di Isacco Tacconi
Nell’attuale dibattito sulle forme della celebrazione della Santa Messa, non di rado l’accento viene posto sulla “riformabilità” o su un “armonico adattamento” dei riti liturgici in forza di una convinzione erronea secondo la quale, con il Concilio di Trento, sarebbe stata creata una “Nuova Messa” lontana dalle celebrazioni dei primi secoli. In tale prospettiva si vorrebbe legittimare un’ulteriore e indefinita riformabilità della Messa. Si è diffusa cioè la credenza erronea che la Messa cosiddetta “Tridentina” sia appunto un’invenzione figlia del suo tempo, senza radici, lontana dalle quasi mitologiche liturgie dei padri della Chiesa e ancor più da quelle dei cristiani dei primi secoli. Ma, contemporaneamente a questa tendenza verso la “riforma”, si affianca paradossalmente una tendenza alla cementificazione statuaria della Liturgia che si vorrebbe giustificare guardando alla fissità dei riti liturgici delle Chiese orientali. Queste due tendenze, ossia l’una rivolta alla riforma e l’altra rivolta al fissismo, molto spesso oggi vengono, con evidente contraddizione, simultaneamente affermate. Non fa mistero che dopo il Concilio Vaticano II la tendenza alla sovversione della liturgia e l’apertura a qualsiasi forma d’innovazione bislacca vada a braccetto con un senso di inferiorità e di ammirazione per i cristiani (autodefinitosi) ortodossi. Si crede e si insegna, infatti, che i greci o gli armeni o gli slavi o i copti hanno conservato molto meglio di noi romani/latini la “purezza originaria” della liturgia apostolica.
Non ci si avvede però, che imboccando la via del fascino e dell’attrazione per una forma di mistica archeologica, si giunge inavvertitamente e lentamente a professare l’eresia secondo cui gli orientali avrebbero conservato non solo la liturgia autentica, ma anche la fede autentica o, peggio ancora, la Tradizione autentica, il che significa la Divina Rivelazione autentica. Non starò qui a cercare di dimostrare la gravità di tali affermazioni perché, come dice Aristotele, è da stolti chiedere il perché delle cose evidenti.
Quel che è più importante, piuttosto, è dissipare alcune false credenze storico-liturgiche che rischiano di portare, in questo momento di grave crisi della Chiesa, altre pecore fuori dall’unico ovile di Cristo ma questa volta non per la via del liberalismo bensì per la via del purismo anomico.
Apriamo qui una breve digressione sul significato della parola “anomia” dal greco a-nomos = assenza di legge. Il dizionario di filosofia e delle scienze umane così la definisce: “lo stato di frustrazione e di assenza di punti di riferimento e valori in cui si possono trovare individui o gruppi in una società in cui, a causa delle rapide trasformazioni che ne sconvolgono gli assetti tradizionali, il vincolo tra individuo e valori della collettività va perduto […]. Di fronte all’anomia l’individuo può reagire in vari modi, descritti e classificati da Merton: dal conformismo alla rinuncia, al tentativo di innovazione, alla ribellione”.
Non possiamo negare che la società contemporanea abbia attraversato e stia tutt’ora attraversando uno sconvolgimento radicale, una sorta di cataclisma spirituale da cui non va esente nemmeno la «società dei veri cristiani» ovvero la Chiesa Cattolica (Cat. San Pio X n.105).
Questa crisi generale e capillare, come abbiamo detto, può indurre a guardare e a cercare la quiete del cuore al di fuori della Chiesa Romana, per esempio nelle chiese scismatiche ed eretiche orientali.
Vien dunque doveroso chiedersi: è giustificata la credenza secondo cui gli “ortodossi” hanno conservato la liturgia e la Fede meglio di noi cattolici romani? Cerchiamo di rispondere.
“Esiste – dice Michael Davies – ciò che il padre Fortescue descrive come una sorta di «pregiudizio secondo il quale tutto ciò che appartiene alle Chiese orientali è necessariamente antico». Opinione erronea: non esiste attualmente nella liturgia orientale chi possiede un uso ininterrotto così antico come la Messa romana[1]. Questo è particolarmente vero per il canone romano. Dom Cabrol, monaco benedettino, il «padre» del movimento liturgico moderno, sottolinea che il «canone del nostro rito romano, che fu, per l’essenziale, redatto nel IV secolo, è l’esempio più antico e più venerabile di tutte le preghiere eucaristiche in uso oggi»”[2].
