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by Aldo Maria Valli
Come abbiamo riferito nei giorni scorsi, il padre gesuita Marko Rupnik, celebre per i suoi lavori artistici e per gli esercizi spirituali, è finito al centro delle cronache quando si è scoperto che è stato sottoposto a due processi: uno riguardante l’assoluzione del complice (una donna consacrata maggiorenne), tenutosi dal 2019 al 2020, e uno, dal 2021 al 2022, riguardante gli abusi sulle suore slovene e dichiarato prescritto. Al di là della cronaca e dei fatti specifici, è bene ora chiedersi: qual è la teologia di Rupnik? Domande alle quali risponde lo studio di Ivo Kerže che qui vi propongo, con un grazie all’autore.
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by Aldo Maria Valli
Come abbiamo riferito nei giorni scorsi, il padre gesuita Marko Rupnik, celebre per i suoi lavori artistici e per gli esercizi spirituali, è finito al centro delle cronache quando si è scoperto che è stato sottoposto a due processi: uno riguardante l’assoluzione del complice (una donna consacrata maggiorenne), tenutosi dal 2019 al 2020, e uno, dal 2021 al 2022, riguardante gli abusi sulle suore slovene e dichiarato prescritto. Al di là della cronaca e dei fatti specifici, è bene ora chiedersi: qual è la teologia di Rupnik? Domande alle quali risponde lo studio di Ivo Kerže che qui vi propongo, con un grazie all’autore.
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di Ivo Kerže
Penso sia opportuno integrare le tristi notizie sui procedimenti penali a carico di padre Rupnik con uno sguardo alle sue posizioni dottrinali. Non perché ci sia un legame necessario tra vita e pensiero, come si dice che insegnasse Socrate, ma perché il pensiero di un autore è senz’altro un contesto importante del suo agire e può servire almeno in parte a chiarirlo. D’altra parte la vicenda giuridica apporta nuova luce sui problemi dottrinali del gesuita sloveno davanti ai quali i lettori hanno il diritto di essere messi in guardia.
Prendiamo come punto di partenza il suo libro intitolato Secondo lo Spirito edito nel 2017 dalla Libreria Editrice Vaticana nella collana Teologia di papa Francesco (qui citerò la prima ristampa del 2018). In esso infatti possiamo trovare tutte le caratteristiche problematiche della teologia di Rupnik, che egli sviluppa pure in altri lavori.
L’opposizione tra grazia e natura
Il filo rosso che percorre tutto il volume è l’idea che per un’autentica vita cristiana sia essenziale passare dall’esistere secondo il modo dell’“individuo” a quello secondo il modo della “persona”. Per Rupnik siamo “individui” quando viviamo “secondo la natura”, mentre siamo “persone” quando viviamo “secondo lo Spirito”, cioè secondo l’ordine soprannaturale, secondo la grazia. Benché Rupnik dica di non accettare l’“opposizione tra naturale e soprannaturale” (p. 28), sta proprio in questa opposizione il tema continuo e centrale di tutto il libro (come anche di altri suoi libri), nel quale possiamo leggere che “percepiamo in noi la coesistenza di due inclinazioni, il conflitto di due volontà che chiedono entrambe soddisfazione: una che esprime la nostra natura personale, l’altra che manifesta l’istinto naturale che si oppone alla prima con un volto impersonale e che non lascia spazio alla nostra libertà” (pp. 66-67). Se viviamo come individui, viviamo secondo la natura, o come dice altrove “secondo la necessità della natura” (p. 124). L’uomo vive come persona quando non vive più secondo la natura: “La base dell’esistenza umana non è la natura umana, ma ciò che i Padri greci chiamano hypostasis – quello che sta sotto tutto –, cioè la persona” (pp. 77-78). Abramo è il prototipo ideale di colui che abbandonò l’esistenza individuale secondo natura per entrare nella dimensione soprannaturale, diventando così persona: infatti Abramo fu disposto a sacrificare a Dio addirittura il suo bene naturale più grande – suo figlio Isacco: “La chiamata del Signore chiede ad Abramo di entrare in una nuova modalità del relazionarsi, abbandonando il modo secondo natura, cioè i legami della patria e del sangue” (p 72).
