giovedì 10 novembre 2011

L'incertezza e la Grazia




di Don Enrico Bini


Nel nuovissimo Catechismo della Chiesa Cattolica ho letto con piacere, nel paragrafo sulla Grazia, la ripresentazione di una verità cattolica, molto spesso misconosciuta, se non ignorata: l'incertezza dello stato di Grazia.

Ne aveva parlato solennemente il Concilio di Trento e la manualistica, ma difficilmente questo punto è stato compreso dalla comunità ecclesiale.

Questa dottrina consiste nel principio che nessuno può sapere con certezza di Fede -che esclude la possibilità dell'errore -se abbia conseguito la Grazia di Dio.

Ciascuno di noi dimentica spesso questa verità, nella propria vita quotidiana. Riduciamo la nostra pratica cristiana, non solo in pratiche esterne, ma anche crediamo che la semplice partecipazione alla vita della comunità e ai sacramenti sia sufficiente.

Al contrario, la dottrina della chiesa spinge il cristiano a comprendere che la propria salvezza è sempre un dono gratuito di Dio, che non combacia con i nostri progetti e i nostri desideri. Per questo Gesù nel Vangelo ci ricorda che i primi saranno gli ultimi. La Grazia sfugge alla nostra esperienza.

Il cristiano comune invece, oscilla sempre tra i due peccati contro lo Spirito che ci ricordava l'antico catechismo, la disperazione della Salvezza e la presunzione di salvarsi senza merito. L'equilibrio cattolico si muove su questo difficile crinale, rifiutando sia un sentimento d'angoscia di fronte alla giustizia divina, sia l'abuso della sua misericordia.

La storia della Chiesa ci mostra che spesso questi due estremi atteggiamenti si sono fronteggiati. Giansenismo e naturalismo sono due esagerazioni che riflettono proprio il rifiuto della grandezza e dell'Onnipotenza di Dio. In entrambi i casi si cade in forme di un sottile fariseismo, quello di dare un riflesso troppo umano del divino.

Questo avviene anche oggi: l' enfasi per un cristianesimo impegnato, visibile al punto di farne l'unico criterio, fa perdere di vista l'unico scopo della nostra Fede, che è la Salvezza.

I primi saranno gli ultimi perché hanno creduto più alle proprie forze che all'assoluta gratuità della Grazia. Si tratta di riguadagnare l'atteggiamento di povertà fiduciosa che ebbero i grandi Santi. Gesù stesso ci ricorda che siamo servi inutili, non solo perché limitati, ma perché le nostre opere non implicano una deduzione infallibile del giudizio di Dio.

Nell'autentica dinamica della Fede non vi è posto per alcun automatismo; per questo motivo la vita cristiana rifugge da ogni semplificazione che non riconosca l'impossibilità da parte del credente di sapere, con certezza, di essere in Grazia di Dio. Sulla rivalutazione di questo atteggiamento si misura il vero rinnovamento delle nostre comunità. Tutte le nostre opere cristiane sono finalizzate a far sentire il cristiano continuamente attento al proprio limite.

La Fede è l’esatto contrario della sicurezza farisaica, ma costringe il credente a rimettere continuamente in discussione il proprio comportamento. Per questo la Chiesa è sempre definita pellegrina, su questa terra, perché ogni cristiano si senta il povero che con le mani vuote implora il Signore di mostrare il Suo volto.

Oltrefiume, n. 3, marzo 1993

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