sabato 7 marzo 2020

Dal buio alla luce. Civiltà cristiana e Medioevo.






di Silvio Brachetta, 4 marzo 2020 


La vecchia scuola, che continua a imporsi come modernità, ha concluso la sua corsa nella storia con un successo planetario. È passata nel pensiero comune la grande sostituzione: la differenza tra bene e male non ha nulla a che fare con l’etica, ma con il tempo. Il passato è il male, il presente è il bene. Il pancronologista attuale è convinto che l’unico fondamento della realtà sia il tempo. E non solo ne è convinto lui, ma è riuscito a imporre una civiltà (che però è una contro-civiltà) alle masse, rieducate forzosamente al pancronologismo vittorioso di cui sopra. Non c’è alcun settore dell’umanità massificata che oggi abbia gli strumenti per rivedere o stroncare l’assioma moderno della superiorità del tempo presente.

Dopo almeno tre secoli di propaganda testarda, il passato più passato tra tutti e, quindi, il male in assoluto dei moderni è il Medioevo. Tutte le grandi epoche remote, benché primitive agli occhi del progressista fanatico, hanno diritto almeno ad un nome – età dell’oro, classicismo, ellenismo, umanesimo, rinascimento, risorgimento (con o senza maiuscole). L’epoca della Cristianità no. Non ha diritto a un nome, poiché secondo la fissazione cronologica della modernità, essa è la sublimazione della barbarie, il punto più basso dell’asservimento dell’uomo alla superstizione, il primitivo in essenza, il peggio che il tempo abbia potuto produrre. Un periodo storico, insomma, da liquidare come età di passaggio tra due periodi ben più importanti – medio evo, appunto.

Massimo Viglione sa che la verità è diversa dall’assioma moderno. E non si limita a saperlo, ma lo dimostra attraverso un grosso lavoro di quasi cinquecento pagine. Non si poteva fare qualcosa di più leggero? No, perché la modernità è costruita sulla leggerezza, sulla povertà o sull’assenza di contenuti, sull’improvvisazione ignorante, sul disimpegno presuntuoso, sulle convinzioni indimostrate, sul nichilismo, cioè sul niente, anche laddove si stampino libri e giornali nell’estensione delle tonnellate e dei milioni di copie vendute.

Non l’unica, ma certamente la più importante, è la proposta della formazione. Viglione intuisce che non ci sarà mai un antidoto alla follia moderna e modernista, se le persone non si riapproprieranno dei contenuti. La via della formazione personale e volontaria è forse una tra le più faticose – nel senso che leggere e studiare edifica, ma impegna – e tuttavia è l’unica propriamente efficace, perché oppone alla menzogna storica il suo opposto, che è la verità fattuale.



Il libro di Viglione non è un manuale di storia, come lui stesso precisa. Nemmeno la verità fattuale è sufficiente, nel senso che non basta elencare gli evangelici «segni dei tempi» per mezzo di un testo. Al contrario, Cristo è sconcertato dai suoi discepoli, che non sanno o non vogliono «giudicare» i tempi (cf. Mt 16, 3). Questa è la ragione per cui è necessario andare oltre il libro di storia classico e cercare di offrire un testo di filosofia o di teologia della storia, ovvero un testo ragionato. È richiesto, da Dio stesso all’uomo, non tanto il semplice conoscere la storia, ma il giudizio su di essa.

Lo storico, che abbia a cuore l’apostolato e che voglia contribuire alla formazione secondo verità, è tenuto non solo a descrivere l’avvenimento, ma a chiedersi quale ne sia il fine teleologico, quale parola eterna venga pronunciata dietro le parole umane, se esista uno scopo o un disegno a monte delle vicende, se le stesse vicende siano vissute dai protagonisti in modo conforme o difforme alla legge eterna, se si verifichino progressi o regressi di civiltà e come la gloria terrena si rapporti alla gloria di Dio.

Il Medioevo descritto da Viglione è un’epoca tutt’altro che buia, come invece è presentata dalla diffusa storiografia. La luce proviene da Cristo e illumina, per gradi, le azioni umane, per cui s’innesca una crescita spirituale ininterrotta, che si trasforma anche in una crescita materiale, tecnica e scientifica. La civiltà medievale – la Christianitas – si forma attraverso i secoli, con il supporto decisivo del monachesimo, delle riforme cluniacense e gregoriana, come pure degli ordini mendicanti. Ed è un supporto talmente efficace, che seguono a ruota le fondazioni secolari e permanenti della civiltà occidentale: scuola, università, ospedale, banca, città, magistratura, difesa, corporazione, farmacia. L’eterno, cioè, si concretizza e si trasforma in secolo, come mai avvenne in precedenza.

Il male – ieri come oggi, nel Medioevo come nel mondo contemporaneo – è onnipresente e incarnato nella malattia, nella guerra, nella morte, nella sofferenza, nella paura. La differenza sta, però, nella terapia: oggi non c’è un antidoto efficace al male. L’uomo moderno è soffocato dall’insignificanza, dalla morte spirituale e dalla sudditanza, illuso di essere libero e gaudente. La Cristianità, al contrario, si distingue perché vi è l’antidoto più efficace al male, che affranca l’homo viator, pellegrino sulla terra, dalla disperazione. Questo antidoto è la gemma della fede, che produce frutti nell’eternità e nel secolo, come proprio i fatti della storia dimostrano in abbondanza. E in questo clima inedito fiorisce il genio, la cortesia cavalleresca, la letteratura, l’arte, la scienza, l’autentica rinascita spirituale, la vera cura del male, fisico o psicologico.