Penso sia opportuno integrare le tristi notizie sui procedimenti penali a carico di padre Rupnik con uno sguardo alle sue posizioni dottrinali. Non perché ci sia un legame necessario tra vita e pensiero, come si dice che insegnasse Socrate, ma perché il pensiero di un autore è senz’altro un contesto importante del suo agire e può servire almeno in parte a chiarirlo. D’altra parte la vicenda giuridica apporta nuova luce sui problemi dottrinali del gesuita sloveno davanti ai quali i lettori hanno il diritto di essere messi in guardia.
Prendiamo come punto di partenza il suo libro intitolato Secondo lo Spirito edito nel 2017 dalla Libreria Editrice Vaticana nella collana Teologia di papa Francesco (qui citerò la prima ristampa del 2018). In esso infatti possiamo trovare tutte le caratteristiche problematiche della teologia di Rupnik, che egli sviluppa pure in altri lavori.
L’opposizione tra grazia e natura
Il filo rosso che percorre tutto il volume è l’idea che per un’autentica vita cristiana sia essenziale passare dall’esistere secondo il modo dell’“individuo” a quello secondo il modo della “persona”. Per Rupnik siamo “individui” quando viviamo “secondo la natura”, mentre siamo “persone” quando viviamo “secondo lo Spirito”, cioè secondo l’ordine soprannaturale, secondo la grazia. Benché Rupnik dica di non accettare l’“opposizione tra naturale e soprannaturale” (p. 28), sta proprio in questa opposizione il tema continuo e centrale di tutto il libro (come anche di altri suoi libri), nel quale possiamo leggere che “percepiamo in noi la coesistenza di due inclinazioni, il conflitto di due volontà che chiedono entrambe soddisfazione: una che esprime la nostra natura personale, l’altra che manifesta l’istinto naturale che si oppone alla prima con un volto impersonale e che non lascia spazio alla nostra libertà” (pp. 66-67). Se viviamo come individui, viviamo secondo la natura, o come dice altrove “secondo la necessità della natura” (p. 124). L’uomo vive come persona quando non vive più secondo la natura: “La base dell’esistenza umana non è la natura umana, ma ciò che i Padri greci chiamano hypostasis – quello che sta sotto tutto –, cioè la persona” (pp. 77-78). Abramo è il prototipo ideale di colui che abbandonò l’esistenza individuale secondo natura per entrare nella dimensione soprannaturale, diventando così persona: infatti Abramo fu disposto a sacrificare a Dio addirittura il suo bene naturale più grande – suo figlio Isacco: “La chiamata del Signore chiede ad Abramo di entrare in una nuova modalità del relazionarsi, abbandonando il modo secondo natura, cioè i legami della patria e del sangue” (p 72).
Posizione protestante circa la natura decaduta.
Diamo ora uno sguardo più attento al modo nel quale Rupnik intende la “natura” dalla quale l’uomo è chiamato a liberarsi per iniziare a vivere la vita soprannaturale propria della persona. La domanda chiave che dobbiamo porci qui è se Rupnik stia cadendo o meno nell’errore protestante secondo il quale la nostra natura è completamente sfigurata a causa della caduta originale, il che comporta da parte nostra il dovere di rinunciare radicalmente ad essa per poter abbracciare la grazia. Questa è ragione per la quale Lutero afferma, che l’uomo può essere redento sola gratia, cioè soltanto tramite l’attività di Dio ed in alcun modo tramite l’attività umana che emana dalla nostra natura.
La posizione cattolica è diversa. Secondo essa infatti il peccato originale ferì la nostra natura ma non fino al punto da danneggiarla completamente, soprattutto non nel senso, secondo il quale sarebbero in noi del tutto distrutte le facoltà del libero arbitrio e della conoscenza di realtà attingibili in modo naturale. E ben noto che Lutero affermava proprio l’annichilimento di queste due facoltà nella natura decaduta, soprattutto riguardo al loro possibile contributo alla giustificazione dell’anima. Di questo asservimento della nostra volontà al male scrisse Lutero nel suo De servo arbitrio (1525). Riguardo all’impossibilità del nostro intelletto ad indirizzarci verso il bene ed almeno in maniera indiretta a Dio invece Lutero amava esprimersi senza mezzi termini, definendo la ragione “la sgualdrina del demonio” e l’etica aristotelica come “il maggior nemico della grazia”.
