Si moltiplicano le uscite di vescovi che aderiscono alle mode del momento su divorziati risposati e coppie di fatto, mascherandole da princìpi cattolici. Niente di nuovo, ma sono facilmente smascherabili. Alle virtù cardinali e teologali sostituiscono quelle laiche.
di Tommaso Scandroglio
Rodriguez Maradiaga, Andreas Moehrle, Vincenzo Paglia, Domenico Mogavero. Nomi di alti prelati che su comunione ai divorziati risposati – i primi due – e coppie di fatto – i secondi - qualche nota fuori dal coro del cattolicamente corretto l’hanno cantata. Da ultimo in una nuova intervista, ma questa volta al Frankfurter Allgemeine Zeitung, il cardinale honduregno Maradiaga, responsabile di quell’equipe di otto cardinali voluti dal Papa per riformare la curia, è tornato sul tema della famiglia e ha detto che occorre “attribuire patenti” anche ad altre relazioni interpersonali (leggi coppie di fatto). Il cardinal Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, in occasione della plenaria del suo dicastero, ha tagliato corto: «Alla crescente mancanza di comprensione circa la santità del matrimonio la Chiesa non può rispondere con un adeguamento pragmatico a ciò che appare inevitabile, ma solo con la fiducia piena nello spirito di Dio».
Che dire di Maradiaga &Co.? Nulla di nuovo in realtà sotto la cupola di San Pietro: in casa cattolica si sono sempre aggirati dei falsari. Artisti del dogma che con perizia spacciano per autentiche opere d’arte della fede dipinti e sculture che invece sono delle croste. E non serve mica la competenza dell’esperto per capire di tenere tra le mani un falso: basta un’occhiata superficiale e ci si accorge subito di essere di fronte ad una copia d’autore. Quest’ultima espressione è corretta perché chi riproduce la sana dottrina corrompendola non è in genere uno qualunque – il catechista dell’oratorio o il sagrista – bensì spesso si veste delle insegne episcopali, è direttore o presidente di qualche consesso prestigioso che si fregia della qualifica di “cattolico”, siede (all’occorrenza) da “credente” in Parlamento, regge un ateneo di ispirazione “cattolica”, insegna da teologo in qualche rinomata università pontificia, scrive su giornali e riviste di carattere religioso che stampano decine di migliaia di copie.
Il falso d’autore viene praticato poi non per burla, come avvenne con le famose teste di Modigliani trovate in un fosso di Livorno, ma con la convinzione che i propri manufatti siano espressioni autentiche del depositum fidei oppure in alcuni casi, siano più veri del Vero, quasi il suo naturale superamento, la sua inevitabile evoluzione. Insomma il falsario delle fede crede nel suo lavoro d’artista.
Ci credono poco invece quei cattolici che hanno il vezzo dell’ortodossia e che esaminando affermazioni, scritti e iniziative dei falsari scoprono una serie infinita di adulterazioni ed hanno facile gioco nello sconfessare la paternità dell’opera. Questo processo di sofisticazione del portato culturale cattolico negli ultimi anni si è infittito e riguarda democraticamente un po’ tutto lo scibile dottrinale sia nel campo della morale che in quello della fede: dall’omosessualità all’aborto, dalla fecondazione artificiale all’eutanasia, dal divorzio alle coppie di fatto, dalla figura storica di Gesù alle veridicità dei Vangeli, dal primato petrino all’ecumenismo, dalla liturgia ai sacramenti.
Il falso è facilmente individuabile perché la mano dell’artista ha provveduto a sostituire alcuni elementi pittorici dell’originale, i più salienti e caratteristici, con altri di propria fattura, spesso grossolana. Un esempio è dato dalla sostituzione delle virtù cardinali e teologali con le virtù laiche. Passiamole dunque in rassegna.
La prudenza da virtù che indirizza la ragione a declinare il vero e il giusto nella situazione concreta e a rinvenire gli strumenti atti allo scopo, è diventata pusillanimità. Da habitus che ci aiuta a decidere con risolutezza e sicurezza cosa fare è scolorata nel suo opposto, incarnandosi in un atteggiamento attendista, incline a rimandare sempre a tempi migliori la decisione perché “la situazione è complessa e bisogna agire tenendo in conto tutte le sensibilità presenti”. Temporeggiare affinchè sia la storia a decidere a posto nostro.
Poi c’è la giustizia che da virtù che sprona la volontà a dare a ciascuno il suo ora è stata degradata a giurisprudenza. Su questioni morali rilevantissime come aborto e “nozze” gay – così il falsario si esprime - attendiamo ossequiosi la sentenza dei giudici. Perché quella di Dio sarà sicuramente conforme alla prima e comunque nell’Aldià – statene certi - sarà ridotta ad amnistia generale. Si è sostituita così la giustizia con il legalismo di impronta positivista rintracciando in norme e sentenze ingiuste qualche barbaglio di verità che dovrebbe guidare il cattolico nella sua esistenza terrena. Nelle mani del falsario la giustizia non è più la virtù che insieme alle altre ci avrebbe potuto meritare il Paradiso: ora al massimo ci può far evitare sanzioni pecuniarie dall’Agenzia delle Entrate perché abbiamo pagato le tasse, unico e vero peccato contro lo Spirito Santo.
