I cattolici amano un Dio bambino perché rifiutano la complessità, preferiscono la semplicità, e la guarniscono di retorica zuccherosa. Il Natale, col suo presepe, sarebbe la prova di questo infantilismo dei credenti, farcito di retorica puerile. Questa in sintesi la tesi di Michela Murgia, autrice recente di un catechismo Queer in cui sostiene che la Trinità è queer, Dio è queer.
Sarebbe facile, anzi semplice, ridicolizzare le sue tesi, inveire per l’attacco sgraziato ai cattolici e al presepe, e liquidarla con poche sprezzanti battute. Sarebbe anche comprensibile, perché chi usa toni provocatori e solitamente è molto sbrigativa nelle sue condanne e nei suoi paragoni, suscita reazioni uguali e contrarie.
Provo invece a prendere sul serio la sua affermazione e a discuterla. Dunque, i cattolici – non i cristiani in generale, non i protestanti, ma proprio i cattolici – amano il Bambino perché sono infantili, rifiutano la complessità.
Ora la storia del cristianesimo, la vita e la dottrina del cristianesimo, ha una lettura “semplice” per la gente semplice, e una lettura complessa per chi è in grado di approfondire.
La storia semplice del cristianesimo comincia con dodici apostoli tutti o quasi di estrazione popolare, molti di loro ignoranti, gente umile, semplice. E i primi credenti erano gente umile, semplice. Ma lungo il corso dei secoli, la storia della Chiesa e del cattolicesimo, ha avuto, si, figure ed esempi della semplicità: da alcuni mistici a san Francesco, creatore del presepe, dalle preghiere popolari ai catechismi accessibili pure agli analfabeti. Ma all’ombra della Chiesa cattolica, apostolica e romana, è fiorito un approfondimento dottrinario che coincide con i vertici del pensiero occidentale: la Patristica e la Scolastica, il magistero di Sant’Agostino e di San Tommaso d’Aquino, le dispute teologiche, la prova ontologica di Sant’Anselmo, l’itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, e poi le facoltà teologiche, il rapporto tra fede e ragione, fino a Ratzinger, secoli di tradizione filosofica cattolica, cristiana. Altro che semplicismo: la raffinatezza, la complessità, il rigore di molti padri della chiesa, domenicani e gesuiti, eminenti studiosi in porpora e vertiginosi pensatori. E poi l’eredità del pensiero greco e della visione giuridica romana, la nascita di un sofisticato diritto ecclesiastico.
Il carattere di una religione è di essere rivolta al popolo, e dunque chiara, semplice, diretta, alla portata di tutti. Ognuno vede Dio secondo il suo grado di comprensione. C’è chi legge la Summa Teologica e chi apprende il Cristianesimo dal Ciclo della Natività di Giotto, che spiega con le figure il senso e il racconto di una fede. Esattamente come erano i miti di cui è permeata ogni civiltà, in cui anzi è fondata ogni civiltà. Anche i miti come le religioni hanno una lettura universale, popolare, semplice e una più elevata, più complessa, a volte esoterica. La stessa Bibbia ha una lettura letterale, una narrazione popolare e una lettura allegorica, simbolica, metaforica. Spirito e lettera, testo e metatesto. Non può esistere una religione esclusivamente fondata sulla complessità, sarebbe per una setta, per un club di intellettuali, per una loggia, per un nucleo chiuso di eruditi. E poi Dio è semplice perché è l’Uno, è l’Origine.
Nel cristianesimo l’infanzia segna l’inizio e la meta della fede: è all’inizio con la venuta al mondo, la discesa dal cielo di Dio che si fa umano e bambino; ma diviene poi la meta del cristianesimo: ritrovare il candore dell’infanzia, tornare semplici e puri, come bambini, ma emendati dal peccato originale che ci accompagna dalla nascita. Da qui il ruolo importante dell’infanzia, non solo allo scopo di formare, educare i fanciulli (sinite parvulos venire ad me, lasciate che i bambini vengano a me, dice Gesù), ma allo scopo di ritrovare nel compimento della vita, nella metanoia o rinnovamento, conversione, lo spirito d’infanzia delle origini. In questo, il cristianesimo è in sintonia con le altre visioni del mondo tradizionali alle origini di ogni civiltà, di ogni mito, di ogni rito, di ogni liturgia e simbologia: ritrovare la purezza delle origini.
Ora tutto questo è stato il cristianesimo: cuori semplici e menti complesse. Coincidendo per secoli con la nostra civiltà, incarnandosi nella storia, nei regni e nelle società, la fede si è inevitabilmente intrisa di tutte le glorie e le miserie umane: nel nome di Dio ci sono stati santi e criminali, martiri e persecutori, anime pie e canaglie, ospedali e guerre. Perché questa è l’umanità: e noi “moderni” imputiamo alla religione quel che invece appartiene alla natura umana, alla sua imperfezione, ai suoi limiti. Questo significa anche accettare la storia del cristianesimo così com’è, nella gloria e nell’infamia, nella gioia e nel dolore. E caricarsela come una croce sulle proprie spalle: croce nel duplice senso di peso doloroso e di viatico per il cielo. Senza pretendere in modo ridicolo di rivedere la storia passata, di cancellarla o di scusarsi (e qui c’è pure la responsabilità di qualche Papa).
Ora, è d’uso nel nostro tempo, soprattutto tra intellettuali e preti progressisti, ridurre il cristianesimo al nostro presente e ai suoi dogmi: il rifiuto della famiglia tradizionale, della paternità, della maternità e della natività, l’adesione a una sessualità fluida, libera e mobile, la propensione a sostituire il prossimo con l’umanità astratta e remota, e dare priorità ai migranti venuti da lontano; e in generale sostituire la natura, la storia, la norma, i limiti, con i desideri. Io sono ciò che voglio essere. Così anche il cristianesimo viene giudicato su queste basi: è l’io con le sue propensioni, le sue voglie, il suo narcisismo a farsi misura della fede e del mondo; la religione deve rispondere ai tuoi desiderata, essere disegnata su misura per te. Così nasce il Dio queer, la teologia sartoriale, adatta alla propria taglia, la fede come variabile secondaria e dipendente dei propri desideri. Quel che giudicano semplice è l’umile accettazione della realtà, dell’evidenza, della differenza, delle identità, e dei nostri limiti. Ma alle origini di ogni religione c’è una certezza o una scommessa, per dirla con Pascal: l’io passa, Dio resta.
La Verità – 27 dicembre 2022
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