mercoledì 6 novembre 2019

José Antonio Ureta. Sinodo Panamazzonico o Sinodo di Pistoia?






 06-11-2019

José Antonio Ureta*

Chissà se è per timore dei cardinali Brandmüller, Müller e Burke oppure per non dare ragione al vescovo Athanasius Schneider [vedi rispettivi interventi: Indice degli articoli sul Sinodo per l'Amazzonia] che il Vaticano ha ritenuto prudente evitare la presenza della statua della Pachamama nella Messa di chiusura dell’Assemblea speciale del Sinodo per la Regione Panamazzonica. Chissà se è per lo stesso motivo che gli scandalosi riferimenti panteistici dell‘Instrumentum laboris, con le loro lodi alle religioni pagane come strumenti alternativi di salvezza, sono stati diplomaticamente limati nel Documento finale.
Tuttavia, uno dei proiettili della vera e propria bomba a grappolo di fabbricazione tedesca che è stato il recente Sinodo ha portato, nel Documento Finale, una carica esplosiva maggiore di quella dei suoi documenti preparatori. Mi riferisco all’ambita rivoluzione ecclesiologica, corrispondente ai sogni dorati di Leonardo Boff ed espressi nel suo libro “Ecclesiogenesi: le comunità di base reinventano la Chiesa”[1].

Nel Capitolo V del Documento Finale del Sinodo, “Nuovi cammini di Conversione Sinodale”, si dice che “questo Sinodo ci offre l’occasione di riflettere su come strutturare le chiese locali in ogni regione e paese” (n ° 91) , poiché “la sinodalità è una dimensione costitutiva della Chiesa” (n ° 88), che “caratterizza la Chiesa del Vaticano II, intesa come Popolo di Dio, nell’uguaglianza e nella comune dignità di fronte alla diversità dei ministeri, carismi e servizi” (N ° 87). Per “superare il clericalismo” (n ° 88), la sinodalità impone uno stile di comunione ecclesiale “caratterizza(to) per il rispetto della dignità e dell’uguaglianza di tutti i battezzati e le battezzate, la complementarità dei carismi e dei ministeri” ( N. 91).


Riconoscendo che “le forme organizzative per l’esercizio della sinodalità possono essere diverse”, il documento insiste sul fatto che devono stabilire una sincronia tra la comunione e la partecipazione, tra la corresponsabilità e la ministerialità di tutti, prestando particolare attenzione all’effettiva partecipazione dei laici (n° 92). Oltre ad “assemblee e consigli pastorali in tutti i settori ecclesiali”, esistono già “gruppi di coordinamento” e “ministeri affidati ai laici”, ed è necessario “rafforzare ed espandere gli spazi per la partecipazione dei laici, sia nella consultazione che nella presa di decisioni, nella vita e nella missione della Chiesa” (n ° 94). Con la sola riserva che “si conferiscano ministeri a uomini e donne in modo equo” (n ° 95).


Le misure pratiche per attuare tale espansione sono di vasta portata.


Una di queste consiste nell’affidare “l’esercizio della cura pastorale” delle comunità in cui non esiste un sacerdote residente a “a una persona non investita del carattere sacerdotale, che sia membro della comunità stessa”. Per evitare “personalismi” deve essere “un incarico a rotazione”, che non impedisce che venga raccomandato al vescovo di istituirlo “con un mandato ufficiale attraverso un atto rituale”. Per salvare le apparenze, si più avanti si dice “resterà sempre il sacerdote, con la potestà e la facoltà di parroco, a essere il responsabile della comunità” (n ° 96).


Visto che “la madre terra ha un volto femminile”, e che le donne devono poter «contribuire con la loro sensibilità alla sinodalità ecclesiale» (n. 101), un’altra misura, ancor più rivoluzionaria, richiesta è la creazione di un “ministero istituito di donne dirigenti di comunità” e la possibilità di “ricevere i ministeri del lettorato e dell’accolitato, tra gli altri che possono essere svolti» (n. 102). Quest’ultimo a titolo provvisorio, giacché si chiede pure di continuare a studiare la possibilità di un diaconato femminile (n. 103).


Infine, in nome della diversità delle discipline nella Chiesa, si propone di “ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti della comunità…potendo avere una famiglia legittimamente costituita e stabile”, per “la predicazione della Parola e la celebrazione dei sacramenti” (n ° 111).


Quest’ultimo suggerimento coincide con il sacerdozio low cost e limitato a una comunità proposta dal vescovo emerito di Aliwal (Sudafrica), mons. Fritz Löbinger. Ma tutte le proposte precedenti si adattano come un anello al dito all’ecclesiologia dell’ex frate liberazionista Leonardo Boff. È quanto vedremo di seguito.


Si noti che, nel Documento finale, c’è un silenzio assoluto sulla differenza ontologica esistente tra il sacerdozio ministeriale dei clerici ordinati e il sacerdozio universale dei fedeli e, ancor più, sul fatto che il primo deriva, mediante l’imposizione delle mani, dal sacerdozio di Cristo, a Cui chi lo riceve rimane ontologicamente configurato. Al contrario, si insiste su “una Chiesa che è tutta ministeriale” (n ° 93), sulla “diversità dei ministeri, carismi e servizi” (n ° 87), sulla “ministerialità di tutti” (n ° 92), sulla necessaria “complementarità dei carismi e dei ministeri” (n ° 91) e sulla necessità di “superare il clericalismo” (n ° 90).