La dottrina cattolica invece ci insegna che la nostra natura è chiamata a collaborare con la grazia nel senso, che dobbiamo accogliere con il libero arbitrio l’azione della grazia, secondo l’indicazione dell’intelletto, che ci spinge a fare così, facendoci conoscere Dio (la sua esistenza, i suoi attributi), le ragioni di credibilità della fede ecc. La falsità della tesi luterana risulta in maniera abbastanza chiara già dalla conseguenza che ne deriva, cioè che l’uomo giustificato dalla grazia è allo stesso tempo giusto e peccatore (simul iustus et peccator), infatti la sua natura in quanto radicalmente danneggiata permane tale anche in dopo la giustificazione. L’uomo giustificato, quindi, non può adempiere ai comandamenti. Dio lo salva con la sua grazia (alla quale l’uomo deve affidarsi) giustificandolo nel senso, che non gli imputa più la colpa del peccato: per questa sola ragione l’uomo giustificato andrà in paradiso, malgrado il fatto che peccherà mortalmente fino alla fine della sua vita. Lutero infatti reputa la concupiscenza, che è sorta in noi a causa della caduta originale, come un qualcosa di invincibile: ad essa anche l’uomo giustificato non è in grado di opporsi (concupiscientia invincibilis). In somma, si tratta di una dottrina che contraddice in flagrante l’ingiunzione di Nostro Signore alla peccatrice: “và, e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8, 11).
Diamo ora uno sguardo più attento al modo nel quale Rupnik intende la “natura” dalla quale l’uomo è chiamato a liberarsi per iniziare a vivere la vita soprannaturale propria della persona. La domanda chiave che dobbiamo porci qui è se Rupnik stia cadendo o meno nell’errore protestante secondo il quale la nostra natura è completamente sfigurata a causa della caduta originale, il che comporta da parte nostra il dovere di rinunciare radicalmente ad essa per poter abbracciare la grazia. Questa è ragione per la quale Lutero afferma, che l’uomo può essere redento sola gratia, cioè soltanto tramite l’attività di Dio ed in alcun modo tramite l’attività umana che emana dalla nostra natura.
La posizione cattolica è diversa. Secondo essa infatti il peccato originale ferì la nostra natura ma non fino al punto da danneggiarla completamente, soprattutto non nel senso, secondo il quale sarebbero in noi del tutto distrutte le facoltà del libero arbitrio e della conoscenza di realtà attingibili in modo naturale. E ben noto che Lutero affermava proprio l’annichilimento di queste due facoltà nella natura decaduta, soprattutto riguardo al loro possibile contributo alla giustificazione dell’anima. Di questo asservimento della nostra volontà al male scrisse Lutero nel suo De servo arbitrio (1525). Riguardo all’impossibilità del nostro intelletto ad indirizzarci verso il bene ed almeno in maniera indiretta a Dio invece Lutero amava esprimersi senza mezzi termini, definendo la ragione “la sgualdrina del demonio” e l’etica aristotelica come “il maggior nemico della grazia”.
La dottrina cattolica invece ci insegna che la nostra natura è chiamata a collaborare con la grazia nel senso, che dobbiamo accogliere con il libero arbitrio l’azione della grazia, secondo l’indicazione dell’intelletto, che ci spinge a fare così, facendoci conoscere Dio (la sua esistenza, i suoi attributi), le ragioni di credibilità della fede ecc. La falsità della tesi luterana risulta in maniera abbastanza chiara già dalla conseguenza che ne deriva, cioè che l’uomo giustificato dalla grazia è allo stesso tempo giusto e peccatore (simul iustus et peccator), infatti la sua natura in quanto radicalmente danneggiata permane tale anche in dopo la giustificazione. L’uomo giustificato, quindi, non può adempiere ai comandamenti. Dio lo salva con la sua grazia (alla quale l’uomo deve affidarsi) giustificandolo nel senso, che non gli imputa più la colpa del peccato: per questa sola ragione l’uomo giustificato andrà in paradiso, malgrado il fatto che peccherà mortalmente fino alla fine della sua vita. Lutero infatti reputa la concupiscenza, che è sorta in noi a causa della caduta originale, come un qualcosa di invincibile: ad essa anche l’uomo giustificato non è in grado di opporsi (concupiscientia invincibilis). In somma, si tratta di una dottrina che contraddice in flagrante l’ingiunzione di Nostro Signore alla peccatrice: “và, e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8, 11).
