giovedì 30 giugno 2011

Il Signore e i sacerdoti, un'amicizia speciale





di Massimo Introvigne
30-06-2011




Il 29 giugno, nella festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e nella ricorrenza del sessantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale, Benedetto XVI ha presieduto la concelebrazione con quarantuno Arcivescovi Metropoliti ai quali ha imposto come di consueto il pallio. Oltre a insistere sul significato del pallio come legame speciale dei Metropoliti con il Vescovo di Roma, il Pontefice ha proposto una commovente riflessione sui suoi sessant'anni di sacerdozio e su che cosa significa per lui, e per tutti i sacerdoti, essere prete, incentrata sulla nozione di amicizia con Dio.

Il Papa è partito dalle parole «Non vi chiamo più servi ma amici» (Gv 15,15), «che il nostro grande Arcivescovo, il Cardinale [Michael von] Faulhaber [1869-1952], con la voce ormai un po’ debole e tuttavia ferma, rivolse a noi sacerdoti novelli al termine della cerimonia di Ordinazione. Secondo l’ordinamento liturgico di quel tempo, quest’acclamazione significava allora l’esplicito conferimento ai sacerdoti novelli del mandato di rimettere i peccati».

«"Non più servi ma amici" - ha confidato il Pontefice -: io sapevo e avvertivo che, in quel momento, questa non era solo una parola "cerimoniale", ed era anche più di una citazione della Sacra Scrittura. Ne ero consapevole: in questo momento, Egli stesso, il Signore, la dice a me in modo del tutto personale. Nel Battesimo e nella Cresima, Egli ci aveva già attirati verso di sé, ci aveva accolti nella famiglia di Dio. Tuttavia, ciò che avveniva in quel momento, era ancora qualcosa di più. Egli mi chiama amico. Mi accoglie nella cerchia di coloro ai quali si era rivolto nel Cenacolo. Nella cerchia di coloro che Egli conosce in modo del tutto particolare e che così Lo vengono a conoscere in modo particolare».

Di qui nasce il legame particolarissimo e immediato tra sacerdozio e confessione. Il Signore «conferisce la facoltà, che quasi mette paura, di fare ciò che solo Egli, il Figlio di Dio, può dire e fare legittimamente: Io ti perdono i tuoi peccati. Egli vuole che io – per suo mandato – possa pronunciare con il suo "Io" una parola che non è soltanto parola bensì azione che produce un cambiamento nel più profondo dell’essere. So che dietro tale parola c’è la sua Passione per causa nostra e per noi. So che il perdono ha il suo prezzo: nella sua Passione, Egli è disceso nel fondo buio e sporco del nostro peccato. È disceso nella notte della nostra colpa, e solo così essa può essere trasformata. E mediante il mandato di perdonare Egli mi permette di gettare uno sguardo nell’abisso dell’uomo e nella grandezza del suo patire per noi uomini, che mi lascia intuire la grandezza del suo amore.».

Se dunque la confessione è nei ricordi del Papa al centro della sua prima percezione, dopo l'ordinazione, della grandezza straordinaria del sacerdozio, subito la consapevolezza si estende alla liturgia. Sì, ha ricordato il Papa, con l'ordinazione sacerdotale Dio stesso «si confida con me: "Non più servi ma amici". Egli mi affida le parole della Consacrazione nell’Eucaristia. Egli mi ritiene capace di annunciare la sua Parola, di spiegarla in modo retto e di portarla agli uomini di oggi. Egli si affida a me. "Non siete più servi ma amici": questa è un’affermazione che reca una grande gioia interiore e che, al contempo, nella sua grandezza, può far venire i brividi lungo i decenni, con tutte le esperienze della propria debolezza e della sua inesauribile bontà».

L'importanza della nozione di amicizia con Dio, che è così speciale per il sacerdote, è sottolineata dal Papa con accenti davvero molto personali: «"Non più servi ma amici": in questa parola è racchiuso l’intero programma di una vita sacerdotale. Che cosa è veramente l’amicizia? Idem velle, idem nolle – volere le stesse cose e non volere le stesse cose, dicevano gli antichi. L’amicizia è una comunione del pensare e del volere. Il Signore ci dice la stessa cosa con grande insistenza: "Conosco i miei e i miei conoscono me" (cfr Gv 10,14). Il Pastore chiama i suoi per nome (cfr Gv 10,3). Egli mi conosce per nome. Non sono un qualsiasi essere anonimo nell’infinità dell’universo. Mi conosce in modo del tutto personale».

Con parole che contengono un'analisi di tutte le crisi contemporanee del sacerdozio, il Pontefice si chiede se a questa amicizia i preti siano sempre disponibili a rispondere nel modo più adeguato. Sì, il Signore mi conosce, ma «io conosco Lui? L’amicizia che Egli mi dona può solo significare che anch’io cerchi di conoscere sempre meglio Lui; che io, nella Scrittura, nei Sacramenti, nell’incontro della preghiera, nella comunione dei Santi, nelle persone che si avvicinano a me e che Egli mi manda, cerchi di conoscere sempre di più Lui stesso».

Nell'epoca di Facebook della parola amicizia si fa certamente un uso molto disinvolto. Eppure qui, a proposito dei sacerdoti, il Pontefice rivendica la parola in tutta la sua grandezza. «L’amicizia non è soltanto conoscenza, è soprattutto comunione del volere. Significa che la mia volontà cresce verso il "sì" dell’adesione alla sua. La sua volontà, infatti, non è per me una volontà esterna ed estranea, alla quale mi piego più o meno volentieri oppure non mi piego. No, nell’amicizia la mia volontà crescendo si unisce alla sua, la sua volontà diventa la mia, e proprio così divento veramente me stesso».

Questo dovrebbe valere per ogni amicizia seria, ma l'amicizia del sacerdote con il Signore ha qualche cosa in più. «Oltre alla comunione di pensiero e di volontà, il Signore menziona un terzo, nuovo elemento: Egli dà la sua vita per noi (cfr Gv 15,13; 10,15)». Così, ritornando sulla metafora della vigna del Signore, a lui carissima e cui aveva dedicato le sue prime parole da Pontefice, Benedetto XVI afferma che «la parola di Gesù sull’amicizia sta nel contesto del discorso sulla vite. Il Signore collega l’immagine della vite con un compito dato ai discepoli: "Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga" (Gv 15,16). Il primo compito dato ai discepoli, agli amici, è quello di mettersi in cammino - costituiti perché andiate -, di uscire da se stessi e di andare verso gli altri». Essere operai nella vigna del Signore non è facile. Implica che si superi «la pigrizia di rimanere adagiati su noi stessi, affinché Egli stesso possa entrare nel mondo».

E - la metafora si muove appunto in questa direzione - l'albero di una vita buona sacerdotale si riconoscerà dai frutti. «Dopo la parola sull’incamminarsi, Gesù continua: portate frutto, un frutto che rimanga! Quale frutto Egli attende da noi? Qual è il frutto che rimane? Ebbene, il frutto della vite è l’uva, dalla quale si prepara poi il vino». E di questa immagine, vero marchio di fabbrica del suo sacerdozio e del suo pontificato, il Papa propone un'esegesi articolata. «Perché possa maturare uva buona, occorre il sole ma anche la pioggia, il giorno e la notte. Perché maturi un vino pregiato, c’è bisogno della pigiatura, ci vuole la pazienza della fermentazione, la cura attenta che serve ai processi di maturazione. Del vino pregiato è caratteristica non soltanto la dolcezza, ma anche la ricchezza delle sfumature, l’aroma variegato che si è sviluppato nei processi della maturazione e della fermentazione. Non è forse questa già un’immagine della vita umana, e in modo del tutto particolare della nostra vita da sacerdoti? Abbiamo bisogno del sole e della pioggia, della serenità e della difficoltà, delle fasi di purificazione e di prova come anche dei tempi di cammino gioioso con il Vangelo».

In chiave autobiografica, il Papa afferma dopo sessant'anni di sacerdozio che «volgendo indietro lo sguardo possiamo ringraziare Dio per entrambe le cose: per le difficoltà e per le gioie, per le ore buie e per quelle felici. In entrambe riconosciamo la continua presenza del suo amore, che sempre di nuovo ci porta e ci sopporta». E tuttavia l'esegesi dell'immagine della vite continua: «Ora, tuttavia, dobbiamo domandarci: di che genere è il frutto che il Signore attende da noi? Il vino è immagine dell’amore: questo è il vero frutto che rimane, quello che Dio vuole da noi. Non dimentichiamo, però, che nell’Antico Testamento il vino che si attende dall’uva pregiata è soprattutto immagine della giustizia, che si sviluppa in una vita vissuta secondo la legge di Dio! E non diciamo che questa è una visione veterotestamentaria e ormai superata: no, ciò rimane vero sempre. L’autentico contenuto della Legge, la sua summa, è l’amore per Dio e per il prossimo. Questo duplice amore, tuttavia, non è semplicemente qualcosa di dolce. Esso porta in sé il carico della pazienza, dell’umiltà, della maturazione nella formazione ed assimilazione della nostra volontà alla volontà di Dio, alla volontà di Gesù Cristo, l’Amico».

Il compito - il Papa lo ricava dalla sua stessa esperienza - non è facile, e accanto al momento della dolcezza c'è quello dell'amarezza e della prova, che presto o tardi arrivano per ogni sacerdote. Ma «solo così, nel diventare l’intero nostro essere vero e retto, anche l’amore è vero, solo così esso è un frutto maturo. La sua esigenza intrinseca, la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, richiede sempre di essere realizzata anche nella sofferenza. Proprio così cresce la vera gioia. Nel fondo, l’essenza dell’amore, del vero frutto, corrisponde con la parola sul mettersi in cammino, sull’andare: amore significa abbandonarsi, donarsi; reca in sé il segno della croce. In tale contesto Gregorio Magno [540-604] ha detto una volta: "Se tendete verso Dio, badate di non raggiungerlo da soli" (cfr H Ev 1,6,6: PL 76, 1097s) – una parola che a noi, come sacerdoti, deve essere intimamente presente ogni giorno».

Dopo sessant'anni di sacerdozio, il Papa vuole trasmettere ai fratelli sacerdoti «una parola di speranza e di incoraggiamento; una parola, maturata nell’esperienza, sul fatto che il Signore è buono. Soprattutto, però, questa è un’ora di gratitudine: gratitudine al Signore per l’amicizia che mi ha donato e che vuole donare a tutti noi. Gratitudine alle persone che mi hanno formato ed accompagnato. E in tutto ciò si cela la preghiera che un giorno il Signore nella sua bontà ci accolga e ci faccia contemplare la sua gioia».



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mercoledì 29 giugno 2011

Il saluto a Milano del cardinale Scola




«Il mio cuore ha già fatto spazio a tutti e a ciascuno»




Al carissimo confratello nell’episcopato Card. Dionigi,
a tutti i fedeli della Chiesa ambrosiana,
a tutti gli abitanti dell’Arcidiocesi di Milano,
mi preme accompagnare la decisione del Santo Padre di nominarmi Arcivescovo di Milano con un primo affettuoso saluto.

Voi comprenderete quanto la notizia, che mi è stata comunicata qualche giorno fa, trovi il mio cuore ancora oggi in un certo travaglio. Lasciare Venezia dopo quasi dieci anni domanda sacrificio. D’altro canto la Chiesa di Milano è la mia Chiesa madre. In essa sono nato e sono stato simultaneamente svezzato alla vita e alla fede.

L’obbedienza è l’appiglio sicuro per la serena certezza di questo passo a cui sono chiamato. Attraverso il Papa Benedetto XVI l’obbedienza mia e Vostra è a Cristo Gesù. Per Lui e solo per Lui io sono mandato a Voi. E comunicare la bellezza, la verità e la bontà di Gesù Risorto è l’unico scopo dell’esistenza della Chiesa e del ministero dei suoi pastori. Infatti, la ragion d’essere della Chiesa, popolo di Dio in cammino, è lasciar risplendere sul suo volto Gesù Cristo, Luce delle genti. Quel Volto crocifisso che, secondo la profonda espressione di San Carlo, «faceva trasparire l’immensa luminosità della divina bontà, l’abbagliante splendore della giustizia, l’indicibile bellezza della misericordia, l’amore ardentissimo per gli uomini tutti» (Omelia del 16 marzo 1584). Gesù Risorto accompagna veramente il cristiano nella vita di ogni giorno e il Crocifisso è oggettivamente speranza affidabile per ogni uomo e ogni donna.

In questo momento chiedo a Voi tutti, ai Vescovi ausiliari, ai presbiteri, ai diaconi, ai consacrati e alle consacrate, ai fedeli laici l’accoglienza della fede e la carità della preghiera. Lo chiedo in particolare alle famiglie, anche in vista del VII Incontro mondiale.

Vi assicuro che il mio cuore ha già fatto spazio a tutti e a ciascuno.

Sono preso a servizio di una Chiesa che lo Spirito ha arricchito di preziosi e variegati tesori di vita cristiana dall’origine fino ai nostri giorni. Lo abbiamo visto, pieni di gratitudine, anche nelle beatificazioni di domenica scorsa. Mi impegno a svolgere questo servizio favorendo la pluriformità nell’unità. Sono consapevole dell’importanza della Chiesa ambrosiana per gli sviluppi dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso.

Questo mio saluto si rivolge anche a tutti gli uomini e le donne che vivono le molte realtà civili della Diocesi di Milano, ed in modo particolare alle Autorità costituite di ogni ordine e grado: «L’uomo è la via della Chiesa, e Cristo è la via dell’uomo» (Benedetto XVI, Omelia nella beatificazione di Giovanni Paolo II, 1.05.2011).

Vengo a Voi con animo aperto e sentimenti di simpatia e oso sperare da parte Vostra atteggiamenti analoghi verso di me.

Chiedo al Signore di potermi inserire, con umile e realistica fiducia, nella lunga catena degli Arcivescovi che si sono spesi per la nostra Chiesa. Come non citarne qui almeno taluni che ci hanno preceduto all’altra riva? Ambrogio, Carlo, Federigo, il card. Ferrari, Pio XI, il card. Tosi, il card. Schüster, Paolo VI e il card. Colombo.

Ho bisogno di Voi, di tutti Voi, del Vostro aiuto, ma soprattutto, in questo momento, del Vostro affetto.
Chiedo in particolare la preghiera dei bambini, degli anziani, degli ammalati, dei più poveri ed emarginati. Lo scambio d’amore con loro, ne sono certo, è ancor oggi prezioso alimento per l’operosità dei mondi che hanno fatto e fanno grande Milano: dalla scuola all’università, dal lavoro all’economia, alla politica, al mondo della comunicazione e dell’editoria, alla cultura, all’arte, alla magnanima condivisione sociale…

Un augurio particolare voglio rivolgere alle migliaia e migliaia di persone che sono impegnate negli oratori feriali, nei campi-scuola, nelle vacanze guidate, e in special modo ai giovani che si preparano alla Giornata mondiale della Gioventù di Madrid.

