martedì 20 settembre 2011
L’Eucaristia, il più laico dei sacramenti?
di Brunero Gherardini
Era proprio scritto da qualche parte che, prima di chiudere gli occhi, dovessi leggere anche questo. E, si badi bene, non in un testo anticlericale o comunque lontano dalla sensibilità cattolica, bensì in un settimanale interdiocesano. Perché non si creda che abbia letto male o, peggio che riferisca in modo non esatto quant’ho letto, riporto alla lettera questo squarcio di sublime deformazione dogmatico-teologica:
“L’Eucaristia è il più laico di tutti i sacramenti, perché il rito del sacrificio antico è stato abolito da Cristo e sostituito con il dono della vita reale, che Gesù ha fatto con la sua persona e che noi a nostra volta facciamo, celebrando l’Eucaristia sulla scia dell’unico sacrificio importante davanti a Dio, quello di Cristo. Questo comporta che l’Eucaristia è incompatibile con ogni dualismo tra sacro e profano: non si può varcare la soglia del tempio come se si entrasse in un altro mondo, poi uscire e tornare nella vita reale…”.
Non ha importanza, per il presente articolo, la paternità di queste deliranti parole; è importante solo – in modo estremamente negativo – che esse siano state ospitate da un Settimanale che si fregia del titolo “Cattolico” nel quale dovrebbe riflettersi il “magistero ordinario” dell’episcopato toscano.
Dai vescovi della Toscana, così come da quelli di tutto l’orbe cattolico, laici e preti s’attendono, perché ne hanno il diritto, non qualche sparata sensazionale ma priva di senso e capace soltanto d’impallinare la Fede della santa madre Chiesa, bensì un insegnamento almeno in linea con quello ufficiale della Chiesa stessa.
Per ricuperare codest’insegnamento, anche senz’andar tanto indietro nel tempo, al Concilio di Trento, p. es., o al Catechismo per i parroci che ne sintetizzò i contenuti, o all’immortale Catechismo di san Pio X, esso è oggi reperibile nel Catechismo della Chiesa Cattolica, redatto dopo il Vaticano II e promulgato da Giovanni Paolo II con la Costituzione apostolica dell’11 ottobre 19922. In questo prontuario di dottrina cattolica, è vero, manca una definizione vera e propria della SS.ma Eucaristia, ma la dottrina esposta è chiarissima e nulla, assolutamente nulla contiene che possa, sia pur vagamente, giustificare la sparata di cui sopra.
L’Eucaristia è detta anzitutto “fonte e culmine della vita ecclesiale” (par. 1324-1327), “sacramento” o “memoriale della passione e della risurrezione del Signore”, sua presenza reale e comunione (par. 1328-1332), “sacrificio sacramentale” e “banchetto pasquale” (par. 1356-1401), “pegno della gloria futura” (par. 1402-1405).
Se, dunque, è questa la dottrina cattolica sul mistero eucaristico, è legittimo chiedersi su quale base un settimanale cattolico, che in quanto tale fa da cassa di risonanza all’insegnamento del Magistero in genere e segnatamente a quello dell’episcopato locale, abbia potuto o possa appoggiare una così evidente deformazione dottrinale come quella sopra riportata. In altre occasioni, in tema di linguaggio, ho lamentato la frequente violenza alla quale si sottopongono oggi le parole, il cui compito è invece quello di far capire e di comunicare. Qui la violenza è fatta non solo contro le parole, ma contro il mistero eucaristico e la dottrina che lo espone.
1 – Analisi del testo –
Essendo probabile che l’elefantiasi, oggi invalsa, del concetto e dell’uso di laico non colga immediatamente quanto d’insulso e dissennato c’è, teologicamente parlando, nel testo in esame, sarà bene commentarlo in sé ed in ognuna delle sue componenti.
Se uno dichiara che “l’Eucaristia è il più laico di tutt’i sacramenti”, esprime un giudizio esplicito sul sacramento eucaristico, riconoscendogli il massimo della laicità: non in assoluto ma relativamente agli altri, a tutti gli altri sacramenti. Implicitamente tutti gli altri sacramenti son giudicati laici, sia pure a livelli inferiori di laicità rispetto all’Eucaristia. Questa collocando nel dichiarato ordine di preminenza, anche l’Autore d’un siffatto giudizio avverte il bisogno o addirittura l’urgenza di darne una spiegazione. Al giudizio, infatti, segue immediatamente un “perché” epesegetico. In base ad esso, il lettore dovrebbe capire la ragione che ha indotto l’Autore a formular un giudizio così inconsueto ed in base alla quale codesto medesimo giudizio sintetizza ciò che primariamente – nella linea della definizione – può e deve dirsi della SS.ma Eucaristia.