Le testimonianze a tal riguardo non mancano. “È dalla tradizione apostolica (ex apostolica traditione) – dice il papa Vigilio nella sua lettera a Profuturo – che noi abbiamo ricevuto il testo della preghiera del Canone”.
Ancor più chiaramente il beato Ildefonso Schuster dichiara che il Liber Pontificalis ci attesta l’origine apostolica della liturgia romana e che “ripetendo oggi dopo tanti secoli nella Messa la prece consacratoria, noi possiamo esser sicuri di pregare, non solo già colla fede di Damaso, d’Innocenzo, di Leone Magno, ma colle stesse parole che prima di noi essi ripetettero all’altare e che anzi santificarono la primigenia età dei Dottori, dei Confessori e dei Martiri”[3].
Dunque il primato dell’antichità delle forme liturgiche in uso ancora oggi, non risiederebbe nelle Chiese orientali bensì in quella Cattolica Romana. Le dispute sul primato petrino e sull’obbedienza alla Prima Sedes, risalgono agli albori della Chiesa e in più occasioni le sedi episcopali elleniche attentarono all’autorità dei Pontefici Romani. Era chiaro, infatti, che si dovesse obbedienza totale alla sede che poteva fondare la propria autorità sulla Fede integralmente professata e ininterrottamente trasmessa (quod semper ubique et ab omnibus creditur). È una questione che sant’Ireneo vescovo di Lione, primo vero teologo della Chiesa, dovette affrontare già nel II secolo. “La Chiesa disseminata attraverso il mondo, fino alle estremità della terra – dice Ireneo –, professa la fede che ha ricevuto dagli apostoli che a loro volta l’hanno ricevuta dal Figlio di Dio. Questa Chiesa ha il suo centro a Roma con cui tutta la Chiesa deve accordarsi a causa del suo supremo primato, perché, con la successione dei Pontefici romani, la Tradizione apostolica della Chiesa è pervenuta fino a noi”[4].
D’altra parte, in seguito alla consumazione dello Scisma d’Oriente, la concezione che della fede e della liturgia hanno osservato fino ad oggi gli ortodossi, è congelata ad un’epoca storica specifica: l’arco che va dal 787 d.C., data dell’ultimo Concilio Ecumenico da loro riconosciuto, fino al 1054 data ufficiale del Grande scisma, non oltre.
Questi rimanendo bloccati, in larga parte, ad una teologia apofatica e pseudo-mistica e a forme liturgiche dell’XI secolo, rifiutano ogni tipo di approfondimento e di studio teologico razionale che conduca ad una chiarificazione della Rivelazione Divina e quindi ad ogni definizione dogmatica ulteriore. La filosofia aristotelica, il pensiero di Sant’Agostino e di San Tommaso d’Aquino e di tutta la scolastica medievale, il culto mariano, l’ascesi e la mistica della controriforma, la multiforme devozione ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria sono ricchezze della Grazia sconosciute alle “Chiese” orientali “ortodosse”, le quali le rifiutano come aberrazioni ed eresie.
Questa povertà teologica degli ortodossi, emerge ancor più chiaramente se accostiamo la vita e la storia della Chiesa cattolica romana rispetto a quella greco-ortodossa. I numerosi dogmi, la folta schiera di santi dottori che hanno arricchito la Fede con la loro sapienza, la miriade di ordini e congregazioni religiose che sono fiorite nei secoli santificando generazioni di cristiani; gli indiscutibili frutti di penitenza prodotti dall’albero degli ordini mendicanti di San Domenico e San Francesco; l’innato slancio missionario che ha condotto un San Francesco Saverio fino alla remota isola di Cipango (Giappone), o che ha condotto un padre Guglielmo Massaia a predicare la luce del Vangelo nell’Africa nera, o ancora l’anelito al martirio di un San Nicola Tavelic e i suoi confratelli francescani che li ha portati ad offrirsi in sacrificio per la conversione dei maomettani predicando la Divinità di Cristo nel mezzo del mercato di Gerusalemme. Per non parlare della protezione tutta speciale dell’Immacolata Vergine Maria sulla Santa Chiesa Cattolica Romana che la ha arricchita di grazie, apparizioni e rivelazioni per la salvezza delle nazioni, di popoli e di città. Tutto ciò è del tutto assente nelle Chiese orientali, le quali sono sempre state caratterizzate da un intrinseca contrazione etnico-linguistica, ripiegate su se stesse in una fede esclusiva e non inclusiva, dunque, non cattolica.