Domando una preghiera speciale alle comunità monastiche.

Nel porgere a Voi tutti questo primo saluto, voglio dire il mio intenso affetto collegiale ai Cardinali Carlo Maria Martini e Dionigi Tettamanzi.

Non voglio concludere queste righe senza esprimere fin da ora la mia gratitudine a tutti i sacerdoti, primi collaboratori del Vescovo, di cui ben conosco l’ambrosiana, diuturna dedizione ecclesiale e la capillare disponibilità verso gli uomini e le donne del vasto territorio diocesano.

Mi affido all’intercessione della Madonnina che, dall’alto del Duomo, protegge il popolo ambrosiano.

In attesa di incontrarVi, nel Signore Vi benedico

+ Angelo Card. Scola
Arcivescovo eletto di Milano
Venezia, 28 giugno 2011

Quel giorno l’altra storia



Auguri, Santità!

di Marina Corradi


Il 29 giugno 1951, festa di san Pietro e Paolo, nel duomo di Frisinga vennero ordinati oltre quaranta giovani sacerdoti. Nella Baviera cattolica del dopoguerra quaranta ordinazioni non erano una notizia; ne riferì, probabilmente, solo la stampa locale. Per il resto, quel venerdì era una splendida tranquilla giornata di sole. Il giorno dopo in Germania e in Europa la gente avrebbe letto distrattamente i giornali: il 29 giugno 1951 non era successo proprio niente. Tranne che uno dei quaranta di Frisinga, nel giorno di san Pietro e Paolo di sessant’anni fa, si chiamava Joseph Ratzinger. Il cardinale di Monaco, Faulhaber, li chiamò ad uno ad uno, e ciascuno rispondeva: «Adsum», eccomi. «Adsum», rispose anche, fra gli altri, un ignoto ragazzo di 24 anni.

E nessuno sapeva, nessuno poteva riconoscere, in quell’evento apparentemente ordinario, che a Frisinga prendeva forma quel mattino un altro pezzo di storia della Chiesa. Veniva ordinato sacerdote un futuro pontefice; ed era un figlio di quel popolo tedesco, da cui si era originata la più sanguinosa delle guerre che era ancora, nei pensieri di tutti in Europa, così aspramente recente e dolorosa.

29 giugno 1951, un giorno, all’apparenza, uguale nella lista oscura dei giorni di cui non ci ricorderemo. Perché la storia spesso non coincide con quella trama nascosta nella storia stessa, che i cristiani chiamano Provvidenza. Sotto alle torri di una cattedrale bavarese: «Joseph Ratzinger». «<+corsivo>Adsum<+tondo>», eccomi. Era lo stesso ragazzo, matricola del “servizio lavorativo”, che un ufficiale delle SS aveva cercato, negli ultimi disperati giorni della guerra, di indurre a un arruolamento “volontario”; e che nel rispondere «io voglio farmi prete» era stato coperto di scherni. Era l’adolescente cui un ufficiale della Wehrmacht aveva detto sprezzante: «Lascia perdere, ragazzo: nella nuova Germania non ci sarà più bisogno di preti».

E invece ce n’era ancora – ce n’è sempre – bisogno; così che il seminario di Frisinga, adibito a ospedale militare, aveva dovuto già alla fine del 1945 riaprire i battenti, per ospitare centoventi seminaristi; uomini maturi, segnati dalla sofferenza del fronte, oppure nemmeno ventenni; come quel Joseph Ratzinger, appunto, che aveva allora 19 anni appena. E il rettore del seminario di Frisinga era un sacerdote reduce da cinque anni a Dachau; e i ragazzi lo amavano e lo chiamavano semplicemente “padre”, tanto era padre per loro davvero.

Che incrocio misterioso di destini, sotto a quello vistoso, chiassoso della cronaca e della storia. Da una parte i summit dei potenti, le dichiarazioni di guerra, gli eserciti che invadono o aprono il fuoco, le folle in tripudio; dall’altra gesti quotidiani di ignoti padri e madri, e scelte dapprima silenziose, e studi, e amicizie che compiono lentamente, come tessere, un mosaico. Accanto alla storia un’altra storia, profonda come un solco d’aratro nella terra, e oscura come i semi che ci vengono buttati a morire.

E a rinascere. Non era forse un giorno all’apparenza come tutti gli altri anche il 18 maggio 1920 a Wadowice, in Polonia? A saperlo, chi era quel bambino appena nato, Karol, ci sarebbe stato da fare una gran festa. Ma nessuno sapeva – tranne Dio, che tesse il suo disegno senza clamore.
Di modo che in certi giorni, e magari anche in questi nostri, in cui tutto sembra confuso e decadente e smarrito, altri destini, non visti, forse vedono la luce e si dipanano nel corpo della Chiesa.

Noi, ignari, scoraggiati, spesso, nel trarre quasi matematicamente le somme di ciò che vediamo, nel paventare il futuro dai titoli dei giornali: dove si annuncia ogni sciagura e violenza e vergogna, ma di quell’altra storia silenziosa non si può riferire. Come il 29 giugno di sessant’anni fa, giorno all’apparenza ordinario, banale; quando un ragazzo biondo in una cattedrale tedesca, chiamato, rispondeva: «Adsum». E, egli stesso ignaro, si incamminava verso il soglio di Pietro.

Fonte: Avvenire

martedì 28 giugno 2011

Alcuni equivoci sulla musica per la liturgia (parte I)







di Aurelio Porfiri

ROMA, martedì, 28 giugno 2011 (ZENIT.org).- Quando si parla di alcuni argomenti, non sempre ci si ferma ad esaminare se le parole e i concetti dalle parole espressi rappresentano veramente ciò che si pensa a priori di condividere. Talvolta usiamo concetti di cui pensiamo avere una idea comune, ma poi ci accorgiamo che in effetti diverse persone intendono diversi significati. Talvolta, come nel nostro caso, il concetto viene piegato volontariamente o involontariamente a diversi significati per servire diverse esigenze, lecite o no. Anche, come vedremo, forzando la stessa logica per arrivare laddove si vuole arrivare.

Negli ultimi decenni, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, la musica liturgica ha conosciuto una vita tormentata. Alcuni danno la colpa di questo allo stesso Concilio, altri ritengono che lo stesso sia stato male interpretato. In effetti alcune delle parole che circondano la musica liturgica oggi, se venissero attentamente ponderate, darebbero adito a più di una obiezione. Esse sono usate in modo equivoco. Il termine “equivoco” viene dal latino aequus e vox e significa qualcosa che può essere inteso in modo simile e quindi dare luogo ad errore. In effetti, proprio su una certa ambiguità semantica e concettuale si sono giocati e si giocano tante battaglie sulla musica liturgica. Quindi vorrei cercare di fare un po' di chiarezza su questi concetti in modo che l’argomento possa essere affrontato più serenamente e senza eccessivi patemi d’animo. I concetti che si prestano ad equivoci, a mio avviso, sono i seguenti:

-- La musica liturgica deve essere semplice;

-- Il Concilio Vaticano secondo ha introdotto le lingue volgari e quindi abolito il latino;

-- Il popolo deve cantare e quindi il coro è di intralcio;

-- Bisogna valorizzare la musica e la cultura dei giovani;

-- Rappresentazione della vita come gioia;

-- In Chiesa si suona musica che la gente riconosce come propria;

-- Chi presta un servizio musicale-liturgico lo fa con il cuore e buona volontà, non si deve chiedere più di questo;

-- I professionisti non sono più ben accetti perché vogliono addirittura essere pagati mentre queste cose vanno fatte con spirito di gratuità.

Come si vede e come ciascuno può riconoscere, ci sono molti concetti che hanno fornito base per battaglie di vario genere, ancora in fase di evoluzione. E certamente i problemi non sono limitati all’elenco di cui sopra. A mio avviso, tuttavia, questo elenco rappresenta un campione molto rappresentativo. Vediamoli uno per uno.

La musica liturgica deve essere semplice

Questo è uno dei temi piu’ dibattuti. Molti dicono che la musica del passato, quella della grande tradizione musicale della Chiesa Cattolica non sarebbe più fruibile perché, per permettere al popolo di partecipare, si deve far posto ad una musica liturgica più semplice. Ma qui anche ci si scontra con una accezione fuorviante del termine “semplice”. Ora, prima di tutto bisognerebbe capire da dove deriva il termine “semplice” per evitare di usarlo impropriamente e quindi cadere negli equivoci di cui sopra. “Semplice” viene dal latino sine e plica, con il significato di “senza piega”. Quindi non ha il senso di disadorno, elementare, accessibile, ma quello di qualcosa che ha un’apparenza di perfetta unità. In effetti, la semplicità è la cosa più difficile da raggiungere, la cosa che richiede più sforzo. La musica dei grandissimi compositori sembra semplice non perchè è facile, ma perchè è così vicina ad una certa perfezione che sembra nulla si possa cambiare nel suo svolgimento, è “senza piega”. Purtroppo si equivoca il termine “semplice” con “banale”, si pensa che semplice voglia dire fare le cose con faciloneria. Ma in effetti per ottenere la semplicità è necessaria un’applicazione ancora più ferrea. Quindi, quando si intende che la musica liturgica in alcune sue espressioni deve essere semplice per essere accessibile al canto di tutti, non si dovrebbe mai implicare un abbassamento qualitativo ma semplicemente adombrare una modalità diversa di composizione. In effetti la parola semplicità venne anche associata ai riti stessi nello stesso Concilio:

“I riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli ne abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni” (SC 34).

Ora, si fa riferimento alla semplicità ma si rinforza il termine con la parola “nobile”, proprio per far intendere che non si intende abbassare il livello qualitativo ma solo cercare di ripulire la liturgia da alcune sovrastrutture accumulatisi nel tempo. Non si può negare che talvolta, nei testi conciliari, frutto talvolta di compromessi tra fazioni di pensiero opposto, si presenta un carattere che Romano Amerio nell'ormai classico “Iota Unum” (1989) definiva “anfibologico”. Questo termine sta a significare che certe affermazioni possono essere lette in due modi opposti. Quella sopra per esempio, la citazione da SC 34 può fuorviare, specialmente quando si legge che i riti “siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli”. Ma se si legge il documento nella sua totalità si può vedere che non c’è in questa affermazione nessuna volontà diminutiva ma solo il desiderio di eliminare alcune sovrastrutture che nel tempo si erano introdotte nella liturgia. Alcuni hanno interpretato questo passaggio come la riduzione della Messa ad uso di una idea di popolo che non può che essere vaga, essendo quello di “popolo” un concetto indefinito e che non può essere quantificato o qualificato facilmente.

Il Concilio Vaticano secondo ha introdotto le lingue volgari e quindi abolito il latino

Questo è un tipico errore di logica che viene chiamato “ricorso all’autorità”. Praticamente si cita una fonte autorevole per avallare una tesi che in effetti la fonte autorevole non ha mai affermato. Ricordo sempre una situazione in cui mi sono trovato parecchi anni fa. C’era un persona che discuteva con un Diacono sulla opportunità di usare un canto in latino durante la celebrazione. Ad un certo punto il Diacono gli rinfacciava che non si poteva usare il latino perchè il Concilio lo aveva abolito. Io fui sorpreso nel sapere che a mia insaputa era stato convocato un altro Concilio dopo il Concilio Vaticano secondo, perchè per quello che ricordavo di quest’ultimo si affermava:

“L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (Sacrosanctum Concilium 36, 1).

Nei successivi punti dell’articolo 36 si concedevano maggiori possibilità alle lingue nazionali ma i punti seguenti erano appunto preceduti dal primo articolo che recitava come sopra e che mi sembrava ben lungi dall’abolire la lingua latina. Insomma, non dobbiamo fare i fanatici del latino ma neanche dobbiamo far affermare al Concilio quello che lo stesso non ha mai detto. Quindi la furia contro la musica liturgica in latino non ha veramente ragione di essere e si basa sul fondamentale equivoco sulla concessione di uno spazio più ampio alle lingue nazionali che non voleva dire necessariamente che le stesse avrebbero dovuto de jure sostituire il latino, anche se poi questo è successo de facto. Ma le recenti esortazioni di Papa Benedetto XVI dimostrano come non c’è nessun divieto dell’uso della lingua latina nella liturgia e quindi anche nella musica. Nella esortazione post-sinodale Sacramenctum Caritatis, Papa Benedetto XVI afferma a proposito di grandi celebrazioni:

“Per meglio esprimere l’unità e l’universalità della Chiesa, vorrei raccomandare quanto suggerito dal Sinodo dei Vescovi, in sintonia con le direttive del Concilio Vaticano Secondo: (182) eccettuate le letture, l’omelia e la preghiera dei fedeli, è bene che tali celebrazioni siano in lingua latina; così pure siano recitate in latino le preghiere più note (183) della tradizione della Chiesa ed eventualmente eseguiti brani in canto gregoriano. Più in generale, chiedo che i futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a celebrare la santa Messa in latino, nonché a utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano; non si trascuri la possibilità che gli stessi fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare certe parti in canto gregoriano della liturgia (184)” (Sacramenctum Caritatis 62).

Come si vede, anche in documenti recenti si afferma ben diversamente. Ma anche nei documenti precedenti, come le istruzioni applicative dopo il Concilio, pur concedendo larghissimo spazio alle lingue nazionali, mai si era proibito il latino, nel canto e nella liturgia. Si riteneva che le lingue nazionali avrebbero favorito la partecipazione dei fedeli ma non c’è mai stata una volontà sostitutiva, meramente una volontà suppletiva. La critica più frequente è che la gente non sa il latino. Questo può essere vero ma vorrei ricordare come proprio i giovani che tanto esaltiamo ascoltano quasi esclusivamente musica in lingue straniere. Quindi il problema non è quello di celebrare in una lingua che il popolo non saprebbe, ci si dovrebbe chiedere della opportunità di usare questa lingua nella liturgia. E in effetti qui il discorso porterebbe lontano.