Arriviamo alla fortezza scalzata dalla codardia apostolica: mai esporsi, mai denunciare, mai battagliare, mai resistere fino alla morte sui principi non negoziabili, mai avere il coraggio di metterci la faccia prendendo decisioni impopolari, ma semmai delegare le stesse ad organi consultivi, comitati e conferenze di esperti, così la colpa del fallimento eventualmente non verrà divisa per uno ma per cento. Invece sempre sfumare, sempre mediare, sempre ammorbidire, sempre minimizzare, sempre dire e non dire e quando si opta per il dire farlo tra le righe. La fortezza impallidisce nel volto del politico o dell’uomo di cultura “cattolico” in atteggiamento remissivo ed imbelle, evapora nell’arrendevolezza di chi si abbassa le braghe ad ogni refolo di vento contrario. Il falsario, che porta con sé sempre una immacolata bandiera bianca pronta all’uso, concilia tutto con tutti, fuorché con la sana dottrina verso cui mai è accondiscendente perché i suoi padroni, da servire con docilità, sono il consenso e la vita senza troppi scossoni.
Una volta Sant’Agostino così ebbe a scrivere dei cattivi e codardi pastori d’anime: “Chi è il mercenario? Colui che fugge, se vede il lupo; colui che cerca la sua gloria, non la gloria di Cristo; colui che non ha il coraggio di riprendere con libertà di spirito i peccatori. Il lupo azzanna una pecora e la trascina per il collo; il diavolo induce un fedele a commettere adulterio. E tu taci, non riprendi. Tu sei mercenario; hai visto venire il lupo e sei fuggito. Forse egli dirà: no, sono qui, non sono fuggito. No, rispondo, sei fuggito perché hai taciuto; e hai taciuto perché hai avuto paura” (In Ioannis Evangelium tractatus, 46, 8).
La temperanza poi da virtù che rende capace la volontà di porre un dominio su se stessi è stata intesa - forse per una certa assonanza tra le due parole - come tolleranza del male sempre e comunque. Dall’accoglienza del peccatore all’accoglienza del peccato. Si vuole alleggerire il carico e la quantità dei peccati elencati nel Catechismo sperando così di imbarcare più passeggeri per la vita eterna. Si tenta invano di stemperare il male intingendolo nel catino di una falsa misericordia che non guarda in faccia a nessuno, nemmeno a Dio stesso.
Il meglio di sé comunque il falsario lo dà nelle virtù teologali. La fede nella Santissima Trinità oggi è stata sostituita nella triplice fede in Enzo Bianchi, Vito Mancuso e Gianteresio Vattimo. Ne consegue che tutto l’armamentario cattolico è cambiato: al posto dei Dieci Comandamenti si preferisce la Costituzione, all’autorità del Pontefice un governo di larghe intese, al Paradiso-Purgatorio-Inferno un wellness spirituale secolarizzato, alla salvezza eterna un posto di lavoro a tempo indeterminato, ai sacramenti dei corsi di autostima, alla dottrina infallibile del Magistero l’arbitrio della propria coscienza creduta sempre infallibile.
La speranza poi non guarda più al Cielo nella fiduciosa attesa di essere salvati, posto che ne abbiamo lucrato i meriti, ma si è prostituita nell’aspettativa tutta mondana che la scienza possa allungare la vita dell’uomo quasi all’infinito, che la tecnica possa rendere sempre più leggero il carico di sofferenze della nostra esistenza, che l’uomo rinsavisca del tutto e non ci siano più guerre e fame nel mondo, che il genere umano viva d’aria e non si cibi più di animali e vegetali perché il creato, quello no, proprio non si tocca. La speranza si è miniaturizzata in una frustrante illusione utopica.
Infine la carità. Questa non ci sprona più ad amare Dio e gli altri in virtù dell’amore per Dio, bensì - adulterata dai copisti - è scemata in filantropia, non proprio sempre accessibile a tutti. E sì perché una volta uno poteva eccellere nella carità anche chiuso per tutta la sua vita in una cella di un monastero e da lì raggiungere con gli strali del suo amore ogni persona sulla faccia della terra. Ma oggi non è più così: devi avere un cellulare per essere in grado di aiutare con due euro gli sfollati del Regno delle Banane distrutto da un ciclone (cosa giustissima si badi bene), devi aver il dono della bi-tri-multilocazione per fare in contemporanea il volontario nella Caritas, nella mensa per i poveri e nel Gruppo di ausilio dei senzatetto (cose sempre giustissime). Per accendere e accedere alla carità una volta bastava avere un cuore pensante e pulsante. Ora invece la carità l’hanno delocalizzata, come si fa con le aziende in crisi, e si trova quasi esclusivamente in Pakistan sotto le tende di Emergency, in Amazzonia nelle missioni e a Scampia il quartiere napoletano ad alta infiltrazione mafiosa. Per i più fortunati la carità si trova anche nel negozietto sotto casa che vende prodotti del commercio equosolidale.
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