti fra questi anche Dionigi membro dell’Areopago e una donna di nome Damaris” (At 17, 34). Le donne, a cominciare da Maria di Nazareth e da sua cugina Elisabetta, sono sempre state più ricettive degli uomini alla Parola di Dio.
Il Simbolo Apostolico, professione di fede dell’inizio del III secolo, parla di “resurrezione della carne”, mentre il Simbolo Niceno – Costantinopolitano – che recitiamo ogni domenica durante la S. Messa ed è una rielaborazione del primo per opera del Concilio di Costantinopoli del 381- preferisce l’espressione, più completa, “resurrezione dei morti” a significare, cioè, l’uomo tutto intero, composto di anima e di corpo. Infatti nella resurrezione la creazione intera viene ricondotta, per intervento divino, a un nuovo progetto cosmico, nel senso etimologico greco di “ordine”, “armonia”. “La creazione stessa … nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio … tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto … anche noi, che possediamo le primizie dello spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. (Rm 8, 22 ss)[8] .

Allora crolleranno le limitazioni dello spazio e del tempo nelle quali ora viviamo immersi, saremo come apparve Gesù ai discepoli lo stesso giorno della Resurrezione “mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano”, come fu visto da Tommaso otto giorni dopo, sempre “a porte chiuse”(Gv 20, 19- 26) e vedremo Dio faccia a faccia.

E che ne è dell’anima dopo la nostra morte e finché il resto dell’umanità è ancora immersa nelle dimensioni dello spazio e del tempo? Se l’anima è immortale, come ha detto Gesù, non possiamo credere che muoia anch’essa, così come muore fisicamente il corpo, in attesa di risorgere con esso alla fine dei tempi. La Chiesa ha sempre impegnato la sua autorità di “Mater et Magistra” nell’insegnarci che le anime dei grandi Santi, che in duemila anni di storia hanno vissuto e operato nel solco tracciato dalla Parola di Dio osservandola in grado eroico, ora sono presso di Lui, vedono Lui faccia a faccia e vedono e assistono noi con le loro preghiere. Ma non solo loro, anche se solo a loro è riservato il culto pubblico: il grande mistero della Comunione dei Santi – cioè di tutti coloro, anche i più ignoti, le cui anime si sono salvate – ci insegna che possiamo e dobbiamo pregare per loro, nella certezza che anche loro continuano ad amarci e a proteggerci, come le persone che abbiamo amato e che ci hanno preceduto nell’incontro con Dio.

Ho condotto questa mia umile e necessariamente incompleta riflessione da cattolica “bambina” sull’anima e sulla Resurrezione promessaci da Cristo, Bibbia alla mano e davanti agli occhi, non certo elaborati trattati filosofici e teologici, ma il testo di filosofia del mio antico liceo classico, come si conviene appunto a una cattolica “bambina”. Perciò non pretendo di aver detto nulla di eccezionale ma, mentre ringrazio il Signore per avermi fatto il dono della fede, spero che Egli si serva delle mie povere parole per instillare nel cuore e nella mente di chi prova la terribile tentazione del dubbio, qualche piccolo seme di speranza, perché “nella speranza siamo stati salvati … e se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (Rm 8, 24 – 25).


[1] Con grande soddisfazione di Eugenio Scalfari che, come grande risultato delle sue frequentazioni personali con Papa Francesco, ha messo più volte in risalto questo affievolimento.


[2] Aldo Grasso riferisce che nell’Enciclopedia Einaudi 1977 – 1982, monumento allo scientismo novecentesco politicamente corretto, compare la voce “corpo” ma non la voce “anima”, perché (secondo l’editore) compito dell’Enciclopedia è “rischiarare la mente degli uomini per liberarli dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione attraverso conoscenza e scienza” Cfr. IL CORRIERE DELLA SERA, La Lettura, 7.2.2016, pag. 4. Il Prof. Grasso aggiunge di aver letto la voce “corpo” e di averci capito poco, segno (aggiungo io) che neppure il compilatore di quella voce ha le idee chiare in proposito.


[3] Cfr. E. Boncinelli, I segreti della mente? Molecole, cellule e circuiti nervosi”, IL CORRIERE DELLA SERA, La Lettura, 7.2.2016, pag. 4.


[4] Cfr. E. Boncinelli, Quel che resta dell’anima, Milano, Rizzoli, 2015, pag. 29 e seguenti.


[5] Basti pensare a quello che sono stati capaci di fare in ogni tempo i grandi Santi della Chiesa, lasciando che lo Spirito Santo guidasse le loro anime sulla strada tracciata da Dio.


[6] Mentre rifletto su questo versetto del Qoèlet, mi viene in mente che esso dovrebbe piacere agli animalisti che, come è noto, negano la superiorità dell’uomo rispetto agli animali. Chissà che, leggendolo, non arrivino pian piano ad apprezzare la Sacra Scrittura approdando prima o poi al Cristianesimo? Le vie del Signore sono infinite e forse questo potrebbe essere un “preambulum fidei”, come dice S. Tommaso d’Aquino. Ma forse lavoro di fantasia e mi do troppe arie da filosofa consumata …


[7] Anche l’Apocalisse presenta la morte come l’ultima nemica che sarà sconfitta (20, 14).


[8] Questa notissima frase della Lettera ai Romani mi offre lo spunto per un’ulteriore riflessione, forse poco ortodossa, ma allora mi aspetto di essere corretta da chi ne sa più di me. E’ noto che le piante e gli animali non hanno un’anima immortale quindi sarebbero fatti di pura materia, ma se è vero che anche la materia spera di essere redenta alla fine dei tempi, non possiamo sperare che anche per loro, sue creature, Dio abbia progettato una sorta di resurrezione finale, senza ritenere necessario rivelarlo all’uomo? Sono stata molto criticata per questa mia ipotesi, ma io penso che se Dio ha creato il mondo per amore, non può abbandonare nel nulla eterno quelle altre sue creature, ontologicamente inferiori all’uomo e del tutto incolpevoli del peccato da lui commesso.




Fonte: Riscossa cristiana, 28.3.2016






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