Il popolo deve cantare e quindi il coro è di intralcio

Questo è stato un altro punto completamente frainteso. In questo caso abbiamo l’errore logico che viene definito “falso dilemma”: se A è vero quindi B deve essere falso. Se il popolo deve cantare allora il coro non può cantare perchè intralcia il canto del popolo. Ma questa è una affermazione che non solo non sta nei fatti ma è anche contraria allo spirito di tutte le direttive ecclesiastiche dal Concilio ad oggi. Quello che si voleva evitare è che il canto durante la celebrazione fosse ad esclusivo appannaggio del coro, ma mai si è voluto penalizzare od umiliare il coro nelle celebrazioni liturgiche. Ma purtroppo è quello che succede nelle parrocchie dove sacerdoti poco informati mettono alla porta il coro per una falsa idea di partecipazione, più ispirata ad un vecchio comunitarismo in cui non crede più nessuno che all’autentica dottrina della Chiesa. Quello che si dovrebbe chiedere a questi sacerdoti è di mostrare un solo documento dove viene detto che il coro deve essere escluso dalle celebrazioni. Anzi, se andiamo proprio al documento che viene spesso impugnato da questi interpreti originali del magistero della Chiesa, la Sacrosanctum Concilium, vediamo che la realtà è ben diversa:

“Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra. Si promuovano con impegno le “scholae cantorum” in specie presso le chiese cattedrali. I vescovi e gli altri pastori d’anime curino diligentemente che in ogni azione sacra celebrata con il canto tutta l’assemblea dei fedeli possa partecipare attivamente, a norma degli articoli 28 e 30” (114).

E cosa dicevano gli articoli 28 e 30? Il 28 avvertiva che nelle celebrazioni liturgiche ogni fedele deve limitarsi a svolgere quanto gli è proprio, non tutti devono fare tutto; il 30 dava alcuni suggerimenti per curare la partecipazione attiva dei fedeli, mai dicendo che questa era escludente il coro e il repertorio proprio del coro. Certo si può discutere sulle modalità della sua partecipazione, ma questa è un’altra questione. In effetti qui c’è il nodo dell’interpretazione del termine partecipazione e la sua distinzione con il partecipazionismo, dove tutti fanno tutto.


fonte: www.zenit.org

L’elevazione dell’Ostia e del Calice alla consacrazione eucaristica



Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

di Mauro Gagliardi*



A pochi giorni dalla solennità del Corpus Domini, ci piace concludere questa terza annata della nostra rubrica «Spirito della Liturgia» trattando dell’elevazione dell’Ostia e del Calice, subito dopo la consacrazione, all’interno della Messa.

L’introduzione nel Canone di questo gesto risale all’inizio del sec. XII per l’Ostia, mentre l’elevazione del Calice si imporrà più lentamente e verrà ufficialmente prescritta solo dal Messale di san Pio V (1570). Le fonti individuano la Francia come luogo di origine dell’elevazione eucaristica e sembrano suggerire che il motivo circostanziale fu la volontà di evitare che i fedeli adorassero l’Ostia già all’inizio della consacrazione, quando il sacerdote prende il pane nelle mani, per pronunciare le parole del Signore.

Sin dalla prima metà del Novecento, diversi autori hanno però sostenuto che il vero motivo dell’introduzione dell’elevazione sarebbe stato il desiderio, da parte del popolo cristiano, di guardare l’Ostia. L’opera probabilmente più indicativa al riguardo è quella di E. Dumoutet, Le désir de voir l’hostie et les origines de la dévotion au Saint-Sacrament (Paris, 1926). J.A. Jungmann, uno dei più noti liturgisti del secolo scorso, subì l’influenza di questo libro, come si nota da quanto dice sull’elevazione nel suo famoso libro del 1949 Missarum sollemnia: «È sorto [nel sec. XII] tra i fedeli un movimento religioso volto ad ottenere che sia loro concesso di posare lo sguardo su quel Santissimo Sacramento al quale osano appena di accostarsi» (ediz. it., II, p. 159). Già nel 1940, però, G.G. Grant, in un articolo pubblicato su Theological Studies, aveva mostrato che la tesi sostenuta da Dumoutet non poteva dirsi davvero fondata. Essa supponeva nel popolo una forma di devozione eucaristica, che in realtà sappiamo essere stata più effetto che causa dell’introduzione dell’elevazione. Grant sosteneva che l’elevazione fosse dovuta piuttosto a motivi dottrinali, ossia per innalzare una solida barriera liturgica contro gli errori degli eretici riguardo la presenza reale. In questo senso, l’introduzione dell’elevazione risponderebbe alla stessa preoccupazione che ha spinto Benedetto XVI a distribuire la Comunione solo in ginocchio e sulla lingua: mettere un punto esclamativo sulla dottrina della presenza reale (cf. Luce del mondo, Città del Vaticano 2010, pp. 219-220).

Ma Jungmann, pur citando Grant nel primo dei due volumi di Missarum sollemnia, mantenne la posizione di Dumoutet, presentando tutti gli argomenti che da quel momento in poi sarebbero divenuti affermazioni ripetute, negli scritti e nelle conferenze di molti teologi e pastori. Tutto quello che lì dice, come pure il legame che individua tra l’introduzione dell’elevazione e la nascita dell’adorazione eucaristica, viene presentato in fondo in termini di degenerazione, più che di progresso (cf. I, pp. 103 ss.).

La riforma liturgica post-conciliare della Messa ha dimezzato il numero delle genuflessioni che il sacerdote compie alla consacrazione, ma non ha eliminato l’elevazione dell’Ostia e del Calice. Nonostante ciò, la tesi Dumoutet-Jungmann ha continuato ad essere proposta, lasciando emergere la convinzione che elevare e guardare l’Ostia consacrata sarebbe segno di una fede poco matura, se non addirittura di una fede scaduta a livello di superstizione o di magia – certo questo, ieri come oggi, è sempre possibile; ma non è detto che rappresenti il significato del gesto in sé.

Dobbiamo al contrario riconoscere che l’introduzione dell’elevazione alla consacrazione è un punto di vero progresso nella storia della Santa Messa. È da qui che nasce quel movimento di fede eucaristica che sfocia prima nel Corpus Domini (1264) e poi in tutte le forme di sana devozione eucaristica sviluppate fino ai nostri giorni. La contemplazione adorante dell’Ostia e del Calice appena consacrati non fa altro che esprimere due punti assolutamente fermi della fede cattolica sull’Eucaristia: la transustanziazione, che avviene nell’istante stesso in cui termina la dizione delle parole consacratorie da parte del sacerdote (cf. san Tommaso, Summa Theologiae III, 75, 7); e la presenza reale di Cristo nel sacramento.

In realtà, l’elevazione esprime anche l’aspetto sacrificale della Messa, che per motivi di spazio non possiamo qui sviluppare. La duplice elevazione e le genuflessioni manifestano, e allo stesso tempo favoriscono, il giusto modo di accostarsi al Cristo eucaristico, modo segnalato da san Paolo prima (cf. 1Cor 11), e poi da sant’Agostino, con le celebri parole riprese da Benedetto XVI in Sacramentum caritatis, n. 66.

Rileggiamo il testo del Pontefice: «Mentre la riforma [post-conciliare] muoveva i primi passi, a volte l’intrinseco rapporto tra la Santa Messa e l’adorazione del Ss.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere mangiato. In realtà, alla luce dell’esperienza di preghiera della Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva detto: “nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando – Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo”».

Il fatto che durante il primo millennio cristiano non vi fosse l’uso di elevare l’Ostia alla vista dei fedeli, non significa che tale gesto vada contro la purezza della fede: significa soltanto che esso all’epoca non era stato ancora sviluppato, e che verrà introdotto in seguito, come valida manifestazione della stessa fede eucaristica dei Padri. Ai Padri, infatti, non sono affatto estranei né il senso di adorazione verso l’Eucaristia, né l’importanza del guardare con gli «occhi della fede».

I limiti di questo breve articolo non ci consentono di dilungarci. Basterà perciò ricordare un testo che negli ultimi decenni è divenuto piuttosto noto, in quanto attesta l’uso del primo millennio di ricevere la Comunione sul palmo della mano da parte dei fedeli. In questo testo delle Cathechesi mistagogiche, san Cirillo di Gerusalemme imparte alcune raccomandazioni a coloro che comunicano, affinché non vadano dispersi i frammenti eucaristici. L’attenzione si sofferma in genere su questo aspetto. Non si nota, pertanto, che egli accenna anche al tema del guardare l’Ostia consacrata prima di portarla alla bocca e che parla di questo guardare come di un sacramentale, un’azione che santifica l’uomo purificandone lo sguardo.

Ecco parte del testo: «Quando tu ti avvicini [a ricevere la Comunione], non andare con le giunture delle mani rigide, né con le dita separate; ma facendo della sinistra un trono alla destra, dal momento che questa sta per ricevere il re, e facendo cavo il palmo, ricevi il Corpo di Cristo, rispondendo “amen”. Poi, santificando con cura gli occhi con il contatto del santo corpo, prendi facendo attenzione a non perderne nulla…» (V, 21). Come minimo, si può dire che al tempo dei Padri non esisteva l’elevazione delle Specie consacrate, ma che se vi fosse stata, essi non l’avrebbero osteggiata.

La Institutio Generalis del Messale di Paolo VI (qui nell’ediz. 2008) valorizza il guardare l’Ostia consacrata durante la Messa: al n. 222 essa prescrive che, al momento dell’elevazione, «i concelebranti sollevano lo sguardo verso l’Ostia consacrata e il Calice» (n. 222 e ugualmente ai nn. 227, 230 e 233). Per quanto riguarda la «forma straordinaria» del Rito Romano, l’Ordo servandus del Messale di Giovanni XXIII stabilisce che il celebrante, rialzatosi dalla prima genuflessione rivolta all’Ostia appena consacrata, «alza l’Ostia in alto e tenendo fissi su di essa gli occhi (cosa che fa anche all’elevazione del Calice), la presenta con riverenza al popolo affinché l’adori» (VIII, 5).

Lungi dal rappresentare una degenerazione della fede eucaristica, l’elevazione dell’Ostia e del Calice consacrati fu un vero progresso nella storia della Celebrazione eucaristica, progresso che va salvaguardato e valorizzato mediante l’opportuna catechesi liturgica e il modo corretto di compiere il gesto da parte dei sacerdoti. D’altro canto, sarebbe incomprensibile ai nostri giorni opporsi ad una pratica che permette ai fedeli una maggiore partecipazione attiva ai sacri riti.

L’innesto dell’elevazione dell’Ostia e del Calice nel Canone è un segno del fatto che la liturgia della Chiesa non è un oggetto da dissezionare sul tavolo della “sala operatoria” degli esperti, bensì è soggetto vivo della fede e della preghiera ecclesiali: «Purtroppo, forse, anche da noi Pastori ed esperti, la Liturgia è stata colta più come un oggetto da riformare che non come soggetto capace di rinnovare la vita cristiana, dal momento in cui “esiste un legame strettissimo e organico tra il rinnovamento della Liturgia e il rinnovamento di tutta la vita della Chiesa. La Chiesa dalla Liturgia attinge la forza per la vita”» (Benedetto XVI, Discorso nel 50° di fondazione del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, 06.05.2011).


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*Don Mauro Gagliardi è Ordinario della Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice e della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

Fonte: ZENIT.org - 28 giugno 2011

Card. Cañizares: il Corpus Domini torni ad essere celebrato il giovedì



“Sarebbe dire a tutti che Cristo è il centro di ogni cosa”


Tornare a celebrare la festa del Corpus Domini di giovedì mostrerebbe che Cristo occupa il posto centrale e aiuterebbe a collegarla al Giovedì Santo.
Lo ha affermato il Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il Cardinale Antonio Cañizares, ai microfoni della “Radio Vaticana” in occasione della festa del Corpo e Sangue di Cristo, celebrata in molti luoghi domenica 26 giugno.

“Credo che esaltare la festa del Corpus Domini di per sé, separata dalla domenica, sarebbe una realtà gioiosa e portatrice di speranza perché presupporrebbe dire in mezzo alla settimana a tutte le persone che davvero Cristo è il centro di tutto”, ha dichiarato.

Per ottenere ciò, il porporato ha proposto di “vivere sempre più intensamente la festa del Corpus Domini nel giorno in cui si celebra attualmente, la domenica”.
Secondo il Cardinal Cañizares, se si vive intensamente questa festa, anche se di domenica, non tarderà ad arrivare il giorno in cui “si potrà tornare a celebrare di nuovo, com'è stato storicamente, la festa del Corpus Domini il giovedì, il che evoca, in qualche modo, il Giovedì Santo”.

Il porporato si è riferito anche a un detto che raccoglie la tradizione popolare spagnola di celebrare la festa dell'Eucaristia il giovedì: “Nell'anno ci sono tre giovedì che splendono più del sole: il Corpus Domini, il Giovedì Santo e il Giorno dell'Ascensione”.

“Il mio desiderio personale da moltissimo tempo è che si torni a celebrare il Corpus Domini il giovedì”, ha confidato l'ex Arcivescovo di Toledo e primate di Spagna.
Per lui, questa festa significa “riconoscere che Dio è qui”, e andare per le strade in processione con il Santissimo è un invito ad adorare il Signore, una confessione pubblica della fede in Lui e un riconoscere che procedere “accanto al Signore è quello che conta davvero per il rinnovamento e la trasformazione della società”.
“E' un giorno di gioia molto grande soprattutto in Spagna – ha aggiunto –, e per questo la festa del Corpus Domini dovrebbe avere un rilievo sempre maggiore in tutte le comunità e tra tutti i cristiani, per proclamare il fatto reale che Cristo è presente nell'Eucaristia, che Cristo è con noi”.