Il “perché” ha in effetti una funzione esplicativa; ma non è detto che la spiegazione addotta rimuova automaticamente ogni ombra ed ogni ostacolo alla retta comprensione di ciò che il giudizio stesso intendeva definire o comunque illustrare. Saranno i lettori di questa nota a sperimentare l’efficacia illuminante o meno del “perché”.
Esso proclama l’abolizione del rito antico e la sua sostituzione con il dono della vita reale, “che Gesù ha fatto con la sua persona e che noi a nostra volta facciamo”, celebrando l’Eucaristia, unico sacrificio importante davanti a Dio. Da qui una deduzione (“questo comporta”): l’incompatibilità dell’Eucaristia “con ogni dualismo tra sacro e profano: non si può varcare la soglia del tempio come se si entrasse in un altro mondo, poi uscire e tornare nella vita reale, non tenendo conto di quello che il Vangelo ci chiede”.
Se ne deduce:
- che Gesù sostituì il rito del sacrificio antico con il dono della vita reale;
che questo dono non è un rito;
- che tutt’il popolo cristiano, “celebrando l’Eucaristia”, fa lo stesso dono di Cristo, il dono quindi della “vita reale”;
- ch’esso non ha nulla in comune col dualismo tra sacro e profano;
- che, pertanto, l’esser in chiesa o l’esser in piazza, o al bar, o al lavoro, è la stessa cosa;
altrimenti, non si tien conto di ciò che il Vangelo ci chiede.
Al riguardo si può osservare:
nessun dubbio sulla sostituzione del “sacrificio antico”, da parte di Cristo, con il sacrificio di sé, realmente presente nel pane e nel vino del mistero eucaristico, il quale però non è affatto “il dono della vita reale”, specie se la vita reale, come appare dal seguito della spiegazione, è il quotidiano al di fuori del tempio, vale a dire la vita normale.
E’ vero che l’Eucaristia è dono, nel quale e mediante il quale Gesù elargisce se stesso, “corpo sangue anima e divinità”, ma non in alternativa a rito, tant’è che la liturgia della quale è il vertice è anche un insieme di riti e che la celebrazione eucaristica è attuabile mediante un rito sia ordinario, sia straordinario.
E’ anche vero che tutt’il popolo cristiano partecipa, sì, alla celebrazione eucaristica, non però sacramentalmente, non essendo in grado di consacrare; non può quindi né fare lo stesso “dono” di Cristo, né ripeterlo o, meglio, attualizzarlo riportandolo nel presente mediante la consacrazione del pane e del vino.
Assurda appare la sua contrapposizione al dualismo – l’espressione “ogni dualismo”, non ostante che questo venga specificato e ben individuato, è un’assoluta mancanza di logica – tra sacro e profano. Già di per sé la Liturgia è a titolo speciale nella categoria del sacro e raggiunge la sacralità massima proprio con la celebrazione eucaristica. L’incompatibilità non si verifica quindi tra l’Eucaristia e il dualismo tra sacro e profano, ma tra l’Eucaristia e quel profano che, di natura sua, contraddice il sacro.
L’esser dunque in chiesa o al bar, o in qualunque altro posto che non sia costituzionalmente sacro o ad esso addetto, ha la sua sostanziale differenza.
Come poi, tenendo conto di codesta differenza, si venga meno “a ciò che il Vangelo ci chiede”, può paragonarsi ad uno dei misteri detti di “primo grado”, ossia inesplicabili anche dopo averne conosciuto l’esistenza. E’ doveroso tener conto della differenza tra sacro e profano per non contaminare la celebrazione eucaristica con qualcosa che la contraddica; ma non si vede come, impedendo una tale contaminazione, venga tacitata un’esigenza evangelica.
Analizzato il “perché epesegetico” in ognuna delle sue spiegazioni, si rimane letteralmente a bocca asciutta: quel “perché” avrebbe dovuto far capire la ragione per la quale l’Eucaristia “è il più laico dei sacramenti”: avrebbe pertanto dovuto spiegare la natura laica dei sette sacramenti e metter ben in evidenza il massimo di tale laicità nel sacramento eucaristico. Ma di quant’era lecito aspettarsi da un “perché epesegetico”, e di quanto anzi esso stesso prometteva, neanche una parola. Quelle profferite con l’empito d’una cascata inarrestabile, si perdono in un pelago d’asserti o di pensieri insostenibili e perfino assurdi; e senza mai entrar in argomento.