L’unica forma di vita religiosa consacrata che si conosce in Oriente è una forma spuria di monachesimo, a volte malamente ricondotta a San Basilio Magno ma che nella maggior parte dei casi fa capo a tradizioni eterodosse caratterizzate da una mistica fideista e iconolatrica. Inoltre, da un punto di vista meramente storico, il vero erede della regola monastica cenobitica di San Basilio fu proprio San Benedetto da Norcia, il padre del monachesimo occidentale e della civiltà cristiana europea.
Rifiutandosi di servire al Papa, i patriarchi di Costantinopoli preferirono asservirsi all’Imperatore prima e ai Turchi poi, mentre in Russia la Chiesa non fu altro che uno instrumentum regni nelle mani degli assolutisti zar i quali se ne servirono a proprio vantaggio.
Altro elemento caratteristico dell’eresia greco-ortodossa è la radicale impossibilità di uno sviluppo artistico e culturale. Non esiste cioè nelle Chiese orientali alcuno studio o forma di produzione frutto della pietà o dell’ingegno dei fedeli. Coerentemente con la teologia negativa, cioè apofatica, di cui l’ortodossia è impregnata, l’unica forma d’arte ammessa è l’iconografia di origine bizantina. Non esistono altre forme di arte pittorica o scultorea poiché l’immagine di Dio viene inscritta e, appunto, “fissata” in una serie di archetipi inviolabili che quasi “contengono” la divinità.
Allo stesso modo la musica non è mai stata sviluppata in alcun modo come invece è avvenuto con risultati davvero prodigiosi nella polifonia sacra e profana in ambito cattolico. La lista dei compositori sarebbe veramente troppo lunga ma pensiamo soltanto alle opere di chierici e laici come Pergolesi, Gastoldi, Landi, Frescobaldi, Vivaldi, De Victoria, Palestrina, Byrd, Dowland, Zipoli, Cavalieri, san Filippo Neri, sant’Alfonso de Liguori ecc.
Tutto ciò spiega anche l’arretratezza culturale, scientifica e socio-economica dei paesi slavi fino all’avvento della rivoluzione bolscevica. Non si è mai sviluppata, infatti, in ambito ortodosso la scienza sperimentale in senso moderno e questo perché non esistevano, e non potevano esistere, le università e le scholae come avvenne nell’Europa del Sacro Romano Impero.
Da uno studio approfondito si comprende che quella ortodossa è una tradizione morta, archeologica, immobile come il Discobolo di Mirone o il Partenone, ossia un “monumento dell’antichità”. Ciò vale anche per la liturgia la quale, se così intesa, diviene una mera opera museale.
Eppure i libri liturgici, quelli romani come quelli greco-orientali, non sono caduti dal cielo come il Corano maomettano, né si potrà credere che l’Apostolo San Giacomo celebrasse i Sacri Misteri esattamente come li celebrava San Giovanni Damasceno, o l’evangelista san Marco allo stesso modo degli odierni Copti.
La liturgia, o meglio, le “liturgie” approvate hanno tutte in maniera più o meno diretta radici apostoliche ma sono anche andate gradualmente formandosi nel tempo. Ad esempio “il messale [romano] si è formato progressivamente nel corso dei secoli, sempre protetto con cura dalla Chiesa per timore che vi si infiltrasse qualche errore. È il riassunto dell’insegnamento autentico della Chiesa; rivela il vero significato del mistero che si compie nella messa e il senso delle preghiere di cui si serve la Chiesa”[5]. Uno sviluppo santo certamente, discreto, naturale e organico come è la crescita di un albero santo. La Divina Liturgia, l’Opus Dei come la chiama San Benedetto, è infatti il vero Albero della Vita dal quale si coglie il frutto della Grazia per il nutrimento e la santificazione delle anime.
Quello che però erroneamente si crede, è che tra i riti liturgici ancora in uso oggi i riti greco-orientali sarebbero i più antichi e che il rito romano non sia antecedente al medioevo. Ma a tal proposito il padre Fortescue scrive: «Il messale di San Pio V è, per l’essenziale, il sacramentario gregoriano, che si è formato a partire dal sacramentario gelasiano, che proviene esso stesso dalla raccolta (collectio) leonina. Troviamo le preghiere del nostro canone nel De Sacramentis, e vi sono degli elementi del IV secolo. La nostra messa risale, dunque, senza modifiche essenziali, all’epoca in cui essa ha incominciato a svilupparsi a partire dalla più antica liturgia. Essa emana ancora il profumo di questa liturgia; dai tempi in cui Cesare dominava il mondo e pensava di poter schiacciare la fede cristiana; da quei giorni in cui i nostri padri si riunivano prima dell’alba e “cantavano un inno a Cristo come a un Dio”[6]. La conclusione della nostra inchiesta è che, malgrado che qualche punto resta non risolto, e a dispetto di cambiamenti intervenuti in seguito, non c’è nella cristianità un rito così venerabile come il nostro»[7].