CITTA' DEL VATICANO, martedì, 28 giugno 2011 (ZENIT.org).-

giovedì 23 giugno 2011

Verso il 60.mo di ordinazione di Benedetto XVI: le parole del Papa sul sacerdozio, dono di Dio al servizio della Chiesa


di Alessandro Gisotti

La Chiesa si appresta a festeggiare con molteplici iniziative, in tutto il mondo, il 60.mo anniversario di ordinazione sacerdotale di Benedetto XVI, il prossimo 29 giugno. Al sacerdozio, dono inestimabile di Dio, il Papa ha dedicato numerosi interventi culminati nella proclamazione del 2010 quale Anno sacerdotale, nel 150.mo della morte di San Giovanni Maria Vianney. Riproponiamo alcune riflessioni del Papa sul ministero sacerdotale:


“Una splendida giornata d’estate, che resta indimenticabile come il momento più importante della mia vita”: con queste parole, semplici e profonde, Joseph Ratzinger ricorda, nella sua autobiografia, il giorno della sua ordinazione, il 29 giugno del 1951 nel Duomo di Frisinga. Provvidenzialmente, il futuro Pontefice viene ordinato proprio nella Solennità dei Santi Pietro e Paolo. E proprio il sacerdozio, la sua bellezza, il suo essere dono di Dio per l’uomo di ogni tempo, è tra i temi che ne stanno caratterizzando il Magistero. Il Pontefice sottolinea più volte quanto, in un tempo segnato dal relativismo, il sacerdote sia tenuto ad annunciare la Parola di Dio, non le proprie idee:

“Rendere presente, nella confusione e nel disorientamento dei nostri tempi, la luce della parola di Dio, la luce che è Cristo stesso in questo nostro mondo. Quindi il sacerdote non insegna proprie idee, una filosofia che lui stesso ha inventato, ha trovato o che gli piace; il sacerdote non parla da sé, non parla per sé, per crearsi forse ammiratori o un proprio partito; non dice cose proprie, proprie invenzioni, ma, nella confusione di tutte le filosofie, il sacerdote insegna in nome di Cristo presente, propone la verità che è Cristo stesso, la sua parola, il suo modo di vivere e di andare avanti”. (Udienza generale, 14 aprile 2010)


E ribadisce che, ancor più in tempi difficili come quelli in cui viviamo, il sacerdote è chiamato a testimoniare la Verità, ad essere profeta:

“Quella del sacerdote, di conseguenza, non di rado, potrebbe sembrare 'voce di uno che grida nel deserto', ma proprio in questo consiste la sua forza profetica: nel non essere mai omologato, né omologabile, ad alcuna cultura o mentalità dominante, ma nel mostrare l’unica novità capace di operare un autentico e profondo rinnovamento dell’uomo, cioè che Cristo è il Vivente, è il Dio vicino, il Dio che opera nella vita e per la vita del mondo e ci dona la Verità, il modo di vivere”. (Udienza generale, 14 aprile 2010)


Essere fino in fondo sacerdoti e nient’altro”: questo, osserva il Papa parlando alla Congregazione per il Clero, è ciò che i fedeli chiedono a chi ha consacrato la propria vita a Dio. Benedetto XVI ribadisce la necessità per i sacerdoti di una “vita profetica, senza compromessi”:

C’è grande bisogno di sacerdoti che parlino di Dio al mondo e che presentino a Dio il mondo; uomini non soggetti ad effimere mode culturali, ma capaci di vivere autenticamente quella libertà che solo la certezza dell’appartenenza a Dio è in grado di donare”. (Udienza a Congregazione per il Clero, 12 marzo 2010)


Ma qual è il cuore, il fondamento dell’istituzione del sacerdozio? Benedetto XVI lo ravvisa nella frase di Gesù “Non vi chiamo più servi, ma amici”:

È questo il significato profondo dell'essere sacerdote: diventare amico di Gesù Cristo. Per questa amicizia dobbiamo impegnarci ogni giorno di nuovo. Amicizia significa comunanza nel pensare e nel volere. (…) E questa comunione di pensiero non è una cosa solamente intellettuale, ma è comunanza dei sentimenti e del volere e quindi anche dell'agire”. (Messa Crismale, 13 aprile 2006)


Dal Papa, in particolare durante l’Anno Sacerdotale, arriva l’incoraggiamento ai sacerdoti a riscoprire la bellezza del loro ministero. Il Pontefice indica la dimensione, anzi la relazione in cui trovare sempre nuova linfa per la propria missione, per il proprio cammino:

Occorre stare con Gesù per poter stare con gli altri. È questo il cuore della missione. Nella compagnia di Cristo e dei fratelli ciascun sacerdote può trovare le energie necessarie per prendersi cura degli uomini, per farsi carico dei bisogni spirituali e materiali che incontra, per insegnare con parole sempre nuove, dettate dall'amore, le verità eterne della fede di cui hanno sete anche i nostri contemporanei”. (Udienza alla Fraternità San Carlo, 12 febbraio 2011)


Fonte: Radio Vaticana

mercoledì 22 giugno 2011

La Tradizione della Chiesa: né fissismo né rivoluzione né riforma ma sviluppo







Riportiamo l'intervento del Prof. don Renzo Lavatori al convegno sulla Tradizione della Chiesa, tenuto a Firenze, in Ognissanti, il 20 maggio 2011, dal titolo Quaecumque dixero vobis. La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa. Don Lavatori presenta gli assunti-chiave del libro di Mons. Gherardini, “Quod et tradidi vobis”. La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Casa Mariana Editrice, Frigento (AV), 2010, pp. 460.




La seguente presentazione del volume del prof. Gherardini si sviluppa in quattro momenti: una introduzione con la spiegazione del titolo e della dedica annessa; l’esposizione in sintesi del contenuto essenziale; la prospettiva per una traiettoria sul presente e sul futuro; una breve conclusione.

1. Titolo e dedica.



Come si può notare, le parole latine sono tratte da un testo paolino (1 Cor 11,23), dove l’apostolo richiama il mistero eucaristico, collegato al mistero della Chiesa, ricordando che lui trasmette ciò che a sua volta ha ricevuto. Il testo può essere avvicinato ad un altro simile, sempre nella Prima Lettera ai Corinzi: “Tradidi enim vobis in primis quod et accepi” (1 Cor 15,3), in riferimento all’evento della risurrezione di Cristo, sottolineando l’aspetto cristologico e soteriologico. Ambedue le citazione raccolgono i temi più cari al prof. Gherardini, attorno ai quali ha svolto non solo il suo lungo insegnamento ma anche la sua riflessione teologica apparsa sui numerosi volumi e articoli e di cui tutt’ora resta un infaticabile produttore. Il sottotitolo indica sia il contenuto centrale del volume (la Tradizione) sia gli elementi più significativi di essa (vita e giovinezza della Chiesa), offrendone in nuce l’intento di evidenziare della Tradizione la realtà vivente e vivificante, nonché la sua attualità perenne in pieno sviluppo all’interno dell’organismo ecclesiale, mostrandone la ricchezza di grazia e di luce per il compimento ultimo.

Non meno interessante appare l’iscrizione dedicatoria, fatta in latino con una particolare maestria sia a livello letterario-poetico sia per l’espressività sintetica eppur completa di quello che si raccoglie nel libro. Un vero capolavoro di armonia e di teologia. Ne facciamo la trascrizione latina, poi una nostra traduzione: “Quod Christus Ecclesiae / Quod et Christi praecones / Apostoli Patres / Omnesque per temporum vices / Pontifices Episcopi Scriptores / una voce tradidere / Quod summi docuere theologi / Quod fuso suo sanguine Martyres / et ipsi obsignaverunt / Quod semper Catholica tenuit / ac tenet Ecclesia / Hoc et recepi / et rite explanandum curavi”.

La traduzione: “Ciò che Cristo alla Chiesa / Ciò che gli araldi di Cristo / Apostoli Padri / e tutti attraverso le vicende dei tempi / Pontefici Vescovi Scrittori / ad una voce hanno trasmesso / Ciò che sommi teologi hanno insegnato / Ciò che i Martiri con il loro sangue effuso / anch’essi hanno suggellato / Ciò che sempre ha conservato / e conserva la Chiesa Cattolica / Questo e ho ricevuto / e ho curato di spiegare convenientemente”.


2. Il contenuto: “Di che cosa si tratta?”

Gherardini prende l’avvio dall’invito di Benedetto XVI di guardare il Vaticano II con gli occhi non della rottura, ma della riforma nella continuità. Questa consiste essenzialmente nella Tradizione, tanto che una riforma che si ponesse non solo estrinsecamente, ma anche intrinsecamente in contrasto o in cambiamento con quella messa in moto dal Signore Gesù non potrebbe logicamente essere considerata in continuità con essa (pp. 29-30). Da qui nascono gli errori e le ambiguità e le devianze. Per cui consegue la necessità di chiarire il giusto concetto di Tradizione cristiano-cattolica. A livello semantico il termine sia nella lingua greca che in quella latina e nelle moderne lingue neo-latine indica l’azione nella quale si trasmette o si comunica una verità, abbracciando contemporaneamente il senso attivo di chi trasmette e il passivo della cosa trasmessa e insieme il modo come viene trasmessa. Quando si tratta della Tradizione cristiana va detto che essa contiene la divina Rivelazione la cui sorgente risale a Dio stesso, sottolineando l’aspetto trascendente e teofanico; insieme comporta il passaggio di tale Verità di progenie in progenie in modo inalterato e completo. Si tratta di una componente divina e umana, che non può essere dissociata né sottaciuta: l’una, quella divina, comporta l’assolutezza del contenuto, l’altra, quella umana, richiede una totale fedeltà e coerenza, in modo che non divenga un “tradimento” anziché “Tradizione”. Di fatto la Verità salvifica manifestata pienamente in Cristo, nella sua Parola e nella sua Persona, costituisce il contenuto che va accolto, conservato e trasmesso fedelmente e integralmente, senza lasciar cadere nulla né aggiungere alcunché. Ciò non significa che la Tradizione sia un appiattito e ripetitivo compito di ripiegarsi nostalgicamente sul passato, trascurando la freschezza del presente e lo slancio verso il futuro. Tutto il contrario, ribadisce Gherardini e intende dimostrarlo in tutto il percorso del volume, in modo da far vedere la mirabile connessione tra ciò che sta alle origini e che si protrae lungo la storia per condurla al suo fino ultimo in modo che la medesima linfa vitale renda viva e feconda la trasmissione attraverso le varie situazioni umane. Lo dice in modo chiaro ed elegante: “Parlo di connessione al passato, perché son convinto che senza di essa non c’è né la realtà del presente, né la speranza del futuro. Anticipo anzi che lo stesso vale, e perciò va detto, della Fede e della Chiesa. Il passato è, per l’una e per l’altra, il grande inesauribile serbatoio che alimenta l’identità cristiana del presente in ogni sua fenomenologia storica ed escatologica. Nulla è, a tale riguardo, più deleterio d’alcune evoluzioni teoretiche contemporanee, che proprio questo vitale collegamento epocale han tentato d’annullare...” (pp. 37-38). Egli si riferisce in concreto all’impostazione di G. Alberigo come anche a quella di K. Rahner, ambedue debitori rispettivamente del pensiero husserliano e heideggeriano: l’uno negatore del passato, l’altro annullatore dell’essere, privando l’uomo della metafisica. Certi influssi si risentono anche nei testi conciliari. Conclude l’illustre Autore, in riferimento al Concilio Vaticano II: “Forse sarebbe stato più opportuno considerar il moderno non nelle culture fatalmente votate a scomparire nel postmoderno e costitutivamente inconciliabili con la verità cristiana, ma nel confronto del c.d. moderno con l’attualità sempre viva e di per sé irriformabile d’un’eredità che è oggi quello che fu ieri, al suo inizio, e che continuerà ad esser sempre così in ogni suo domani” (p. 44).


3. La prospettiva: “Dagli apostoli ad oggi, verso il domani”.

Dal contesto sopra esposto segue una visione aperta e complessa della Tradizione. Essa rende i credenti stabilmente ancorati alle origini, inseriti oculatamente nella storia, protesi nell’attesa vigilante del compimento finale. In tal modo la Chiesa procede lungo il cammino degli uomini con la solidità, l’attualità, la dinamicità, in altre parole, con la vitalità perenne e luminosa, senza lasciarsi inglobare nella mutevolezze delle cose passeggere né restarne al di fuori, ma portatrice giovanile ed efficace d’incidenza e di fecondità salvifica. Gherardini ne offre una sua definizione: “La Tradizione, in quanto ‘parola trasmessa’, è la Rivelazione stessa che la Chiesa, mediante la sua predicazione iniziata, per volere del suo divin Fondatore, fin dalle origini e mai interrotta, trasmette sotto l’assistenza dello Spirito Santo come appresa dalla viva voce di Cristo e dei suoi apostoli, ai quali – ed in essi ai loro successori – Cristo l’aveva affidata perché la ritrasmettessero per tutta la durata del tempo, fedelmente ed integralmente” (p. 279). Qui sono contenute le componenti essenziali della realtà della Tradizione: la Parola definitiva, salvifica e ultima di Cristo, identificata con la sua Persona e con le opere che compie; Parola trasmessa agli apostoli e ai loro successori, quali autentici e autorevoli custodi e maestri, in modo orale e perciò sempre viva mai fissa; pertanto la Rivelazione vive e cammina con la Tradizione, come un tutt’uno attraverso la garanzia del fatto sacramentale della Successione apostolica; essa va accolta, conservata e proclamata ininterrottamente. Qui si pone il ruolo del Magistero ecclesiastico quale organo di trasmissione e di autentica, indefettibile e infallibile interpretazione; tuttavia esso deve restare saldamente ancorato alla Scrittura e alla Tradizione, tra loro strettamente correlate, per rispettare la verità della divina Rivelazione. Rimane il delicato e sottile problema di mantenere unite le due componenti per la trasmissione: da una parte l’identità costante della verità cristiana con se stessa e dall’altra l’inserimento vivo nel contesto storico, culturale, linguistico con cui si rivolge agli uomini. L’immutabilità deve perseverare pur attraverso la mutevolezza dei tempi e dei luoghi; essa non può essere sopraffatta da questi ultimi né può rimanere chiusa in se stessa e inaccessibile al cuore umano. Questo il compito complesso ma portentoso che la Chiesa deve svolgere e lo può fare se rispetta la sua struttura divina e umana, il suo radicamento in Cristo e agli apostoli, la sua docilità allo Spirito Santo, la sua fermezza nel docere, santificare, gubernare, accompagnata dalla saggezza e sensibilità pastorale. Tanto più si radica alla fonte inesauribile delle origini cristiane, tanto più incide vigorosamente nel momento attuale (pp. 309ss.).