Se fosse di manica larga, il lettore stesso potrebbe forse tentare d’individuar un riferimento alla laicità dei sacramenti, nonché alla sua massima esponenza eucaristica, nell’asserito contrasto fra l’Eucaristia ed il dualismo sacro-profano.
Se infatti l’Eucaristia è incompatibile con tale dualismo, tenuto conto dell’insistenza sul concetto di “vita reale” e sulla sua continuità dentro e fuori del tempio, parrebbe logico dedurne non solo l’annullamento del dualismo ad opera dell’Eucaristia, ma anche il carattere profano, o comunque non sacro di essa. E da tale carattere risalire alla sua laicità. Se non che laicità non è profanità e pertanto il problema, anche a chi è di manica larga ed è disposto a concedere anche più del possibile, si ripropone. In prim’istanza, infatti, occorre specificare la nozione di laico/laicità.
2 – Sul significato del termine –
Ho accennato alla violenza cui non di rado le parole vengon sottoposte. Poche, però, ne han subita tanta quanta la parola laico. Risalendo alla sua origine, nulla essa oggi presenta di ciò che la caratterizzò al suo primo apparire. Sì, in parte, questa è la sorte di tutte le parole; l’uso le modifica e talvolta si stenta a riconoscere nel significato attuale quello originario. E tuttavia di esso rimane sempre qualcosa, che l’analisi del linguaggio riesce a rintracciare. Laico è l’eccezione.
Ho dovuto più volte, per motivi analoghi a quello per il quale sto ora scrivendo, riferirmi a due analisi storiche sul concetto di laico: l’una di J. de la Potterie e l’altra del sottoscritto, non perché sian le uniche, ma perché si completan a vicenda. A correzione dell’idea che laico, ignoto al mondo pagano, sarebbe nato agl’inizi del Cristianesimo, de la Potterie dimostra che già nel 3° sec. a. C. un papiro greco parla di “laikà tethrammèna” e collega il termine laico col mondo agricolo. Taccio su altre testimonianze della grecità precristiana, sostanzialmente concorde nel dare a “laikòs” il significato che si riscontrerà poi nel Thesaurus Græcæ Linguæ: popolare, volgare, subalterno, plebeo, addetto ai lavori campestri, non nobile, non impiegato, non militare né sacerdote.
Col senso di “non sacerdote”, laico entra relativamente presto nel vocabolario protocristiano. Verso il 96 d. C. san Clemente Romano scrive: “Al sommo sacerdote son riservati compiti specifici, ai presbiteri è assegnato un proprio ufficio (alla lettera: posto), ai leviti spettano determinati servizi. L’uomo laico obbedisce (alla lettera: è obbligato) a norme laicali”.
Una prima osservazione, di non secondaria importanza: mentre nell’uso coevo in ambito giudaico ed ellenistico laico indica per lo più una cosa (pane, via, tassa, lavoro), con Clemente è detto anche d’una persona. Da allora per la Chiesa sarà sempre così, con una particolarità: la parola non si limiterà a designar una persona, ma anche la sua condizione di battezzato, se pur non elevato ai gradi dell’Ordine sacro.
Le testimonianze patristiche, con particolare riferimento a Tertulliano, san Gerolamo e sant’Agostino, e quelle letterarie greco-romane, sulle quali ha insistito la ricerca altamente specializzata di Schrijnen, Mohrmann, Pagliaro e Belardi, Boscherini ed altri, hanno agevolato alla Chiesa l’acquisizione pacifica del concetto di laico nel suo duplice senso, positivo (un battezzato) e negativo (non ordinato, “nullum in clero ordinem adeptus”). Un tale concetto, inoltre, ha riscattato per sempre il laico dal senso deteriore che qualificava la parola in origine e nelle sue rare apparizioni letterarie precristiane.
Che in tal senso si tratti d’un cristianismo indiretto, ovvero d’una parola già esistente nella letteratura ellenistica e cristianizzata dall’uso letterario e liturgico dei cristiani, è probabile; certo è che non si tratta d’un cristianismo diretto, ovvero d’un lemma creato “ex novo” dal gergo cristiano.