Cosa intende Rupnik quando parla della “natura”?
Dando uno sguardo più dettagliato a questa domanda vediamo che Rupnik nel detto libro insegna in fondo la stessa dottrina di Lutero, che definisce uomo “di profondo cammino spirituale” (p. 30). Controlliamo innanzitutto se la natura della quale parla Rupnik sia la stessa della quale parla Lutero e della quale parla anche il magistero della Chiesa. Infatti su questo punto noi cattolici siamo d’accordo con Lutero: entrambi intendiamo con il termine “natura” l’essenza dell’uomo che viene espressa nella definizione (per entrambi quindi l’uomo è, come disse Aristotele, animale razionale). Evidentemente ci troviamo in questo punto d’accordo pure con Rupnik. Anche secondo lui in effetti la natura risponde alla domanda, cos’è l’uomo, perciò la connette con il quid dell’uomo, del quale parla un testo di Bulgakov, che cita (p. 78). Questa natura viene espressa nel concetto di specie (il concetto di animale razionale è infatti un concetto specifico) e per questo Rupnik dice che il vivere secondo natura comporta il vivere “secondo la nostra specie” (p. 106). In questo punto, quindi, non c’è problema: quando Rupnik parla della natura, pensa evidentemente alla stessa realtà alla quale pensa pure Lutero e la dottrina cattolica.
Negazione del libero arbitrio nella natura umana decaduta
Sembra effettivamente che Rupnik segua Lutero in questa importante questione. La natura secondo Rupnik è totalmente priva di libertà, infatti “la natura è governata da leggi che esprimono le sue necessità” (p. 72). Perciò la vera vita cristiana, la vita personale, non si attua “secondo la mentalità dell’io individuale, secondo la necessità della natura, ma secondo la libertà della relazione” (p. 124). La libertà della relazione che è caratteristica della vita personale quindi presuppone un’opposizione alla natura, che viene concepita come essenzialmente non libera. Questo leitmotiv rupnikiano viene espresso ancora così: secondo il nostro autore, infatti, l’uomo deve “innalzarsi ad un modo di esistere superiore alla natura, che lo renda capace di appropriarsi della propria natura in modo libero. L’inferno di questo io è dunque la non libertà. L’io non sarà mai libero da sé stesso, perché la sua coscienza è inchiodata alle necessità della natura” (p. 132).
Di passi simili se ne trovano molti (pp. 84, 88, 95, 133, 147… anche in Dire l’uomo [Lipa 1997], p. 98). In essi Rupnik, a differenza di Lutero, non dice espressamente che l’assenza di libertà nell’uomo sia una conseguenza del peccato originale, ma lo dice indirettamente (Dire l’uomo, p. 96 ss.). Probabilmente, infatti, non vorrà dire che l’assenza di libertà sia un attributo assoluto della natura umana il che lo porterebbe addirittura a posizioni deterministe di stampo panteista o materialista. Vediamo quindi che Lutero e Rupnik sono d’accordo su questo punto: nella nostra natura decaduta non c’è libertà, essa ci viene donata dalla grazia. Si tratta quindi di una delle tesi condannate dal Concilio di Trento (can. 5, sess. 6): “Se qualcuno afferma che il libero arbitrio dopo il peccato di Adamo è perduto o estinto; o che esso è cosa di sola apparenza anzi nome senza contenuto e finalmente inganno introdotto nella Chiesa da Satana: sia anatema”.