Inoltre, la necessità di rafforzare, di sottolineare e di rendere più espliciti alcuni elementi del rito, non solo è legittimo, ma nel corso della storia della Chiesa si è reso indispensabile per combattere le eresie, e mai per il gusto della novità o del rinnovamento fine a se stesso. Quando si parla di “sviluppo organico della liturgia” non si intende rivoluzionare, distruggere o abolire, al contrario si tratta di conservare e perfezionare, e ciò può avvenire mutando anche gli spazi liturgici ossia l’architettura interna/esterna della chiesa, oppure aggiungendo gesti o preghiere come l’Introito, il Confiteor e l’Ultimo Vangelo, o inserendo l’elevazione del Corpo e del Sangue di Cristo per mostrarli al popolo adorante eccitando così la fede nella Presenza Reale.
“Tutte le preghiere che fecero la loro comparsa nella messa romana dopo l’epoca di Gregorio Magno furono quelle che i riformatori [protestanti] rigettarono per prime. Nulla di sorprendente per questo: una delle ragioni che aveva senza dubbio spinto la Chiesa, guidata dallo Spirito Santo, ad accettare queste preghiere, era l’eccezionale chiarezza del loro contenuto dottrinale. Che un rito tenda così ad esprimere sempre più chiaramente ciò che contiene, s’accorda perfettamente con il principio lex orandi, lex credendi”[8].
Di fatto, tutti i riti, i gesti, le parole, i paramenti e i suppellettili che sono stati via via aggiunti nella celebrazione del rito romano, sono funzionali alla tutela dell’integralità ed ortodossia della fede. “«Nessuna delle parti del Messale romano – dice il Catechismo del Concilio di Trento – può essere considerata inutile o superflua»: tutte, fin la più piccola parola, hanno il loro senso e la loro portata”[9]. Non solo, tale arricchimento formale ha come suo fine ultimo circondare di onore e di amore ciò che di più prezioso esiste sulla terra: i Sacramenti. Un caso emblematico è rappresentato da San Francesco d’Assisi il quale, dicono le fonti, amasse molto le cerimonie liturgiche che si svolgevano in Francia a causa del culto eucaristico che colà si andava sviluppando e diffondendo e attraverso il quale si circondava di pietà e di onore il Santissimo Sacramento. Altro esempio di sviluppo (santo) della liturgia è l’uso invalso di inginocchiarsi alla lettura delle parole “et Verbum caro factum est” entrate nella liturgia grazie a San Luigi IX re di Francia il quale per la sua pietà nel contemplare il Mistero dell’Incarnazione volle che tutta la corte e il sacerdote celebrante al pronunciare tali parole si prostrasse. Ecco come cresce la liturgia, con la pietà e la santità.
In realtà questo principio dello sviluppo organico della liturgia è il medesimo che si realizza nello sviluppo teologico-dogmatico e che, come abbiamo visto, è del tutto o quasi assente nelle chiese orientali al pari di quello liturgico. A fissità e sterilità liturgica corrisponde fissità e sterilità teologica e viceversa.
A testimonianza della necessità logica dello sviluppo teologico-dottrinale sta la formulazione del Credo Niceno-costantinopolitano, che lo pone ad un livello di maggior completezza e perfezione rispetto al Credo Apostolico. Il Simbolo di Nicea e Costantinopoli, appunto, è la formula della fede, forgiata dalla pietà e dalla sapienza dei santi, la sua cattolicità è completa e indiscutibile, perciò è così necessario che sia professato fedelmente al pari se non più di quello Apostolico. Questo perché è meno attaccabile dalle eresie e dai travisamenti a causa della forma specifica dei singoli articoli. Non a caso la sapienza e la pedagogia della Chiesa lo ha inserito nell’ordinario della Messa a preferenza dell’altro anche se più antico.
