di Alfredo Mantovano
Parigi, 2 febbraio. Ancora una volta la piazza si riempie per protestare contro l’imposizione nelle scuole, fin dalle elementari, di programmi di educazione all’identità di genere: un provvedimento che si aggiunge – ultimo tassello in ordine di tempo – a un mosaico già composto di matrimonio fra persone dello stesso sesso e di legge-omofobia, alla vigilia del voto in Parlamento delle norme sulla Gpa-gestation pur autrui (l’“utero in affitto”).
Una manifestazione ben riuscita, con centinaia di migliaia di persone, che i contrari – i media, francesi e non, e gli esponenti del governo Hollande – hanno tentato di demonizzare, segnalando nel corteo presenze di politici di estrema destra e bollando l’insieme come il corrispondente gallico dei tea party, secondo l’espressione del ministro dell’Interno Manuel Valls. Quanto le famiglie con i passeggini, o i “musulmani per l’infanzia”, che hanno sfilato insieme per i boulevard parigini, abbiano in comune con i militanti del movimento antitasse USA può spiegarlo solo chi ha adoperato questa similitudine. Vero è che, in un momento non idilliaco per il presidente e per il suo esecutivo, con l’occupazione che addirittura decresce, tanti francesi che per l’ennesima volta marciano “contro” non fanno piacere. Tant’è che al governo vi è chi ha chiesto ai partiti che sostengono Hollande di organizzare, a loro volta, una contromanifestazione a sostegno delle sue politiche antifamiliari.
Madrid, 1° febbraio. In piazza ci vanno circa 20.000 donne per protestare contro il progetto di legge sull’aborto proposto dal ministro della Giustizia spagnolo Alberto Ruiz-Gallardon, con slogan che fanno tornare indietro di oltre trent’anni. In realtà quella bozza non riporterebbe alla situazione pre-Felipe Gonzales, bensì a quella pre-Zapatero: l’aborto resta entro la 14ma settimana in caso di violenza nel concepimento o di rischio per la salute fisica o psichica della gestante; nel riferimento all’indicazione “psichica”, è evidente l’estensione della praticabilità: il passo indietro non è poi così significativo. Ma per chi ritiene l’aborto un dogma, in quanto tale da non discutere neanche per sbaglio, ogni pur minuscola limitazione della libertà di uccidere il concepito è peggio di un attentato terroristico. E la protesta sta pagando: il governo Rajoy non appare così convinto dell’iniziativa del titolare della Giustizia, tant’è che ha fatto slittare la discussione e l’eventuale voto all’indomani delle elezioni europee. Anche a Madrid, come a Parigi, se pure in direzioni opposte, la piazza mette in difficoltà l’Esecutivo su un tema eticamente sensibile.
Roma/Italia, 2 febbraio. Come ogni prima domenica di febbraio a partire dal 1979, da pochi mesi dopo, cioè, l’approvazione in Parlamento della legge sull’aborto, in ciascuna parrocchia italiana si celebra la Giornata per la vita. Si celebra? Ho eseguito un piccolo e tutt’altro che scientifico sondaggio: ho chiesto a qualche decina di amici sparsi per la Penisola se e in che termini, andando a Messa domenica scorsa, hanno sentito pronunciate le parole “concepito” e “aborto”. Otto su dieci mi hanno dato risposta negativa; degli altri due, uno ne ha sentito parlare per qualche secondo al momento degli avvisi, uno in modo un po’ più diffuso, con l’invito ad acquistare piantine per aiutare madri in difficoltà. Che i fedeli vadano sollecitati a sostenere le gestanti che non ce la fanno è sacrosanto; che i Centri di aiuto alla vita svolgano un lavoro encomiabile, salvando migliaia di vite umane, è qualcosa che merita riconoscenza da tutta la Nazione; ma che la cifra complessiva di 5.400.000 bambini ammazzati in Italia con l’aborto “legale” dal 1978 a oggi – una media di 150.000 all’anno, secondo quanto informa il ministero della Salute, per 36 anni – meriti qualche cenno, qualche minuto e qualche energia in più, ritengo che sia altrettanto indiscutibile. A meno che non si condivida l’assunto di Stalin, per il quale uccidere una persona è omicidio, ma uccidere un milione di persone è un dato statistico… A meno che non lo si condivida anche solo implicitamente, convinti della sua ineluttabilità.
Ciò che colpisce è che, sollecitati, gli italiani rispondono. La raccolta Uno di noi, tesa al riconoscimento giuridico in Europa dell’identità del concepito, ha raggiunto i due milioni di firme. La Marcia per la vita che si tiene da qualche anno nella seconda domenica di maggio raccoglie adesioni crescenti. Entrambe le iniziative sono state benedette da Papa Francesco, il 13 maggio dello scorso anno (qualora qualcuno abbia dubbi sulla loro opportunità); nella esortazione Evangelii gaudium il Pontefice ha individuato nella “difesa della vita nascente” il legame intimo con la difesa di “qualsiasi diritto umano”, anche sul piano legislativo.
I convegni che in queste settimane vengono organizzati da movimenti e associazioni ecclesiali in giro per l’Italia su famiglia e ideologia del gender vedono la partecipazione di volta in volta di centinaia di persone. Che cosa manca? Manca l’efficace coordinamento di queste iniziative e la spinta a indirizzarle verso una grande riedizione del Family day (posto che la prima edizione si è svolta non settanta, ma sette anni fa; perché mai non sarebbe possibile adesso?): per rendere chiaro a chi dai Palazzi fa uscire direttive sull’istruzione “di genere” nelle scuole, o vuol approvare leggi omofobia e sul matrimonio fra persone dello stesso sesso, che una parte significativa dell’Italia è fermamente contraria. E che al tempo stesso quel pezzo d’Italia è convinta che nel nostro ordinamento esistano delle discriminazioni che vanno rimosse e superate: sono le discriminazioni contro la famiglia, che rendono complicato sposarsi, mettere al mondo figli e farli crescere!
Nel 2007, col Family day, ciò è stato affermato in modo chiaro, e ha prodotto i suoi risultati.
Si potrebbe replicare: che cosa impedisce di puntare a una manifestazione simile? I laici nella Chiesa hanno la responsabilità di iniziative di questo tipo, facciano pure… È vero, a tal punto che tanti laici questa responsabilità la sentono e la esercitano. Ma un Family day bis non può venir fuori per iniziativa di un singolo movimento o associazione: così non riesce, nel 2007 è andata diversamente. Senza nascondere difficoltà ed equivoci di ogni tipo, superare la rassegnazione implicita che ha portato a trasformare la Giornata per la vita (con poche lodevoli eccezioni) nella Giornata del silenzio (sulla vita) potrebbe riservare positive sorprese.
Viceversa, sorprese negative verranno fuori dalla rinuncia a una iniziativa grande e coordinata: dal lato dei Palazzi, la percezione sarebbe – come è stato ultimamente – quella dell’irrilevanza di chi crede in certi principi, e quindi sarebbe intesa come un via libera al delirio legislativo; dal lato di chi protesta, pur con ragioni sacrosante, si accentuerebbe il rischio di derive estremistiche e radicali. Esserci tutti e in modo partecipe e convinto garantisce l’equilibrio della piattaforma con cui confrontarsi con le istituzioni; frammentarsi e lasciare alla libera, e talora anarchica, iniziativa, può rendere padrone del campo chi urla di più. Quando il solo urlo che dobbiamo puntare a moltiplicare è quello dei bambini che riprendano a nascere.
fonte: La nuova Bussola Quotidiana
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