Negazione della capacità di conoscere la realtà nella nostra natura decaduta
Riguardo alla questione conoscitiva Rupnik è un fermo sostenitore dell’agnosticismo, ossia della posizione che nega all’uomo qualsiasi capacità (perlomeno naturale) di conoscere la realtà. In Secondo lo Spirito non ho trovato passi che dimostrino il suo agnosticismo in senso assoluto, ma ne troviamo molti in altri lavori come in Dire l’uomo, dove Rupnik dice senza mezzi termini che l’oggettività “non è ciò che l’uomo si prefissa – quindi metodi, categorie, regole logiche rispettate – ma ciò che l’uomo riconosce, deve riconoscere /…/: la libertà e l’assolutezza dell’altro” (p. 124). Vediamo quindi che per Rupnik le regole logiche non sono niente di oggettivo, di fondato nella realtà e che tutti dovrebbero riconoscere. Tale riconoscimento spetta solamente alla libertà dell’altro (o meglio dell’Altro, di Dio, in quanto abbiamo visto che per Rupnik ci sono delle difficoltà con l’esistenza del libero arbitrio nell’uomo). Questo significa che anche la legge logica fondamentale – il principio di non-contraddizione – non ha secondo Rupnik alcun valore oggettivo – è soltanto un qualcosa “che l’uomo si prefissa”, una proiezione umana, soggettiva. Ma se è così ci troviamo nel relativismo assoluto dove si può a ugual diritto dire tutto e il contrario di tutto; in quel relativismo del quale disse il card. Ratzinger nell’omelia pre-conclave del 2005 di essersi introdotta nell’odierna teologia cattolica. Rupnik se ne rende conto, ma non se ne preoccupa. Dice addirittura che è “l’universalità comunionale della vita della persona che esige un atteggiamento relativistico verso i metodi” (ibid.). Perciò in Dall’esperienza alla sapienza (Lipa 1996) dice che “la logica ‘oggettiva’, la certezza ‘scientifica’, si dimostra pian piano come una sorta di soggettivismo camuffato” (str. 10). Per lui le verità scientifiche non sono altro che “narrazioni soggettive” (Dire l’uomo, p. 123).
Un tale approccio agnostico alla conoscenza porta Rupnik in Secondo lo Spirito a simili conclusioni riguardanti la conoscibilità di Dio, dove, nel suo più volte espresso atteggiamento di rifiuto nei confronti della scolastica in generale e del tomismo in particolare, attacca frontalmente l’unica via che abbiamo secondo S. Tommaso per conoscere Dio in questa vita – la via analogica. Rupnik presenta la genesi dell’approccio analogico alla conoscenza di Dio in questi termini: “La dialettica sorta alla fine del medioevo fa vedere che il nesso tra i due mondi e i diversi livelli è divenuto un’operazione intellettuale, una sorta di analogia, cioè una somiglianza tra Dio e il creato che permette di applicare loro uno stesso termine che tuttavia non vuol dire la stessa cosa. Posso parlare di Dio Creatore e dell’uomo creatore, ma la parola che uso per entrambi non significa la stessa realtà” (p. 184). Potremmo dire che fino a questo punto la sua presentazione sia accettabile, se tralasciassimo il fatto che dottrina sull’analogia non si sviluppò all’interno del pensiero scolastico appena alla fine del medioevo ma in pieno alto medioevo con S. Tommaso. Similmente non è del tutto corretto dire che tra Dio Creatore e l’uomo creatore ci sia unità soltanto in parola, altrimenti si tratterebbe non di analogia ma di equivocità (l’analogia suppone almeno un’unità di proporzione). Rupnik continua con la sua esposizione della conoscenza analogica con le seguenti parole: “Ciò significa che l’uomo capisce intellettualmente che esiste un altro livello di esistenza, ma non può accedervi, perché non c’è niente che lo unisca a quel nuovo livello” (ibid.). Come no? Proprio l’attributo analogico (nel nostro caso l’creatività) unisce entrambi i livelli. Rupnik conclude l’esposizione dicendo che così “si apre la tragica via di una conoscenza astratta ed illusoria che genera dei cristiani nominalisti, oppure fa sprofondare nella dinamica nichilista tra idealismo e moralismo” (ibid.). Per Rupnik la conoscenza analogica di Dio è illusoria. In quanto entrambe le altre due vie (quella della negazione e quella dell’affermazione) sono impraticabili (la prima infatti non dice niente di Dio, la seconda invece misconosce la trascendenza di Dio riguardo a tutte le nostre affermazioni), ne segue che per Rupnik nessun modo della conoscenza di Dio risulta impraticabile, il che è appunto la tesi principale dell’agnosticismo in sede teologica.