E certo è pure che, nonostante le vicende non sempre trasparenti dell’uso, laico ha mantenuto nella Chiesa e per la Chiesa il suo concetto positivo e negativo. Perfino quando, dopo il Laterano II del 1139, si ufficializzò la prima deformazione del concetto, riservando culto e cultura ai chierici e riducendo il laico a cristiano semplice, illetterato, clericodipendente, inabile ad esser introdotto nella “gerarchia sacra” che ha il governo e la guida della Chiesa.
Qualcuno, tuttavia, va oltre il dato storico oggettivo, rimproverando alla Chiesa d’aver tenuto i laici in una umiliante posizione di subalternità e non manca chi rievoca un testo di Bonifacio VIII10 secondo il quale da sempre i laici sarebbero stati una iattura per la vita ecclesiale. Pur concedendo che quelle parole segnalano la mentalità del momento, esasperatamente clericale, si dimentica ch’esse riguardano i laici vogliosi di spadroneggiare nella Chiesa assumendosi compiti non di loro pertinenza.
La deformazione ultima del concetto è storia relativamente recente, frutto d’un diffuso clima di rivendicazione, non di rado consonante con la terminologia politica del revanscismo più acceso. Nel tentativo d’emancipar il laico dalla tutela clericale, si è finito col sostener una caricatura della figura laicale, per avere staccato il lemma da ogni parentale con quello delle origini.
Oggi non son più soltanto preti e teologi c. d. d’avanguardia, ma politici e politologi, sociologi e sindacalisti, giornalisti ignoti o d’alto rango che spoglian il lemma del suo senso originario e l’usano in senso diametralmente opposto. Gli vien negata la sacertà che gli è propria, come conseguente al sacramento della rinascita, il quale d’un semplice uomo fa un rinato alla grazia e membro del Corpo mistico di Cristo.
Oggi, per riprender l’espressione inizialmente incontrata, si misura la realtà laicale col metro della “vita reale”. E tutto diventa laico, anche ciò che né è né potrà mai esser tale. La Costituzione diventa laica, e laici lo Stato, il Parlamento, i ministri, i partiti, le leggi. Si è talmente ingarbugliato il concetto di laico che nella laicità si riconosce il vertice della maturità cristiana. Come a dire: tanto più si è cristiani, quanto meno si è coerenti al battesimo e partecipi alla vita del Corpo mistico. Per tacere di quelle espressioni, ormai idiomatiche, ricorrenti un giorno sì e l’altro pure sulla bocca dei “guru” di nuova estrazione: “Parlo da laico, lo dico anche se laico, fermo restando il mio credo laico…”, e via di questo passo, quasi lasciando intendere che dietro la professione di tanta laicità, si celi un vero e proprio ateismo non confessato.
3 – Conclusione –
Non pensavo, nonostante che ormai da cinquant’anni pastori e teologi procedan a briglia sciolta e ci abbian abituato a manomissioni pressoché quotidiane della Fede cattolica, che si potesse arrivar ad una manomissione tale qual è quella che ha provocato questa mess’a punto.
Sapevo che nell’ultimo cinquantennio si son cancellati i confini tra sacro e profano all’unico scopo di negare le più elementari forme di sacertà e tutto inglobar in una visione naturalistica del creaturale, emancipandolo dal dualismo tutto medievale fra spirito e materia, sacro e profano, utopia e “vita reale”.
Sapevo pure che alla deformazione concettuale di laico ha concorso, negli ultimi tempi, un’interpretazione tutta protestante dell’incarnazione del Verbo: essa avrebbe creato una relazione nuova tra Dio ed il mondo, abolendo le contrapposizioni metafisiche, fra le quali quella del naturale e del soprannatrurale, del sacro e del profano.
Sapevo, dunque, della nuova figura di laico che si fa emergere dall’accennata abolizione: almeno in teoria, si vorrebbe una Chiesa, anzi un mondo senza gerarchie, o quanto meno senza gerarchie per divino mandato, una Chiesa ed un mondo di laici, elevati dall’incarnazione a partner di Dio per la costruzione d’una nuova realtà, una nuova giustizia, una nuova santità: a misura di laico.
Non sapevo, però, che i sette sacramenti sarebbero stati ridotti a pura cifra laicale e che, di essa, il vertice apparterrebbe al mistero eucaristico. Né immaginavo che tutto ciò sarebbe stato ammannito alla semplicità del buon popolo di Dio da un settimanale cattolico regionale, sotto la diretta responsabilità dei vescovi d’un’intera regione.
Poiché non riesco ad immaginare la loro connivenza, per concludere osservo che tali vescovi fanno ciò che fanno le stelle d’un famoso romanzo: stanno a guardare.
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