Pubblichiamo uno stralcio dell’intervista al Padre Abate dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., Un monastère pour le XXIe siècle, comparsa in La Nef, n. 230, ottobre 2011.
Voi siete legati alla forma extraordinaria del Rito romano: perché questa scelta e come giudicate la situazione liturgica nella Chiesa latina, particolarmente dopo il motu proprio Summorum Pontificum e la recente pubblicazione dell’istruzione Universae Ecclesiae?
La scelta della forma extraordinaria del Rito romano risale alle nostre origini, a Bédoin, nel 1970. Questa scelta non è affettiva, ma è una preferenza motivata da ragioni di manifestazione più netta di talune verità della fede: carattere centrale, sacrificale e sacro, della messa, presenza reale del Signore nelle sante speci, distinzione essenziale del sacerdozio ministeriale del prete e del sacerdozio battesimale. Aggiungo che la forma extraordinaria manifesta altamente la continuità della Chiesa, perché la Chiesa non accetta né rotture né rivoluzioni, essa non muta il contenuto della propria fede. Per finire, l’orientamento ecumenico dato dal Concilio Vaticano II trova nella forma extraordinaria un ponte con le Chiese orientali e finanche con le comunità cristiane anglicane e luterane, dalle forme liturgiche ancora antiche. La situazione liturgica tende a evolvere nel buon senso. Lo vedo per esempio alla messa crismale del Giovedì santo alla chiesa metropolitana di Avignone. Ma occorre del tempo, perché come diceva Dom Gérard, basta una notte per bruciare una foresta, e cinquant’anni per farla ricrescere. In ogni caso, il Santo Padre ha sbloccato una situazione. La forma extraordinaria non è più considerata dai fedeli come abolita. Mi sembra che il fine attuale del Vaticano sia di diffondere la celebrazione di questa forma con tutto ciò che gli va appresso – catechismo, patronati, pellegrinaggi, ecc. – al fine, in un primo tempo, d’influenzare la celebrazione corretta della forma ordinaria. Siamo all’inizio dell’inizio. Dopo di che, Dio provvederà.
Le Barroux si è reso noto per la pubblicazione di studi importanti in accordo con la preoccupazione del Santo Padre di una corretta “ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità”. Per voi questo è importante, e come percepite i progetti di Benedetto XVI in materia?
Si tratta di un punto fondamentale. La Chiesa non ha il potere di darsi nuove costituzioni nel corso del tempo. Essa deve rimanere sé stessa, com’è stata fondata dal suo Maestro. Spetta ai pastori coltivare nella vigna del Signore lo spirito di fedeltà, di comunione con la Tradizione e i suoi sviluppi fondamentali, e quindi di presentare il Concilio Vaticano II non come una novità assoluta, ma come uno sviluppo organico o una riforma nella continuità. I pastori che si comportano diversamente dovranno renderne conto al Signore. Io non sono nei segreti del Santo Padre, ma constato che le sue allocuzioni illustrano bene l’urgenza di riprendere la nostra storia: da cinque anni, egli dedica le sue udienze generali a presentare i giganti della storia della Chiesa, partendo dagli apostoli, passando per san Benedetto, e per finire con santa Teresa del Bambino Gesù. Giunti a questo punto, ci parla dell’uomo di preghiera. Mi sembra che il suo progetto sia il radicamento, tema della GMG, radicamento nella nostra fede, nella nostra storia e nella preghiera. Era anche il progetto di Dom Gérard quando lanciò i lavori di Le Barroux: “Il sommo criterio, quello al quale desideriamo sacrificare tutto, non sarà l’emergenza, ma il radicamento”. Promette buoni frutti.
Fonte: Romualdica
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