4. Conclusione: “Né fissismo, né rivoluzione, né semplice riforma, ma sviluppo”.

Alla fine si deduce la prospettiva in cui si pone l’Autore circa l’ammodernamento della Chiesa Cattolica, che va inteso e intrapreso nel suo vero e vitale significato: “Non d’ammodernarsi la Chiesa ha bisogno, ma d’esser se stessa; la sua singolare identità di Corpo mistico e Sposa di Cristo conferisce al suo volto lo splendore d’una perenne giovinezza, senz’alcuna necessità di ‘ritocchi’ o ‘remake’ ed ammodernamenti. È se stessa quando si mostra alla ribalta della storia con il volto di Cristo, non quello modellato dalle strutture, dalle tecniche, dalle culture, e via di questo passo” (p. 327). Infatti è proprio Cristo che dona alla sua Chiesa la perenne linfa della verità e dell’amore; d’altra parte nessun corpo organicamente strutturato può sussistere e operare se non rimane avvinto al suo capo, da cui riceve energia, vita e unità. Non è la riforma innovatrice e secolaristica, continua Gherardini, che rende la Chiesa “segno e strumento di salvezza”, ma “è il costante confronto del presente con l’eredità della traditio apostolica per confermar o ricuperare l’apostolica vivendi forma; e col volto dalla medesima conferitole andar incontro al domani” (p. 327). Si vede che la Tradizione, in ragione del suo stretto legame con le origini dell’evento redentore di Gesù Cristo, vivifica e rinvigorisce il cammino lungo i secoli trasmettendogli un costante sostegno che la rende fonte di freschezza e di validità per portare gli uomini al compimento finale della conquista del Regno dei cieli, che costituisce il senso unico e sostanzioso del pellegrinaggio terreno. Ascoltiamo a conclusione le parole dirette dell’Autore: “Fissismo/fissità, dunque, rivoluzione, riforma: tre coefficienti di rottura che, procedendo su sentieri diversi, si ritrovan insieme sul medesimo traguardo: lo strangolamento della traditio apostolica. Il fissismo/fissità ne soffoca la tensione verso il domani, inchiavardandola inesorabilmente al suo ieri; la rivoluzione recide altrettanto inesorabilmente ogni suo legame fra presente e passato; la riforma le assegna una configurazione nuova, un volto nuovo ed una nuova realtà. La novità può abbagliar e dar alla testa, ma, in ultim’analisi, nasce dalla rivoluzione ed ha un solo esito: la rottura. Cioè la morte della Tradizione. Per evitarla occorre non separare mai la Tradizione dalla vita. La vita non è fissità, né rivoluzione, né rottura; è s v i l u p p o. E sviluppo è – ormai anche un lettore non teologo lo capisce – la Tradizione” (p. 328).


don Renzo Lavatori




martedì 21 giugno 2011

Riflessione su celibato e matrimonio. Un unico amore










di Giuseppe Versaldi




La vocazione al celibato per il Regno dei cieli e la chiamata al matrimonio sovente vengono percepite, se non proprio in opposizione, almeno di difficile composizione. Da una parte, infatti, la rinuncia del celibe all'amore coniugale è vista come una rinuncia all'amore tout court e, dall'altra, la scelta di unirsi in matrimonio a volte appare come una diminuzione della purezza dell'amore. San Paolo, scrivendo ai cristiani di Efeso, usa un'espressione che offre una visione risolutiva dell'apparente antinomia tra amore verginale e amore sponsale. Parlando del dovere dell'amore reciproco tra marito e moglie, l'apostolo esalta l'originale vocazione dell'uomo a lasciare il padre e la madre per unirsi a sua moglie così che “ i due diventeranno una sola carne” (Genesi, 2, 24), ma subito aggiunge: “Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!” (Efesini, 5, 32). Tale repentino rovesciamento dei termini di paragone rivela una nuova prospettiva: la grandezza dell'amore coniugale viene sì riaffermata nella sua pienezza, ma è messa in relazione di dipendenza con l'amore di Cristo per la Chiesa.

Qui sorgono alcuni interrogativi ricorrenti anche nei confronti del magistero della Chiesa: «Come può Cristo celibe essere modello degli sposi? Come potete voi celibi insegnare e dare regole circa il matrimonio di cui non avete esperienza?». Ebbene, proprio le parole di san Paolo Indicano la risposta. L'amore di Cristo per la Chiesa è certamente insieme amore verginale e sponsale perché è amore che, per citare le parole di Benedetto XVI, «può essere qualificato senz'altro come èros, che tuttavia è anche totalmente agàpe» (Deus caritas est, 9). Un amore che è gratuito e preveniente («non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi»: 1 Giovanni, 4, 10); incondizionato e misericordioso («mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi»: Romani, 5, 8); sacrificato («Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia»: 1 Pietro, 1, 18-19). Caratteristiche, queste, che apparentemente non sembrano connotare l'amore coniugale comunemente inteso che è sì dono di sé, ma in una reciprocità che comporta un mutuo aiuto e una vicendevole gratificazione.

Eppure, proprio perché l'amore coniugale possa realizzarsi non come esperienza esaltante, ma temporanea, bensì perseverare come progetto per tutta la vita, è necessario che anche i coniugi siano capaci di un amore preveniente e gratuito così che, almeno uno, sia capace di amare anche quando l'altro non lo ama; di un amore incondizionato e misericordioso perché, almeno uno, sia capace di perdono quando il coniuge, vinta la sua debolezza, si pente; di un amore sacrificato perché, almeno uno, sappia sopportare le sofferenze dell'attesa senza rassegnarsi alla sconfitta. E in tutto questo il modello è proprio Cristo che così ha amato la sua Chiesa come sposa e «ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell'acqua mediante la parola e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Efesini, 5, 25-27).

Ha ragione, dunque, Benedetto XVI quando afferma che «in fondo l'amore è un'unica realtà, seppure con diverse dimensioni» (Deus caritas est, 8). Nel suo pieno significato l'amore è amore agapico, cioè amore capace di integrare la passione (èros) e la donazione (agàpe) così da poter soddisfare il cuore umano qualunque sia la sua vocazione. In questo senso, l'amore verginale e l'amore coniugale non possono che attingere a un'unica fonte e avere un unico modello che è Cristo.

Certo esiste una diversa modalità nelle due vocazioni, ma proprio la comune sorgente ne garantisce la complementarietà. Il carisma del celibato per il Regno può aiutare gli sposi a non assolutizzare l'amore umano e, in attesa della definitiva comunione con Dio-Amore, a sopportare il peso e il prezzo del dono di sé nonostante le debolezze dell'esperienza coniugale. Anche chi, già qui in terra, è chiamato a consacrarsi all'amore indiviso di Dio può imparare dagli sposi la concretezza e l'attualità dell'amore che non può rivolgersi solo a Dio che non vede, ma deve manifestarsi come effetto anche verso il prossimo che vede. In tal modo non si cade nell'illusione che per amare Dio sia necessario non amare nessuno di quell'amore con cui Cristo ci ha amati. La reciproca illuminazione arricchisce entrambe le vocazioni e abbellisce l'intera Chiesa nella sua missione di testimoniare nel mondo l'amore di Dio.

(©L'Osservatore Romano 22 giugno 2011)

lunedì 20 giugno 2011

La Liturgia e la necessità della ‘riforma della riforma’





Solo una riflessione sulla fonte e il culmine della vita della Chiesa può farle superare la crisi, che è una crisi di fede



di Armin Schwibach



La liturgia è la celebrazione del Mysterium Christi. La Chiesa, Corpo mistico di Cristo, offre tale servizio a Dio. “La liturgia, azione sacra per eccellenza, costituisce il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme la fonte da cui promana la sua forza vitale. Attraverso la liturgia, Cristo continua nella sua Chiesa, con essa e per mezzo di essa, l’opera della nostra redenzione” (Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, n. 219). Se la liturgia è in crisi, se è una pura rappresentazione e non il compimento operativo dell’opera di salvezza, allora la verità della fede stessa è colpita al cuore: si evapora in una celebrazione di facciata, che però non ha più nulla a che fare con la vita. La fede avvizzisce e muore, diventa un optional della sfera privata.

Proprio durante il pontificato di Benedetto XVI, si ripresenta per la Chiesa, per i fedeli e per la cultura occidentale il grande problema del nostro tempo: la crisi ecclesiale è una crisi di fede che “parte soprattutto dalla disintegrazione della liturgia, che talvolta viene concepita addirittura quasi ‘etsi Deus non daretur’, dove non importa più sapere se Dio esiste, se ci parla e ci ascolta” (Joseph Ratzinger, Aus meinem Leben. Ricordi, Stoccarda 1998, pag. 174). La crisi di fede tuttavia non è soltanto un problema religioso o interno alla Chiesa, ma si presenta nel contesto di una crisi di identità dell’uomo moderno e della società odierna.

La crisi di fede è una crisi di libertà. La libertà si è fatta noiosa e senza gusto, si manifesta semplicemente come assenza di vincoli e regolamenti, e vi aggiunge la pretesa che tutto si possa fare senza limiti e arbitrariamente. All’uomo di oggi apparentemente libero, riesce difficile vedere o accettare che alla base dell’autorealizzazione e dell’autoaffermazione, sta innanzitutto la consapevolezza di essere stati noi per primi fatti e creati. E’ la verità dell’Essere divino che si dona come immagine all’essere umano. Quanto più si è vicini a Dio, tanto più si è vicini all’altro.

Al contrario, le false libertà dell’autonomia radicale conducono agli abissi della solitudine, alla perdita della fiducia originale, all’incapacità di amare. L’uomo, lasciato all’impulso sfrenato del peccato originale, cede al tempestoso furore della confusione. Ma all’uomo occorre dire che si è veramente autonomi e liberi, quando si riconosce l’unica dipendenza ragionevole: l’uomo è libero, quando obbedisce alla legge di Dio.

La legge di Dio non è astratta, ma concreta, immediata e frutto dell’esperienza di un incontro personale con Cristo. Con l’incarnazione storica del Figlio di Dio, l’umano e il finito sono divinizzati. L’evento Cristo penetra in ogni teoria e prassi, nella ragione e nell’esperienza. Attraverso gli avvenimenti del mondo, viene offerta la possibilità di toccare il Mistero infinito e impenetrabile di Dio. La particolarità del cristianesimo sta nel fatto che la ragione, il finito e l’immediatamente accessibile non si annullano davanti a Dio, non vengono esiliati in una regione remota. Il finito diviene la via e il segno di Dio, e l’uomo è su questa via. Egli deve servire e cercare su questa via il Dio che serve. La liturgia, nella quale sempre di nuovo Dio si rende presente, è il servizio verso Dio.

E’ quindi chiaro che la crisi della liturgia è il primo segnale della crisi di fede, e in questo segnale si rispecchia la perdita della verità a favore di una falsa autonomia. La “piccola barca della Chiesa”, come papa Benedetto XVI aveva dichiarato il 29 giugno 2006, viene schernita, colpita e spinta fuori dal mondo: “sempre di nuovo essa è squassata dal vento delle ideologie, che con le loro acque penetrano in essa e sembrano condannarla all’affondamento”. Tuttavia, “il danno maggiore la Chiesa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, appannando la bellezza del suo volto” (29 giugno 2010).

La Chiesa si è fatta vittima di una modernità che è in costante conflitto con se stessa, anzi, che ha fatto del conflitto la sua propria sostanza. Ha bisogno però di riflettere su ciò che è essenziale. Lo strappo più forte e marcato per la Chiesa fu la riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano II. Il Cardinal Joseph Ratzinger descrisse una volta i due effetti della riforma liturgica più percepiti da parte dei cattolici praticanti: “la scomparsa della lingua latina e gli altari rivolti verso il popolo”. Di entrambi però non si fa menzione nei testi conciliari. Solo nella introduzione generale al Messale romano del 1969 si parla dell’altare separato dalla parete in modo che “vi si possa accedere facilmente per la celebrazione ‘versum populum’”. Il Cardinal Ratzinger evidenziò un chiarimento della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti dell’anno 2000: L’orientamento fisico deve essere distinto da quello spirituale: “Quando il celebrante officia ‘versum populum’, il suo orientamento spirituale sia sempre ‘versum Deum per Iesum Christum’”. Riti, segni e parole non devono mai svuotare lo svolgimento dei santi misteri, perciò si devono evitare posizioni unilaterali e assolutizzate.

La necessità di una nuova riflessione liturgica, e anzi di un nuovo “movimento liturgico” è stato sottolineato assai spesso in questi ultimi tempi dalle più alte autorità. Di conseguenza, con la “legge della celebrazione”, cioè con la liturgia, stanno o cadono sia la “lex orandi” – la legge della preghiera – cioè la possibilità di accostarsi alla verità divina, sia la “lex credendi” – la legge della fede – cioè la professione della verità assoluta e universale della dottrina cattolica. Si richiede pertanto come prima esigenza, una nuova catechesi eucaristica. La liturgia deve ricondurre al Mistero, invece che banalizzarlo e ridurlo al semplice umano e mondano. La liturgia deve dare espressione a ciò che è nascosto, a ciò che solo nel silenzio si può intuire. Essa deve recuperare la sua dimensione cosmica, poiché “la liturgia cristiana è un evento cosmico – la creazione prega con noi, noi preghiamo con la creazione, aprendosi perciò allo stesso tempo la strada per una nuova creazione, attesa da ogni creatura” (J. Ratzinger, prefazione all’edizione coreana de “Lo spirito della liturgia”).

Riforma e nuova coscienza possono germogliare soltanto da un’approfondita conoscenza della fede, da quella urgente necessità tanto discussa di una “riforma della riforma nella continuità”, che in questo caso riguarda soprattutto la liturgia. A tal fine però, occorrerà fare una seria opposizione tra una “ermeneutica della riforma” e una “ermeneutica della rottura”, in riferimento agli avvenimenti complessivi del Concilio Vaticano II, come pure degli eventi che ne seguirono. Occorre superare quella strana mescolanza tra rottura (con la Tradizione) e continuità (nella Tradizione), e laddove la rottura si verifica o si è verificata, segnalarlo chiaramente e lealmente, dal momento che ne va della credibilità della Chiesa, sia nella sua autocomprensione che nel suo porsi dinanzi all’intera cristianità.

Soltanto quando la Chiesa si ricorderà di nuovo in modo deciso di possedere il soprannaturale “munus docendi”, quando porterà alla luce del giorno la sua forza dogmatica, quando chiamerà l’errore “errore” e che cosa è l’errore, che essa possiede e crea la bellezza, e che cosa è la bellezza, allora si potrà percorrere la via stretta – via che, in ultima analisi, di nuovo conduce nella profondità dei divini misteri e che perciò non può essere facile. La Chiesa non si può sottrarre a tale compito, perché è chiamata alla santificazione: “la Chiesa adempie la funzione di santificare in modo peculiare mediante la sacra liturgia, che è ritenuta come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo, nel quale per mezzo di segni sensibili viene significata e realizzata, in modo proprio a ciascuno, la santificazione degli uomini e viene esercitato dal Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle membra, il culto di Dio pubblico integrale” (CIC 1983, can. 834 § 1).

Così affermava Benedetto XVI, l’11 giugno 2010, nella sua omelia della Messa a conclusione dell’Anno Sacerdotale: “Il pastore ha bisogno del bastone contro le bestie selvatiche che vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano il loro bottino. Accanto al bastone c’è il vincastro che dona sostegno e aiuta ad attraversare passaggi difficili. Ambedue le cose rientrano nel ministero della Chiesa, nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio d’amore”.

“Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non ci lasciamo strappare via. Al tempo stesso però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il vincastro del pastore – vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore”. Resta da sperare che il bastone dell’amore sia usato con chiarezza.

L’anno 2015 è in arrivo: una buona occasione per utilizzare il tempo attuale e far sì che la verità trionfi. Papa Benedetto XVI ha mostrato a tutta la Chiesa una via precisa con il Motu proprio “Summorum Pontificum”. Le ha fatto un regalo, col quale è ora possibile riconoscere i vecchi peccati di omissione, chiedere perdono e osare un nuovo inizio nella verità. Sciocco sarebbe chi rifiutasse tale dono.


fonte: Kath.net, 17/06/2011

domenica 19 giugno 2011

La preghiera di San Marino per la visita del Papa




Oggi, 19 giugno, il Papa visita la diocesi di San Marino-Montefeltro.
Pubblichiamo la preghiera che testimonia come ci si prepara per fare in modo che un evento così importante vada oltre l'emozione del momento per costruire una più solida comunità cristiana e per rendere incontrabile per tutti l'avvenimento cristiano. Si tratta della preghiera che il Vescovo ha voluto che si recitasse in ogni chiesa della Diocesi per preparare la visita:




« O Signore nostro Gesù Cristo, concedi a noi tuoi fedeli della Chiesa di San Marino-Montefeltro di comprendere e accogliere nella fede l’inestimabile dono della Visita che il Santo Padre Benedetto XVI compirà alla nostra Chiesa Particolare.