Viglione presenta l’uomo medievale del tutto dissimile dal cittadino forgiato dalle rivoluzioni. Oggi l’uomo è profondamente solo. È un suddito dello Stato, al quale è richiesta obbedienza e sottomissione. È illuso da una pubblicistica falsa e martellante di essere lui il fine di tutto, quando invece lo Stato moderno pone se stesso come «fine supremo della vita umana». Del tutto dissimili dallo Stato, inteso in senso moderno, erano la Chiesa e l’Impero: non «due entità astratte, “culturali”» – scrive l’autore – «e nemmeno politiche nel senso moderno del concetto, ovvero statali, “leviataniche”».

Chiesa e Impero, cioè, non erano assimilabili a quel Leviatano di Thomas Hobbes dal potere illimitato e dispotico, che sovrasta l’uomo come autorità assoluta, lo schiaccia e gli impone leggi anche in contrasto con il diritto naturale. Chiesa e Impero, viceversa, con tutti i limiti della finitezza e dell’imperfezione umana, incarnavano l’«universalismo vissuto» dei popoli e delle nazioni. L’uomo medievale era, in tal modo, inserito in una «comunità spirituale» (la Cristianità, appunto), che gl’impediva di sentirsi solo o abbandonato. Il singolo – spiega Viglione – rimaneva sempre «il protagonista assoluto», inserito in un «universalismo particolarista» («o particolarismo universalista»), nel quale la realtà individuale era unita in perpetuo alla realtà universale.

Anche nello scontro tra Papa e Imperatore s’intravedeva sempre un minimo comun denominatore, che è l’orizzonte della Rivelazione. Anche nello scontro tra i «due universali», la civiltà non collassava, poiché l’anima aveva la capacità di fissare lo sguardo sull’eterno, a prescindere dalle preoccupazioni secolari.

Al di là, dunque, di tutte le difficoltà onnipresenti nella storia e ascrivibili ai conflitti o alle malattie, l’uomo medievale non fu mai «isolato». Il male era facilmente individuabile, perché non si negava mai l’evidenza. C’era tutta una società concorde con il singolo e tale concordia poggiava sul comune riferimento al Decalogo, tanto del principe, quanto del chierico. L’adulterio, ad esempio, era diffuso, ma a nessuno veniva in mente di trasformarlo in un comportamento lecito come avviene oggi né, tanto meno, nessun parlamento avrebbe legiferato a favore della distruzione della famiglia. L’usura era usura, l’omicidio era omicidio, l’aborto era aborto, il bene era bene, così come il male era male.

Viglione, infatti, parla della famiglia medievale «come cardine dell’intera società». Sono diffusi in tutto il testo ampi riferimenti alla Dottrina sociale della Chiesa, proprio per la capacità dei medievali di realizzarla. Dalla famiglia come fondamento della società alla nascita delle corporazioni di arti e mestieri, dalla costituzione dei corpi intermedi alla carità che pervade le istituzioni, il libro presenta efficacemente anche la Dottrina sociale, non in modalità teorica, ma applicata alla quotidianità del vivere, in quanto opera che tratta di storia. Si comprende, anzi, nella lettura, la genesi e l’attuazione medievale della Dottrina sociale, anche perché l’autore non comincia a trattare dal IV o dal V secolo, ma direttamente dall’inizio della storia della Chiesa, in modo da ottenere un quadro più preciso del dipanarsi degli eventi.

Con la rottura post scolastica dell’unità tra Chiesa e Impero, tra spirituale e secolare, tra fede e ragione (XIV secolo), la Cristianità va in crisi e comincia il traviamento della modernità. L’autorità si trasforma gradualmente in assolutismo e il potere politico scivola nel dispotismo. Si spezza quell’«armonia gerarchica tra sapienza e cultura» che, anche attraverso la teologia, aveva condotto all’esplodere della scienza, della bellezza artistica, del rinnovato ordinamento giuridico. E, tuttavia, nella modernità continua il cammino della scienza, dell’arte e del diritto, tanto il mondo attuale è figlio di quell’epoca.

Nonostante il rinnegamento del Medioevo e, dunque, della Cristianità, l’epoca moderna sussiste in ragione della robustezza delle fondamenta, che i nostri avi sono riusciti a costruire, unendo la fede in Dio all’intelletto. Viglione fa parlare il medievista Jacques Le Goff e dice che «nel Medioevo c’era tutto», tranne l’«ateo». Oggi invece abbiamo l’ateo, il laicista. In apparenza c’è tutto. Manca, a volte, un San Benedetto o qualcuno che sappia restaurare le cattedrali in rovina. A volte, però, non sempre, perché almeno c’è tutta una pubblicistica cattolica in piena attività.

Silvio Brachetta



Massimo Viglione, Dal buio alla luce. Civiltà cristiana e Medioevo. Dalle origini al 1303, Maniero del Mirto, 2019, pp. 480, Euro 33,00














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