L’agnosticismo si trova alla base del protestantismo essendo stato Lutero profondamente imbevuto dalle dottrine della filosofia nominalista allora in voga in Germania. Il nominalismo infatti professava che la realtà non è alla portata della nostra conoscenza; di essa possiamo formarci soltanto delle nozioni soggettive, possiamo soltanto nominarla. Potremmo dire senza esagerare troppo che la tesi di Lutero riguardo al danneggiamento totale della nostra natura a causa del peccato originale abbia le sue radici nella dottrina nominalista sull’incapacità del nostro intelletto a conoscere la realtà. Quindi è veramente sorprendente come possa Rupnik rinfacciare alla dottrina dell’analogia di generare “cristiani nominalisti” come abbiamo appena letto. Invece è proprio l’agnosticismo di Rupnik, fondato storicamente sul nominalismo, che non può che generare “cristiani nominalisti”.
Rupnik e il modernismo
L’agnosticismo è stato direttamente condannato da parte del magistero nell’enciclica Pascendi di san Pio X contro gli errori dei modernisti. Nell’agnosticismo (soprattutto in quello kantiano che è una variante più recente di quello nominalista) quest’enciclica riconosce la fonte del modernismo, dicendo che “tutto il fondamento della filosofia religiosa è riposto dai modernisti nella dottrina, che chiamano agnosticismo”, dove il papa si rifà ai pronunciamenti del Concilio Vaticano I (De revel., can. 1 e 2; De fide, can. 3). Così si pone da sé la domanda, se possiamo trovare in Rupnik i segni di anche questa eresia.
Direi che uno di tali segni più notevoli si trovino nel suo approccio alla dottrina della Chiesa ed ai suoi dogmi. Qui sembra che Rupnik sostenga la dottrina modernista dell’evoluzione dei dogmi condannata nell’enciclica Pascendi. Rupnik infatti sostiene in Dire l’uomo, che “i dogmi non sono delle definizioni fossilizzate e le interpretazioni teologiche delle epoche che si susseguono acquisiscono sfumature sempre nuove nella comprensione del loro significato. In nessun modo tuttavia si può confondere il dogma e il suo più profondo significato con la formulazione o le interpretazioni datene in una determinata epoca o all’interno di un preciso pensiero teologico” (p. 79). L’ultima frase sembra infatti in aperto contrasto con la dottrina del Concilio Vaticano I, secondo il quale la dottrina della Chiesa non muta nel tempo, rimanendo immutata sia quanto all’significato sia quanto alla formulazione: “Eodem sensu, eademque sententia” (Dei Filius, cap. 4). Secondo la dottrina di Rupnik i dogmi vanno quindi soggetti ad una fondamentale storicizzazione e relativizzazione. Ciò non ci può sorprendere, visto l’agnosticismo di Rupnik ed i suoi ovvi esiti relativistici.
Conclusione
Abbiamo visto come il pensiero di padre Rupnik, sebbene sia spesso formulato con espressioni suggestive e accattivanti, che sgorgano dalla sua personalità artistica, sia marcato da forti tendenze eterodosse che possono facilmente sedurre il lettore impreparato e traviarlo in direzione della deriva spirituale. Vediamo contemporaneamente come il suo pensiero si amalgami bene con la direzione di questo pontificato, che con le sue tante (nel miglior dei casi) ambigue dichiarazioni, ha per effetto relativizzazione marcata della dottrina della Chiesa, instaurando così un clima all’interno della Chiesa nel quale con tanta maggior facilità ci si dimentica degli obblighi morali.
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