Aumenta in noi, o Signore per mezzo di questa Visita la nostra fede in Te, la nostra testimonianza di discepoli che amano Te e i fratelli, il nostro senso di appartenenza alla santa Chiesa Cattolica, e fa’ che scopriamo in essa il tuo amoroso disegno di Padre che guida la nostra vita.

Benedici, o Signore, il Ministero del Successore di Pietro al quale ci uniamo con tutto il nostro affetto e la nostra docilità di figli che nella Chiesa sono uniti al loro Padre e Pastore.

Tutto ciò che Egli ti chiede oggi, anche noi te lo chiediamo con Lui.

Se Egli piange o si rallegra, spera o si offre vittima di carità per il suo Popolo, noi vogliamo essere con Lui, desideriamo che la voce della nostra anima si confonda con la Sua, perché l’incontro con Pietro, per intercessione di Maria Santissima madre delle Grazie, dei santi Patroni Leo e Marino, sia pegno di un incontro con Te o Signore, nel tempo e nell’eternità. Amen».

sabato 18 giugno 2011

FESTA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ




di dom Prosper Guéranger


Ragioni della festa e della sua tarda istituzione.

Abbiamo visto gli Apostoli nel giorno della Pentecoste ricevere lo Spirito Santo e, fedeli all'ordine del Maestro (Mt 28,19) partire subito per andare ad ammaestrare tutte le genti, e battezzare gli uomini nel nome della Santissima Trinità. Era dunque giusto che la solennità che ha per scopo di onorare il Dio unico in tre persone seguisse immediatamente quella della Pentecoste alla quale è unita da un misterioso legame. Tuttavia, solo dopo lunghi secoli essa è venuta a prender posto nell'Anno liturgico, che si va completando nel corso del tempo.

Tutti gli omaggi che la Liturgia rende a Dio hanno per oggetto la divina Trinità. I tempi sono per essa così come l'eternità; essa è l'ultimo termine di tutta la nostra religione. Ogni giorno ed ogni ora le appartengono. Le feste istituite per commemorare i misteri della nostra salvezza finiscono sempre ad essa. Quelle della Santissima Vergine e dei Santi sono altrettanti mezzi che ci guidano alla glorificazione del Signore unico nell'essenza e triplice nelle persone; quanto all'Ufficio divino della Domenica in particolare, esso offre ogni settimana l'espressione formulata in modo particolare, dell'adorazione e dell'omaggio verso questo mistero, fondamento di tutti gli altri e sorgente di ogni grazia.

Si comprende così perché la Chiesa abbia tardato tanto ad istituire una festa speciale in onore della Santissima Trinità. Mancava del tutto la ragione ordinaria che motiva l'istituzione delle feste. Una festa è la fissazione di un fatto che è avvenuto nel tempo e di cui è giusto perpetuare il ricordo e la risonanza: ora, da tutta l'eternità, prima di qualsiasi creazione, Dio vive e regna, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Questa istituzione non poteva dunque consistere se non nel fissare sul Calendario un giorno particolare in cui i cristiani si sarebbero uniti in un modo per così dire più diretto nella solenne glorificazione del mistero dell'Unità e della Trinità in una stessa natura divina.


Storia della festa.

Il pensiero si presentò dapprima ad alcune di quelle anime pie e raccolte che ricevono dall'alto il presentimento delle cose che lo Spirito Santo compirà più tardi nella Chiesa. Fin dal secolo VIII, il dotto monaco Alcuino, ripieno dello spirito della Liturgia, credette giunto il momento di redigere una Messa votiva in onore del mistero della Santissima Trinità. Sembra pure che vi sia stato spinto da un desiderio dell'apostolo della Germania, san Bonifacio. La Messa costituiva semplicemente un aiuto alla pietà privata, e nulla lasciava prevedere che ne sarebbe derivata un giorno l'istituzione di una festa. Tuttavia la devozione a questa Messa si estese a poco a poco, e la vediamo accettata in Germania dal Concilio di Seligenstadt, nel 1022.

Ma a quell'epoca in una chiesa del Belgio era già in uso una festa propriamente detta della Santissima Trinità. Stefano, vescovo di Liegi, aveva istituito solennemente la festa della Santissima Trinità nella sua Chiesa nel 920, e fatto comporre un Ufficio completo in onore del mistero. A quei tempi non esisteva ancora la disposizione del diritto comune che riserva alla Santa Sede l'istituzione delle nuove feste, e Richiero, successore di Stefano nella sede di Liegi, tenne in piedi l'opera del suo predecessore.

Essa si estese a poco a poco, e pare che l'Ordine monastico le sia stato subito favorevole; vediamo infatti fin dai primi anni del secolo XI, Bernone, abate di Reichenau, occuparsi della sua propagazione. A Cluny, la festa si stabilì abbastanza presto nel corso dello stesso secolo, come si può vedere dall'Ordinario di quel monastero redatto nel 1091, in cui essa si trova menzionata come istituita già da un certo tempo.

Sotto il pontificato di Alessandro II (1061-1073), la Chiesa Romana, che ha spesso sanzionato, adottandoli, gli usi delle chiese particolari, dovette esprimere un giudizio su questa nuova festa. Il Pontefice, in una delle sue decretali, pur costatando che la festa è già diffusa in molti luoghi, dichiara che la Chiesa Romana non l'ha accettata per il fatto che ogni giorno l'adorabile Trinità è senza posa invocata con la ripetizione delle parole: Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto, e in tante altre formule di lode.

Tuttavia la festa continuava a diffondersi, come attesta il Micrologio; e nella prima parte del secolo XII, l'abate Ruperto affermava già la convenienza di quella istituzione, esprimendosi al riguardo come faremmo oggi noi: "Subito dopo aver celebrato la solennità della venuta dello Spirito Santo, cantiamo la gloria della Santissima Trinità nell'Ufficio della Domenica che segue, e questa disposizione è molto appropriata poiché subito dopo la discesa di quel divino Spirito cominciarono la predicazione e la fede e, nel battesimo, la fede, la confessione del nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (Dei divini Uffici, l. xii, c. i).

In Inghilterra l'istituzione della festa della Santissima Trinità ebbe come autore principale il martire san Tommaso di Cantorbery. Fu nel 1162 che egli la istituì nella sua Chiesa, in ricordo della sua consacrazione episcopale che aveva avuto luogo la prima Domenica dopo la Pentecoste. Per la Francia troviamo nel 1260 un concilio di Arles presieduto dall'arcivescovo Florentin, che nel suo sesto canone inaugura solennemente la festa aggiungendovi il privilegio d'una Ottava. Fin dal 1230 l'ordine dei Cistercensi, diffuso nell'intera Europa, l'aveva istituita per tutte le sue case; e Durando di Mende, nel suo Razionale, lascia concludere che il maggior numero delle Chiese latine, durante il secolo XIII usava già la celebrazione di questa festa. Fra tali Chiese ve ne erano alcune che la ponevano non alla prima bensì all'ultima Domenica dopo la Pentecoste e altre che la celebravano due volte: una prima all'inizio della serie delle Domeniche che seguono la solennità di Pentecoste, e una seconda volta alla Domenica che precede immediatamente l'Avvento. Questo uso era mantenuto in modo particolare dalle Chiese di Narbona, di Le-Mans e di Auxerre.

Si poteva sin d'allora prevedere che la Santa Sede avrebbe finito per sanzionare una istituzione che la cristianità desiderava di vedere stabilita dappertutto. Giovanni XXII, che occupò la cattedra di san Pietro fino al 1334, completò l'opera con un decreto nel quale la Chiesa Romana accettava la festa della Santissima Trinità e la estendeva a tutte le Chiese.

Se si cerca ora il motivo che ha portato la Chiesa, guidata in tutto dallo Spirito Santo, ad assegnare così un giorno speciale nell'anno per rendere un solenne omaggio alla divina Trinità, quando tutte le nostre adorazioni, tutti i nostri ringraziamenti, tutti i nostri voti salgono in ogni tempo verso di essa, lo si troverà nella modificazione che si andava introducendo allora nel calendario liturgico. Fin verso il 1000, le feste dei santi universalmente onorati erano molto rare. Da quell'epoca appaiono in maggior numero, ed era da prevedere che si sarebbero moltiplicate sempre di più. Sarebbe giunto il tempo - e sarebbe durato per secoli - in cui l'Ufficio della Domenica che è consacrata in modo speciale alla Santissima Trinità, avrebbe ceduto spesso il posto a quello dei Santi riportati dal corso dell'anno. Si rendeva dunque necessario, per legittimare in qualche modo questo culto dei servi nel giorno consacrato alla suprema Maestà, che almeno una volta nell'anno la Domenica offrisse l'espressione piena e diretta di quella religione profonda che l'intero culto della santa Chiesa professa verso il sommo Signore, che si è degnato di rivelarsi agli uomini nella sua unità ineffabile e nella sua eterna Trinità.




L'essenza della fede.

L'essenza della fede cristiana consiste nella conoscenza e nell'adorazione di Dio unico in tre persone. Da questo mistero scaturiscono tutti gli altri, e se la nostra fede se ne nutre quaggiù come del suo supremo alimento, aspettando che la sua visione eterna ci rapisca in una beatitudine senza fine, è perché è piaciuto al sommo Signore di dichiararsi quale egli è al nostro umile intelletto, pur restando nella sua "luce inaccessibile" (1Tm 6,16). La ragione umana può arrivare a conoscere l'esistenza di Dio come creatore di tutti gli esseri, può farsi un'idea delle sue perfezioni contemplando le sue opere, ma la nozione dell'intima essenza di Dio non poteva giungere a noi se non attraverso la rivelazione che egli si è degnato di farcene.

Ora, volendo il Signore manifestarci misericordiosamente la sua essenza onde unirci più strettamente a sé e prepararci in qualche modo alla visione che deve offrirci di se stesso faccia a faccia nell'eternità, ci ha guidati successivamente di luce in luce, fin quando fossimo abbastanza illuminati per adorare l'Unità nella Trinità e la Trinità nell'Unità. Nel corso dei secoli che precedono l'Incarnazione del Verbo eterno, Dio sembra preoccupato soprattutto di inculcare agli uomini l'idea della sua unità, poiché il politeismo diventa sempre più il male del genere umano, e la nozione stessa della causa spirituale e unica di tutte le cose si sarebbe spenta sulla terra se la Somma Bontà non avesse operato costantemente per conservarla.


Il Figlio rivela il Padre.

Bisognava che giungesse la pienezza dei tempi; allora Dio avrebbe mandato in questo mondo il suo Figlio unigenito generato da lui fin dall'eternità. Egli ha realizzato questo disegno della sua munificenza, "e il Verbo fatto carne ha abitato in mezzo a noi" (Gv 1,14). Vedendo la sua gloria, che è quella del Figlio unigenito del Padre (ibidem), abbiamo conosciuto che in Dio vi è Padre e Figlio. La missione del Figlio sulla terra, nel rivelarci se stesso, ci insegnava che Dio è eternamente Padre, poiché tutto ciò che è in Dio è eterno. Senza questa rivelazione che è per noi un anticipo della luce che attendiamo dopo questa vita, la nostra conoscenza di Dio sarebbe rimasta molto imperfetta. Bisognava che vi fosse infine relazione fra la luce della fede e quella della visione che ci è riservata, e non bastava più all'uomo sapere che Dio è uno.

Ora noi conosciamo il Padre, dal quale, come ci dice l'Apostolo, deriva ogni paternità anche sulla terra (Ef 3,15). Per noi il Padre non è più soltanto il potere creatore che produce gli esseri al di fuori di sé; il nostro occhio, guidato dalla fede, penetra fin nel seno della divina essenza, ed ivi contempliamo il Padre che genera un Figlio simile a sé. Ma, per insegnarcelo, il Figlio è disceso fino a noi. Egli lo dice espressamente: "Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale piace al Figlio rivelarlo" (Mt 11,27). Gloria dunque al Figlio che si è degnato di manifestarci il Padre, e gloria al Padre che il Figlio ci ha rivelato!

Così la scienza intima di Dio ci è venuta dal Figlio che il Padre nel suo amore ci ha donato (Gv 3,16); e onde elevare i nostri pensieri fino alla sua natura divina, questo Figlio di Dio che si è rivestito della nostra natura umana nella sua Incarnazione, ci ha insegnato che il Padre e lui sono uno (ivi 17,22), che sono una stessa essenza nella distinzione delle persone. L'uno genera, l'altro è generato; l'uno si afferma potenza, l'altro sapienza e intelletto.

La potenza non può essere senza l'intelletto, né l'intelletto senza la potenza, nell'essere sommamente perfetto; ma l'uno e l'altro richiedono un terzo termine.


Il Padre e il Figlio mandano lo Spirito Santo.

Il Figlio, che è stato mandato dal Padre, è salito al cielo con la natura umana che ha unita a sé per l'eternità, ed ecco che il Padre e il Figlio mandano agli uomini lo Spirito che procede dall'uno e dall'altro. Con questo nuovo dono, l'uomo giunge a conoscere che il Signore Iddio è in tre persone. Lo Spirito, legame eterno dei primi due, è la volontà, l'amore, nella divina essenza. In Dio dunque è la pienezza dell'essere, senza principio, senza successione e senza progressi, poiché nulla gli manca. In questi tre termini eterni della sua sostanza increata egli è l'atto puro e infinito.


La Liturgia, lode della Trinità.

La sacra Liturgia, che ha per oggetto la glorificazione di Dio e la commemorazione delle sue opere, segue ogni anno le fasi di queste manifestazioni nelle quali il sommo Signore si è dichiarato interamente a dei semplici mortali. Sotto i colori scuri dell'Avvento, abbiamo attraversato il periodo di attesa durante il quale il radioso triangolo lasciava appena penetrare alcuni raggi attraverso le nubi. Il mondo implorava il liberatore, un Messia; e lo stesso Figlio di Dio doveva essere questo liberatore, questo Messia. Perché comprendessimo a fondo gli oracoli che ce lo annunciavano, era necessario che egli venisse. Ci è nato un pargolo (Is 9,6) e abbiamo avuto la chiave delle profezie. Adorando il Figlio, abbiamo adorato anche il Padre che ce lo mandava nella carne e al quale è consostanziale. Quel Verbo di vita che abbiamo visto, che abbiamo sentito, che le nostre mani hanno toccato (1Gv 1,1) nell'umanità, che si era degnato di assumere, ci ha convinti che è veramente una persona, che è distinta dal Padre, poiché l'uno manda e l'altro è mandato. Nella seconda persona divina abbiamo trovato il mediatore che ha riunito la creazione al suo autore, il redentore dei nostri peccati, la luce delle nostre anime, lo Sposo che esse sospirano.