Ma oggi si vorrebbe minimizzare la questione del Filioque come se fosse una futile disputa capziosa, ma dietro a questa unica parola si cela una serie di articoli di fede strettamente tra loro concatenati e interdipendenti che vanno da una retta comprensione della natura della Santissima Trinità e delle relazioni che sussistono fra le Tre Divine “Personae”, e non “Hypostaseis” come le intendono i greci, fino al ruolo espiatorio del Figlio di Dio nel mondo. Ben più complessa, dunque, di una semplice bega partitica tra latini e greci. I termini, infatti, descrivono l’essenza delle cose e, come ricorda J. H. Newman, “il retto uso delle parole è implicito nel retto uso del pensiero”[10]. Se gli ortodossi si esprimono male riguardo alla Santissima Trinità, va da sé che hanno una concezione erronea, anzi eretica, della Santissima Trinità.
In ultima analisi, al fine di non cadere in quell’anomia di cui sopra, risulta necessario riconoscere l’antichità del rito e al contempo il suo sviluppo organico, il che significa, come disse il domenicano padre Roger Calmel, attenersi al rito romano così come ce lo trasmette il messale di San Pio V. “Il fatto che [il rito romano] sia rimasto lo stesso durante tredici secoli è la testimonianza più eloquente della venerazione di cui non smise mai di essere circondato, e degli scrupoli che si sono sempre provati nel mettere le mani su un’eredità così sacra che ci viene dalla notte dei tempi”[11].
In conclusione, possiamo riposare nella tranquilla certezza che l’antichità del rito romano gode della storicità dei documenti, della testimonianza dei padri, nonché della sentenza della volontà Divina che lo canonizza come il rito proprio della Prima Sedes, cioè di Roma.
Roma, il luogo dove la Divina Provvidenza dispose che il Principe e Capo degli Apostoli, e San Paolo l’Apostolo dei gentili, dovessero dare la vita per Cristo. Non andiamo perciò in cerca di esperienze spirituali “nuove” o “diverse” quando il Cielo stesso ci è venuto incontro nella larghezza della Misericordia Divina offrendosi a noi attraverso l’ulivo della Romanitas divenuta Cristianitas. La prima grazia insondabile è l’aver ricevuto il Santo Battesimo ma a questo si aggiunge l’essere nati Cattolici Romani, una grazia particolare di cui forse ci renderemo veramente conto, se ne saremo degni, soltanto nel Paradiso. C’è forse una testimonianza più forte del sangue di Cefa e di San Paolo, le colonne della Chiesa Cattolica, che ci impedisca di abbracciare con filiale e riconoscente devozione ed amore il venerabilissimo rito romano giunto a noi quasi di mano in mano per la Gloria di Dio e la salvezza delle anime nostre?
La liturgia romana, dice padre Faber, “è ciò che vi è di più bello in questo mondo. Essa è il prodotto del genio della Chiesa; ci trasporta fuori di noi stessi, ci eleva lontano da questa terra e, avvolgendoci in una nube di dolcezza mistica, ci trasporta nel mondo sublime di una liturgia che sorpassa quella degli angeli; purificandoci malgrado noi stessi, ci tiene sotto il fascino di un incanto celeste, così bene che i nostri stessi sensi sembrano vedere, intendere, sentire, gustare, toccare al di là di ciò che la terra è in grado di darci”[12].
[1] FORTESCUE, The Mass, a Study of the Roman Liturgy, 1917, p. 208 e 213.
[2] Introduzione al Missel romain quotidien et vespéral, par Dom Fernand Cabrol, Mame 1949.
[3] SCHUSTER, Liber Sacramentorum, vol II, Torino-Roma, 1929, pp.106-107.
[4] Adversus Haereses, 1, 1, ch. VI e X, I, III, ch. III n.2.
[5] MICHAEL DAVIES, La Riforma liturgica anglicana, Ed. Ichthys, 2015, p. 128.
[6] Cfr. Lettera di Plinio all’Imperatore Traiano.
[7] FORTESCUE, op. cit., p. 213.
[8] La Riforma liturgica anglicana, p. 121.
[9] La Riforma liturgica anglicana, Ed. Ichthys, 2015, p. 130.
[10] NEWMAN J. H., Lettera al Duca di Norfolk. Coscienza e Libertà (1874), a cura di V. Gambi, Paoline, Milano 1999, p. 388.
[11] GASQUET-H BISHOP, Edward VI and the Book of Common Prayer, Londra 1890, p. 197.
[12] Citato in N. Gihr, The Holy Sacrifice of the Mass, Saint Louis, 1908, p. 337, nota 27.
fonte: Radio Spada, 31-08-2015
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