venerdì 30 settembre 2011

Le chiese dei nostri padri





Di Francesco Agnoli








Cosa sta succedendo a Reggio Emilia? In questa città da cui provengono personalità importanti del mondo cattolico progressista, come Romano Prodi e Pierluigi Castagnetti, il vescovo Adriano Caprioli ha promosso, per usare le parole di Camillo Langone, “lo sventramento del Duomo”. Ha cioè deciso che “adeguamento liturgico”, non si sa bene a cosa e perchè, significa sostituzione dei banchi con le sedie; eliminazione degli inginocchiatoi; rimozione dell’altare maggiore, dei “vecchi arnesi” che tanto piacevano a padre Pio e a don Camillo: via crucis, confessionali, statue, candelieri...

Niente di nuovo, si potrebbe dire: il pensiero protestante, che è iconoclasta per natura, si è da tempo infiltrato nella Chiesa ed ha portato con sé una forte ostilità verso la devozione popolare, fortemente concreta, carnale, propria del cattolicesimo, per sostituirla con una fede adulta, astratta e, in ultima analisi, gnostica. Però questa volta qualcosa di nuovo c’è. Qualcosa che fa pensare tempi nuovi, che piano piano vengono avanti.

Negli anni Sessanta e Settanta in molte chiese d’Italia e del mondo si attuò lo stesso scempio di Reggio. Si ritenne che gli altari non servissero più; si misero in soffitta statue e candelabri; si gettarono stendardi e paramenti sacri; tabernacoli ed altri arredi finirono nelle vetrine degli antiquari, per divenire poi soprammobili nelle case dei borghesi. Però, all’epoca, la foga innovatrice era inarrestabile. Parte del clero era come pervasa dall’idea che “rinnovamento” avrebbe significato, senza dubbio, rafforzamento della fede, allargamento dei suoi confini. Via tutto ciò che è antico, polveroso, vecchio; largo a concezioni nuove, moderne, al passo con i tempi.

I credenti laici, spesso, rimasero a guardare. Fidandosi dei loro pastori. A volte gareggiando con loro, a volte increduli, come lo saranno stati i cinesi che all’epoca della rivoluzione culturale osservavano i giovani del partito sradicare le statue di Confucio, distruggere le chiese, abbattere ogni segno del passato con un luccichio bizzarro negli occhi.

Oggi, dicevo, i tempi sono mutati. Così il buon Caprioli, che con mentalità un po’ clericale è convinto che il Duomo sia cosa sua, ha trovato sulla sua strada una forte opposizione da parte del popolo cristiano. Fedeli di tutti i giorni, come l’architetto Stefano Maccarini, hanno cominciato ad alzare la voce, e alcuni giornalisti, da Camillo Langone e Francesco Borgonovo (su Libero) ad Andrea Zambrano (sulla bussolaquotidiana.it) hanno preso netta posizione contro le iniziative iconoclaste.

Ne è nato persino un sito che monitora quanto accade, a difesa del Duomo di Reggio, per scongiurarne il più possibile lo “sventramento” (soscattedrale.re.it).

Anche Antonio Socci, in un recente articolo sui tabernacoli nelle chiese, ha sposato una analoga battaglia in difesa della architettura sacra tradizionale, ricordando che aver eliminato o accantonato il tabernacolo significa aver “estromesso dalle chiese (o almeno vistosamente allontanato dall’altare centrale e accantonato in qualche angolo) proprio Colui che ne sarebbe il legittimo “proprietario”, cioè il Figlio di Dio, presente nel Santissimo Sacramento”. C’è insomma un popolo cattolico che non ne può più della furia iconoclasta, che non ama i crocifissi come quello commissionato dal Caprioli, frutto dell’immaginazione di un artista shintoista, in cui manca, come era inevitabile vista la religiosità orientale, la figura stessa di Cristo.

Quel popolo è quello che accoglie ed accompagna il rilancio, benedetto dal pontefice, dell’adorazione eucaristica. Che, come lui, comprende, più o meno consapevolmente, che “spogliato del suo valore sacrificale, il mistero eucaristico viene vissuto come non oltrepassasse il senso e il valore di un incontro conviviale”; che vuole vedere il volto e il corpo di Cristo, persino nascondersi, come recita una bella preghiera ignaziana, nelle sue piaghe (intra tua vulnera asconde me).

Perché il Dio dei cristiani non è quello dei filosofi, dei sapienti, degli intellettuali; non è il Dio impersonale, senza volto, degli orientali; non è, soltanto, l’Architetto dell’universo, il grande orologiaio, di Cartesio e dei deisti, ma è anche, per dirla con Pascal, il Dio “cui ci si accosta senza orgoglio, e sotto il quale ci si abbassa senza disperazione”; è il Cristo visibile, in carne ed ossa, che unisce alla sua divinità la nostra umanità:“Ha avuto fame, Chi dà cibo a tutte le creature viventi; ha avuto sete, Chi ai suoi credenti dona l’acqua della Vita; ha sentito stanchezza, Chi è riposo degli affaticati; ha pianto, Chi asciugò ogni lacrima da tutti gli occhi” (Gregorio di Skevra).

Questo Dio, anche nel Duomo di Reggio, come nelle altre chiese del mondo, molti fedeli vogliono ancora vederLo scendere dal cielo sull’altare; lo vogliono adorare nel tabernacolo; lo vogliono consolare, osservando il suo corpo appeso al “dulce lignum” della croce; lo vogliono lodare e impetrare, inginocchiati, non seduti sulle sedie comode e funzionali dell’Ikea, abbassando il loro orgoglio umano verso terra e lanciando lo spirito verso il cielo.

Il Foglio, 29/9/2011

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