Terminata la serie dei misteri che le sono propri, abbiamo celebrato la venuta dello Spirito santificatore, annunciato come Colui che doveva venire a perfezionare l'opera del Figlio di Dio. L'abbiamo adorato e riconosciuto distinto dal Padre e dal Figlio, che ce lo mandavano con la missione di restare con noi (Gv 14,16). Si è manifestato nelle operazioni divine che gli sono proprie, poiché sono l'oggetto della sua venuta. Esso è l'anima della santa Chiesa, e la conserva nella verità che il Figlio le ha insegnata. È il principio della santificazione delle anime nostre, in cui vuoi porre la sua dimora. In una parola, il mistero della Santissima Trinità è diventato per noi non solo un dogma imposto al nostro pensiero dalla rivelazione, ma una verità praticamente conosciuta da noi per la ineffabile munificenza delle tre divine persone, adottati come siamo dal Padre, fratelli e coeredi del Figlio, mossi e abitati dallo Spirito Santo.

MESSA

Per quanto il sacrificio della Messa sia sempre celebrato in onore della Santissima Trinità, oggi la Chiesa, nei suoi canti, nelle sue preghiere e nelle sue letture, glorifica in modo più preciso il grande mistero che costituisce il fondamento della fede cristiana. Si fa tuttavia la commemorazione della prima Domenica dopo la Pentecoste, per non interrompere l'ordine della Liturgia. La Chiesa usa in questa solennità il colore bianco in segno di letizia e per esprimere la semplicità della purezza dell'essenza divina.


EPISTOLA (Rm 11,33-36). - O profondità delle ricchezze della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono incomprensibili i suoi giudizi ed imperscrutabili le sue vie! Chi ha conosciuto il pensiero del Signore? E chi gli è stato consigliere? Chi gli ha dato per il primo, per averne da ricevere il contraccambio? Da lui e per lui e in lui son tutte le cose. A lui gloria nei secoli. Così sia.


I disegni di Dio.

Non possiamo fermare il nostro pensiero sui consigli divini senza provare una specie di vertigine. L'eterno e l'infinito confondono la nostra debole ragione, e questa ragione nello stesso tempo li riconosce e li confessa. Ora, se i disegni di Dio sulle creature già sorpassano il nostro intelletto, come potrà esserci nota l'intima natura di quell'essere supremo? Tuttavia noi distinguiamo e glorifichiamo in questa essenza increata il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Il Padre ha rivelato se stesso mandandoci il suo Figlio, oggetto della eterna compiacenza; il Figlio ci ha manifestato la sua personalità assumendo la nostra carne che il Padre e lo Spirito Santo non hanno assunta insieme con lui; lo Spirito Santo, mandato dal Padre e dal Figlio, è venuto a compiere in noi la missione da essi ricevuta. Il nostro occhio si immerge in queste sacre profondità e il nostro cuore si intenerisce pensando che, se conosciamo Dio, è appunto con i suoi benefici che egli ha formato in noi la nozione di ciò che è. Custodiamo con amore questa fede, e attendiamo con fiducia il momento in cui essa cesserà per far posto alla visione eterna di quello che avremo creduto quaggiù.


VANGELO (Mt 28,18-20). - In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: Mi è stato dato ogni potere, in cielo e in terra. Andate dunque ad ammaestrare tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo.


La fede nella Trinità.

Il mistero della Santissima Trinità manifestato dalla missione del Figlio di Dio in questo mondo e dalla promessa del prossimo invio dello Spirito Santo, è dichiarato agli uomini nelle solenni parole che Gesù pronuncia prima di salire al cielo. Egli dice: "Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo" (Mc 16,17); ma aggiunge che il battesimo sarà dato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. D'ora in poi è necessario che l'uomo non solo confessi l'unità di Dio abiurando il politeismo, ma che adori la Trinità delle persone nell'unità dell'essenza. Il grande segreto del cielo è una verità divulgata ora per tutta la terra.


Ringraziamento.

Ma se confessiamo umilmente Dio conosciuto quale è in se stesso, dobbiamo anche rendere l'omaggio d'una eterna riconoscenza alla gloriosa Trinità. Essa non si è solo degnata di imprimere le sue divine sembianze sulla nostra anima, facendola a sua immagine; ma, nell'ordine soprannaturale, si è impossessata del nostro essere e l'ha elevato ad una incommensurabile grandezza. Il Padre ci ha adottati nel suo Figlio incarnato; il Verbo illumina il nostro intelletto con la sua luce; lo Spirito Santo ci ha eletti per sua abitazione: e appunto questo esprime la forma del santo battesimo. Con quelle parole pronunciate su di noi insieme con l'infusione dell'acqua, tutta la Trinità ha preso possesso della sua creatura. Noi ricordiamo tale miracolo ogni qualvolta invochiamo le tre divine persone facendoci il segno della croce. Quando le nostre spoglie mortali saranno portate nella casa di Dio per ricevervi le ultime benedizioni e gli addii della Chiesa terrena, il sacerdote supplicherà il Signore di non entrare in giudizio con il suo servo; e per attirare su quel cristiano già entrato nella sua eternità gli sguardi della misericordia divina, egli mostrerà al supremo Giudice che quel membro del genere umano "fu segnato durante la vita con il sigillo della S. Trinità". Veneriamo in noi quell'augusta impronta che sarà eterna. La riprovazione stessa non la cancellerà. Sia dunque essa la nostra speranza, il nostro nobile titolo, e viviamo a gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.


Lode alla Santissima Trinità.

Unità indivisibile, Trinità distinta in una sola natura, sommo Dio, che ti sei rivelato agli uomini, degnati di sopportare che noi osiamo esprimere alla tua presenza le nostre adorazioni, ed effondere il ringraziamento che trabocca dai nostri cuori, quando ci sentiamo inondati dai tuoi ineffabili lumi. Unità divina, Trinità divina, noi non ti abbiamo ancora contemplata, ma sappiamo che tu sei poiché ti sei degnata di manifestarti. Questa terra che noi abitiamo sente ogni giorno affermare chiaramente l'augusto mistero la cui visione costituisce il principio della beatitudine degli esseri glorificati nel tuo seno. La stirpe umana ha dovuto aspettare per lunghi secoli prima che la divina formula le fosse pienamente rivelata; ma la generazione alla quale apparteniamo ne è in possesso, e confessa con slancio l'Unità e la Trinità nella tua essenza infinita. Una volta la parola dello Scrittore sacro, simile al lampo che solca le nubi e lascia dietro di sé l'oscurità più profonda, attraversava l'orizzonte del pensiero. Egli diceva: "Ignoro la vera Sapienza, non possiedo la scienza di ciò che è santo. Chi mai è salito al cielo e ne è ridisceso? Chi è colui che tiene nelle mani la tempesta? Chi trattiene le acque come in un involucro? Chi ha fissato i confini della terra? Sai tu quale è il suo nome? Conosci il nome del figlio suo?" (Pr 30,2-4).

Signore Iddio, grazie alla tua infinita misericordia noi conosciamo oggi il tuo nome: tu ti chiami il Padre, e colui che eternamente generi si chiama il Verbo, la Sapienza. Sappiamo anche che dal Padre e dal Figlio procede lo Spirito d'amore. Il Figlio, rivestito della nostra carne, ha abitato questa terra ed è vissuto in mezzo agli uomini; quindi è disceso lo Spirito, che rimane con noi fino alla consumazione dei destini della famiglia umana quaggiù. Ecco perché osiamo confessare l'Unità e la Trinità; poiché avendo inteso la testimonianza divina abbiamo creduto; e "poiché abbiamo creduto, parliamo con tutta sicurezza" (Sal 115,10; 2Cor 4,13). I tuoi Serafini, o Dio, sono stati intesi dal Profeta cantare: "Santo, Santo, Santo è il Signore degli eserciti" (Is 4,3). Noi non siamo che uomini mortali, ma più fortunati di Isaia, senza essere profeti come lui, possiamo pronunciare le parole angeliche e dire: "Santo è il Padre, Santo è il Figlio, Santo è lo Spirito". Essi si sostenevano in volo con due delle ali che possedevano; con altre due si velavano rispettosamente il volto e le ultime due coprivano loro i piedi. Anche noi, fortificati dallo Spirito divino che ci è stato dato, cerchiamo di sollevare sulle ali del desiderio il peso della nostra mortalità; copriamo con il pentimento la responsabilità delle nostre colpe, e velando sotto la nube della fede il debole occhio del nostro intelletto, riceviamo nell'intimo la luce che ci è infusa. Docili alle parole rivelate, ci conformiamo a ciò che esse ci insegnano; essi ci apportano la nozione, non solo distinta ma luminosa, del mistero che costituisce la sorgente e il centro di tutti gli altri. Gli Angeli e i Santi ti contemplano in cielo, con quella ineffabile timidezza che il profeta ci ha descritta mostrandoci il loro sguardo velato sotto le loro ali. Noi non vediamo ancora, non potremmo vedere, ma sappiamo, e questa scienza illumina i nostri passi e ci stabilisce nella verità. Ci guardiamo dallo "scrutare la maestà", per paura "di essere schiacciati sotto la gloria" (Pr 25,27); ma ripensando umilmente a ciò che il cielo si è degnato di rivelarci dei suoi segreti, osiamo dire:


Lode all'unico Dio.

Gloria a te, ESSENZA unica, atto puro, essere necessario, infinito senza divisione, indipendente, completo da tutta l'eternità, tranquillo e sommamente beato. In te noi riconosciamo insieme con l'inviolabile Unità, fondamento di tutte le grandezze, tre persone che sussistono distintamente ma nella loro produzione e nella loro distinzione hanno in comune la stessa natura, in modo che la sussistenza personale che costituisce ciascuna di esse e le distingue l'una dall'altra non apporta fra loro alcuna disuguaglianza. O beatitudine infinita in questa società delle tre persone che contemplano in se stesse le ineffabili perfezioni dell'essenza che le riunisce, e la proprietà di ciascuna delle tre che anima divinamente quella natura che nulla potrebbe limitare o turbare! O miracolo di quella essenza infinita allorché si degna di agire fuori di se stessa, creando altri esseri nella sua potenza e nella sua bontà, operando le tre persone d'accordo, in modo che quella che interviene in una maniera che le è propria, lo fa in virtù di una volontà comune! Un amore speciale sia dunque mostrato alla divina persona che, nell'azione comune alle tre, si degna di rivelarsi in modo speciale alle creature; e nello stesso tempo siano rese grazie alle altre due che si uniscono in una medesima volontà, quella che si manifesta in nostro favore!


Lode al Padre.

Gloria a te, o PADRE, Antico dei giorni (Dn 7,9), innascibile, senza principio ma che comunichi essenzialmente e necessariamente al Figlio e allo Spirito Santo la divinità che risiede in te! Tu sei Dio e sei Padre. Chi ti conosce come Dio e ti ignora come Padre, non ti conosce quale tu sei. Produci, generi, ma è nel tuo seno che sei generatore, poiché nulla di quanto è fuori di te è Dio. Tu sei l'essere, la potenza; ma non sei stato mai senza un Figlio. Tu dici a te stesso tutto quello che sei, ti traduci, e il frutto della fecondità del tuo pensiero, uguale a te, è una seconda persona che esce da te: è il tuo Figliuolo, il tuo Verbo, la tua parola increata. Una volta hai parlato, e la tua parola è eterna come te, come il tuo pensiero di cui è l'espressione infinita. Così lo splendore che brilla ai nostri occhi non è mai stato senza il suo splendore. Questo splendore è da lui, è con lui; emana da lui senza diminuirlo, così come non si isola da lui. Perdona, o Padre, al nostro debole intelletto di cogliere un paragone dagli esseri che tu hai creati. E se consideriamo noi stessi che siamo stati creati da te a tua immagine, non sentiamo forse che il nostro stesso pensiero, per essere distinto nella nostra mente, ha bisogno del termine che lo fissa e lo determina?

O Padre, noi ti abbiamo conosciuto mediante quel Figlio che tu eternamente generi, e che si è degnato di rivelarsi a noi. Egli ci ha insegnato che tu sei Padre e che egli è Figlio, e nello stesso tempo tu sei con lui una stessa cosa (Gv 10,30). Se un Apostolo esclama: "Signore, mostraci il Padre", egli risponde: "Chi vede me, vede il Padre mio" (Gv 14,8-9). O Unità della natura divina, in cui il Figlio, distinto dal Padre, non è tuttavia da meno del Padre! O compiacenza del Padre nel Figlio, mediante il quale egli ha coscien­za di se stesso; compiacenza d'amore intimo che egli dichiara alle nostre orecchie mortali sulle rive del Giordano e sulla vetta del Tabor (Mt 3,17; 2Pt 1,17).

O Padre, noi ti adoriamo, ma ti amiamo pure: poiché un Padre deve essere amato dai suoi figli, e noi siamo appunto tuoi figli. Un Apostolo non ci insegna forse che ogni paternità procede da te, non solo in cielo, ma anche in terra (Ef 3,15)? Nessuno è padre, nessuno ha l'autorità paterna nella famiglia, nello Stato, nella Chiesa, se non da te, in te e ad imitazione di te. Di più, tu hai voluto che "fossimo non soltanto chiamati tuoi figli, ma che tale qualità fosse reale in noi" (Gv 3,1); non per generazione come è del tuo unico Verbo, ma per una adozione che ci rende suoi "coeredi" (Rm 8,17). Il tuo divin Figlio dice parlando di te: "Io onoro il Padre mio" (Gv 8,49); anche noi ti onoriamo, o sommo Padre, Padre d'immensa maestà, e dal profondo del nostro nulla, nell'attesa dell'eternità, ti glorifichiamo insieme con i santi Angeli e i Beati della nostra stirpe. Che il tuo occhio paterno ci protegga, che si degni di compiacersi anche in quei figli che tu hai previsti, che hai eletti, che hai chiamati alla fede e che osano insieme con l'Apostolo chiamarti "il Padre delle misericordie e il Dio di ogni consolazione" (2Cor 1,3).


Lode al Figlio.

Gloria a te, o FIGLIO, o Verbo, o Sapienza del Padre! Emanato dalla sua essenza divina, il Padre ti ha dato nascita "prima dell'aurora" (Sal 109,3); egli ti ha detto: "Oggi ti ho generato" (Sal 2,7), e quel giorno che non ha né vigilia né domani è l'eternità. Tu sei Figlio e Figlio unigenito, e questo nome esprime una stessa natura con colui che ti produce; esclude la creazione, e ti mostra consustanziale al Padre, dal quale esci con una perfetta somiglianza. Tu esci dal Padre senza uscire dall'essenza divina, essendo coeterno al tuo principio, poiché in Dio nulla vi è di nuovo e nulla di temporale. In te, la filiazione non è una dipendenza, poiché il Padre non può essere senza il Figlio come il Figlio senza il Padre. Se è nobile per il Padre produrre il Figlio, non è meno nobile per il Figlio esaurire e terminare in sé stesso con la sua filiazione la potenza generatrice del Padre.

O Figlio di Dio, tu sei il Verbo del Padre. Parola increata, tu gli sei intimo come il suo pensiero, che è il suo stesso essere. In te quell'essere si traduce interamente nella sua infinità, in te si conosce. Tu sei il frutto immateriale prodotto dall'intelletto divino del Padre, l'espressione di tutto ciò che egli è sia che ti custodisca misteriosamente "nel suo seno" (Gv 1,18), sia che ti produca al di fuori. Quali termini potremo usare per definirti nella tua magnificenza, o Figlio di Dio?! Lo Spirito Santo si degna di venirci in aiuto nei libri che ha ispirato ed osiamo perciò dire col linguaggio che ci suggerisce: "Tu sei lo splendore della gloria del Padre, la forma della sua sostanza (Ebr 1,3). Tu sei lo splendore dell'eterna luce, lo specchio senza imperfezione della maestà di Dio, la rifrazione della sua eterna bontà" (Sap 7,26). Con la santa Chiesa riunita a Nicea, osiamo dirti ancora: "Tu sei Dio da Dio, lume da lume, Dio vero da Dio vero". Con i Padri e i Dottori aggiungiamo: "Tu sei la lampada eternamente accesa alla lampada eterna. La tua luce non diminuisce affatto quella che si comunica a te, e in te essa non ha nulla di inferiore a quella che l'ha prodotta".

Ma quando questa ineffabile fecondità che dà un Figlio eterno al Padre, al Padre e al Figlio un terzo termine, ha voluto manifestarsi al di fuori della divina essenza, e non potendo produrre più nulla che le fosse uguale si è degnata di chiamare dal nulla la natura intellettuale e ragionevole, come quella che più si avvicinava al suo principio, e la natura materiale come la meno lontana dal nulla, la produzione intima della tua persona nel seno del Padre, o Figlio unigenito di Dio, si è rivelata al mondo nell'atto creatore. Il Padre ha fatto tutte le cose, ma "le ha fatte nella sua Sapienza" cioè è in te che "le ha fatte" (Sal 103,24). Questa missione di operare che hai ricevuta dal Padre, deriva dalla generazione eterna con la quale egli ti produce da se stesso. Tu sei stato lanciato dal tuo misterioso riposo, e le creature visibili e invisibili sono uscite dal nulla dietro il tuo comando. Agendo in un intimo accordo con il Padre, hai diffuso sui mondi, creandoli, qualcosa di quella bellezza e di quell'armonia di cui sei il riflesso nell'essenza divina. Ma la tua missione non era esaurita dalla creazione. L'angelo e l'uomo, esseri intelligenti e liberi, erano chiamati a vedere e a possedere Dio in eterno. Per essi, l'ordine naturale non era sufficiente; bisognava che venisse aperta una via soprannaturale per condurli al loro fine. Questa via, eri tu stesso, o Figlio unigenito di Dio. Assumendo in te la natura umana, tu ti univi all'opera tua, risollevavi fino a Dio l'angelo e l'uomo, e nella tua natura finita apparivi come il tipo supremo della creazione che il Padre aveva compiuta per mezzo tuo. O mistero ineffabile! Tu sei il Verbo increato, e insieme "il primogenito di ogni creatura" (Col 1,15) che doveva essere manifestato a suo tempo, ma che avevi preceduto nell'intenzione divina tutti gli esseri che sono stati creati perché fossero i suoi sudditi.

La stirpe umana, chiamata a possederti nel suo seno come il divino intermediario, la ruppe con Dio: il peccato la precipitò nella morte. Chi poteva ormai risollevarla e restituirla al suo sublime destino? Ancora soltanto tu, o Figlio unigenito del Padre! Non avremmo mai osato sperarlo; ma "il Padre ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16), non più soltanto come mediatore, ma come redentore di noi tutti. O nostro fratello maggiore, tu gli chiedevi "che ti restituisse la tua eredità" (Sal 16,5), e questa eredità hai dovuto riscattarla. Il Padre allora ti affidò la missione di Salvatore per la nostra razza perduta. Il tuo sangue sulla croce fu il prezzo del nostro riscatto, e siamo rinati a Dio e ai nostri onori d'un tempo; per questo ci facciamo vanto, noi tuoi redenti, o Figlio di Dio, di chiamarti NOSTRO SIGNORE.

Liberati dalla morte, purificati dal peccato, ti sei degnato di restituirci tutte le nostre grandezze. Tu infatti sei ormai il CAPO, e noi siamo le tue membra. Tu sei il RE, e noi siamo i tuoi fortunati sudditi. Tu sei il PASTORE, e noi siamo le pecore del tuo unico ovile. Tu sei lo SPOSO, e la Chiesa madre nostra è la tua sposa. Tu sei il PANE vivo disceso dal cielo, e noi siamo i tuoi invitati. O Figlio di Dio, o Emmanuele, o figlio dell'uomo, benedetto il Padre che ti ha mandato; ma benedetto con lui anche tu, che hai adempiuto la sua missione, e che ti sei degnato di dirci che "le tue delizie sono nello stare con i figli degli uomini" (Pr 8,31)!


Lode allo Spirito Santo.

Gloria, a te, o SPIRITO SANTO, che emani per sempre dal Padre e dal Figlio nell'unità della divina sostanza! L'atto eterno con il quale il Padre conosce se stesso produce il Figlio che è l'immagine infinita del Padre, e il Padre è preso d'amore per quello splendore uscito da lui da prima dei secoli. Il Figlio, contemplando il principio da cui emana eternamente, concepisce per tale principio un amore uguale a quello di cui è l'oggetto. Chi potrebbe mai descrivere questo ardore, questa mutua aspirazione che è l'attrazione e il moto d'una persona verso l'altra, nell'immobilità eterna dell'essenza?! Tu sei quell'amore, o Spirito divino, che esci dal Padre e dal Figlio come da uno stesso principio, distinto dall'uno e dall'altro, ma che forma il legame che li unisce nelle ineffabili delizie della divinità: Amore vivo, personale, che procede dal Padre attraverso il Figlio, termine estremo che completa la natura divina e definisce eternamente la Trinità. Nel seno impenetrabile del gran Dio, la personalità ti deriva insieme dal Padre di cui sei l'espressione con un nuovo modo di produzione (Gv 15,26) e dal Figlio che, ricevendo dal Padre, ti dà da se stesso (Gv 16,14-15), poiché l'amore infinito che li unisce eternamente è dei due e non di uno solo. Mai il Padre fu senza il Figlio, mai il Figlio fu senza il Padre; ma neppure mai il Padre e il Figlio sono stati senza di te, o Spirito Santo! Eternamente essi si sono amati, e tu sei l'amore infinito che regna in essi, e al quale essi comunicano la loro divinità. La tua processione dall'uno e dall'altro esaurisce la virtù produttiva dell'essenza increata, e così le divine persone realizzano il numero tre; al di fuori di esse, non vi è che il creato.

Era necessario che nella divina essenza vi fosse non solo la potenza e l'intelletto, ma anche il volere dal quale procede l'azione. Il volere e l'amore sono una sola e medesima cosa, e tu sei, o divino Spirito, quel volere e quell'amore. Quando la gloriosa Trinità opera al di fuori di se stessa, l'atto concepito dal Padre, espresso dal Figlio, si compie per tuo mezzo. Pure per tuo mezzo l'amore che il Padre e il Figlio hanno l'uno per l'altro, e che si personifica in te, si estende agli esseri che saranno creati. Mediante il suo Verbo il Padre li conosce; mediante te, o Spirito amore, li ama, sicché tutta la creazione procede dalla bontà divina.

Emanando dal Padre e dal Figlio, senza perdere l'uguaglianza che hai eternamente con essi, sei mandato dall'uno e dall'altro verso la creatura. Il Figlio, mandato dal Padre, riveste per l'eternità la natura umana, e la sua persona, con le operazioni che le sono proprie, ci appare distinta da quella del Padre. Così pure, o Spirito Santo, noi ti riconosciamo distinto dal Padre e dal Figlio, quando discendi per compiere su di noi la missione che ti è stata assegnata dall'uno e dall'altro. Tu ispiri i profeti (2Pt 1,21), intervieni in Maria nella divina Incarnazione (Lc 1,35), ti posi sul fiore di Iesse (Is 9,2), conduci Gesù al deserto (Lc 4,1), lo glorifichi con i miracoli (Mt 12,28). La sua Sposa, la santa Chiesa, ti riceve anch'essa e tu l'ammaestri in ogni verità (Gv 16, 13), e rimani in lei, come suo amico, fino all'ultimo giorno del mondo (Mt 28,20). Le anime nostre sono segnate del tuo sigillo (Ef 1,13; 4,30), tu le animi della vita soprannaturale (Gal 5,25); abiti finanche nei nostri corpi, che diventano il tuo tempio (1Cor 6,19); e infine sei per noi il dono di Dio (Inno della Pentecoste), la fonte che zampilla sino alla vita eterna (Gv 4, 14; 7,39). Ti siano dunque rese distinte grazie, o Spirito divino, per le distinte operazioni che compi in nostro favore!


Ringraziamento alla Santissima Trinità.

Ed ora, dopo aver adorato l'una dopo l'altra le divine persone, passando in rassegna i loro benefici sul mondo, osiamo ancora elevare il nostro occhio mortale verso quella triplice Maestà che risplende nell'unità della tua essenza, o sommo Signore, e confessiamo ancora una volta, insieme con sant'Agostino, quello che abbiamo saputo da te su te stesso. "Tre è il loro numero: uno che ama colui che è da lui, uno che ama colui che è, e infine lo stesso amore" [1]. Ma dobbiamo ancora compiere un dovere di riconoscenza, celebrando l'ineffabile modo con cui ti sei degnato di imprimere in noi l'immagine di te stesso. Avendo risolto fin dall'eternità di farci compartecipi tuoi, (1Gv 1,3), ci hai preparati secondo un'immagine tolta dal tuo essere divino (Gen 1,27). Tre facoltà nella nostra unica anima rendono testimonianza della nostra origine che è da te; ma questo fragile specchio del tuo essere, che è la gloria della nostra natura, non era che un preludio ai disegni del tuo amore. Dopo averci dato l'essere naturale, avevi risolto nel tuo consiglio, o divina Trinità, di comunicarci anche l'essere soprannaturale. Nella pienezza dei tempi, il Padre ci manda il suo Figlio, e questo Verbo increato reca la luce al nostro intelletto; il Padre e il Figlio ci mandano lo Spirito, e lo Spirito reca l'amore alla nostra volontà; e il Padre che non può essere mandato viene da se stesso, e si dà all'anima nostra di cui trasforma la potenza. È nel santo Battesimo, nel nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo, che si compie nel cristiano questa produzione delle tre divine persone, in corrispondenza ineffabile con le facoltà elargite all'anima nostra, come l'abbozzo del capolavoro che solo l'azione soprannaturale di Dio può portare a termine.

O unione mediante la quale Dio è nell'uomo e l'uomo è in Dio! Unione mediante la quale giungiamo all'adozione del Padre, alla fraternità con il Figlio, all'eredità eterna. Ma questa abitazione di Dio nella creatura è stato l'amore eterno a formarla gratuitamente, e si mantiene fino a quando l'amore di reciprocità non viene a mancare nell'uomo. Il peccato mortale avrebbe la forza di distruggerla; la presenza delle divine persone che avevano fissato la loro dimora nell'anima (Gv 14,23) e che vorrebbero restare unite ad essa, cesserebbe nell'istante stesso in cui si spegnesse la grazia santificante. Dio allora non sarebbe più nell'anima se non per la sua immensità, e l'anima non lo possederebbe più. Allora Satana ristabilirebbe in essa il regno della sua odiosa trinità: "la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita" (1Gv 2,16). Guai a chiunque osasse sfidare Dio con una rottura così sanguinosa, e sostituire in questo modo il male al sommo bene! È la gelosia del Signore disprezzato, espulso, che ha spalancato gli abissi dell'inferno e acceso le fiamme eterne.

Ma questa rottura è dunque senza più possibile riconciliazione? Sì, se si tratta dell'uomo peccatore, incapace di riallacciare con la Santissima Trinità le relazioni che una gratuita previdenza aveva preparate e che una incomprensibile bontà aveva portate a termine. Ma la misericordia di Dio, che è, come ci insegna la Chiesa nella sacra Liturgia (Colletta della X domenica dopo la Pentecoste), l'attributo più alto della sua potenza, può operare un tale prodigio, e lo opera ogni qualvolta un peccatore si converte. A questa operazione della augusta Trinità che si degna così di discendere nuovamente nel cuore del peccatore pentito, un gaudio immenso, ci dice il Vangelo, si impossessa degli Angeli e dei Santi fin nelle altezze dei cieli (Lc 15,10), poiché il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno reso manifesto il loro amore e cercato la loro gloria rendendo giusto colui che era stato peccatore, e venendo ad abitare in quella pecorella or ora smarrita, in quel prodigo che il giorno prima faceva il guardiano dei porci, in quel ladrone che poco fa, sulla croce, insultava ancora insieme con il suo compagno l'innocente crocifisso.

Adorazione e amore a voi, dunque, o Padre, Figlio e Spirito Santo, Trinità perfetta che ti sei degnata di rivelarti ai mortali, Unità eterna e incommensurabile che hai liberato i padri nostri dal giogo dei falsi dèi. Gloria a te, come era nel principio, prima di tutti gli esseri creati; come è adesso, in quest'ora in cui attendiamo la vera vita che consiste nel contemplarti faccia a faccia; come sarà nei secoli dei secoli, quando l'eternità beata ci avrà riuniti nel tuo seno infinito. Amen.


PREGHIAMO

O Dio onnipotente ed eterno, che per mezzo della vera fede hai concesso di conoscere la gloria dell'eterna tua Trinità e di adorare la grandezza della tua Unità, fa' che questa fede fermissima ci faccia forti in tutte le avversità della vita.

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[1] Non amplius quam tria sunt: unus diligens eum qui de illo est, et unus diligens eum de quo est, et ipsa dilectio (De Trin. l. vi c. vii).



da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 352-368