Questa concezione “sinodale” della Chiesa del Documento Finale coincide, in sostanza, con la “reinvenzione della Chiesa” dalle sue basi agognata da Leonardo Boff. Per l’ex frate sanzionato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, la prassi delle Comunità Ecclesiali di Base (CEB) ha superato una Chiesa pensata “secondo l’asse Cristo-Chiesa, all’interno di una visione giuridica”, secondo cui “Cristo trasmette tutto il potere ai Dodici e questi ai loro successori”, dividendo la comunità “tra governanti e governati, celebranti e assistenti, produttori e consumatori di sacramenti”[2]. Al contrario, le CEB sottolineano la realtà fondamentale: “la presenza attiva del Risorto e del suo Spirito all’interno dell’intera comunità umana”. Il che porta a “concepire la Chiesa più dalla base che dal vertice; è accettare la corresponsabilità di tutti nell’edificazione della Chiesa e non solo di alcuni appartenenti all’istituzione clericale”[3]. Pertanto, all’interno delle CEB, “prevale la circolazione dei ruoli di coordinamento e animazione, essendo il potere in funzione della comunità e non di una persona; ciò che viene respinto non è il potere stesso, ma il suo monopolio, che implica l’espropriazione a beneficio di una élite”[4]. Il risultato è che “l’intera comunità è ministeriale, non solo alcuni membri”[5]. Rappresentate graficamente, si ottengono le seguenti immagini dell’ecclesiologia tradizionale (a sinistra) e dell’ecclesiologia delle CEB (a destra):


In questi grafici schematici Boff vuole indicare che nella sua concezione della Chiesa “la realtà Popolo di Dio emerge come l’istanza prima mentre l’organizzazione come la seconda. Il potere di Cristo (exousia) non risiede solo in alcuni membri bensì nella totalità del Popolo di Dio”. Questo potere “si diversifica a seconda delle funzioni specifiche ma non esclude nessuno”, giacché “il dato dominante è la fondamentale uguaglianza di tutti” e solo in un secondo momento “emergono differenze e gerarchie”[6]. Sorge, ad esempio, “un carisma specifico con la funzione di essere il principio di unità fra tutti i carismi”, però “è un carisma che non sta fuori, bensì dentro la comunità, non sopra la comunità, ma per il bene della comunità”[7]. Rappresentato graficamente, risulta il seguente schema, con cui viene evidenziato il fatto che “tutti i servizi sorgono dentro la comunità e per la comunità”[8].


Come noto, nello scambio di corrispondenza fra il teologo brasiliano della liberazione e la Congregazione per la Dottrina della Fede, l’allora prefetto cardinale Ratzinger lo accusò di proporre “nuovi modelli di Chiesa in cui il potere sia concepito senza privilegi teologici, come mero servizio articolato secondo le necessità del popolo, della comunità”, mentre “la dottrina tradizionale della Chiesa al riguardo, chiaramente confermata anche dal Concilio Vaticano II, suppone, fra le altre cose, due verità fondamentali: 1) la costituzione della Chiesa è gerarchica per istituzione divina; 2) esiste nella Chiesa un ministero gerarchico legato specialmente ed esclusivamente al sacramento dell’Ordine”[9].


Già in precedenza, e a proposito di un piano pastorale dell’arcidiocesi di Kinshasa che istituì i cosiddetti bakambi, ovvero laici responsabili dell’esercizio della cura pastorale di una comunità, sotto la responsabilità teorica di un sacerdote con la funzione di parroco (un qualcosa di più moderato di quanto proposto dal Documento Finale del Sinodo, poiché a Kinshasa si trattava di un incarico permanente e riservato agli uomini, mentre secondo la proposta sinodale si tratterebbe di un ministero rotativo e aperto equitativamente alle donne), in un’udienza a un gruppo di vescovi zairesi in visita ad limina, papa Giovanni Paolo II dichiarò:


“Bisogna scartare vigorosamente l’idea che di fronte al ministeri e ai sacramenti, tutti i membri delle comunità cristiane abbiano le medesime responsabilità e gli stessi problemi. Dall’epoca apostolica, la Chiesa appare strutturata; accanto ai fedeli, vi sono gli ‘apostoli’, i ‘viri apostolici’, con i loro successori i Vescovi, i sacerdoti, i diaconi. (…) Se determinati modi di comprendere il ‘sensus fidelium’ ricordato dal Concilio Vaticano II sono stati abusivi, è successo così anche per il sacerdozio comune dei fedeli. (…) Ben presto alcuni teologi hanno preteso di ‘rimodellare’ i ministeri. Ma, chi non lo vede? Un ministro designato dalla comunità, o come talvolta si dice dalla ‘base’, non può essere il legittimo collaboratore dei Vescovi e dei sacerdoti. Non si ricollega alla venerabile tradizione apostolica che da noi ai Dodici poi al Signore caratterizza la persistenza storica dell’imposizione delle mani per la comunicazione dello Spirito di Cristo”[10].


Alcuni anni più tardi, l’Istruzione su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti, firmata dai cardinali responsabili di otto dicasteri romani, ribadì l’insegnamento tradizionale secondo cui “l’esercizio da parte del ministro ordinato del munus docendi, sanctificandi et regendi costituisce la sostanza del ministero pastorale” e che “non è il compito a costituire il ministero, bensì l’ordinazione sacramentale” [11]. E, nelle sue disposizioni pratiche, dispose che “non è lecito, pertanto, che i fedeli non ordinati assumano, per esempio, la denominazione di ‘pastore’, di ‘cappellano’, di ‘coordinatore’, ‘moderatore’ o altre denominazioni che potrebbero, comunque, confondere il loro ruolo con quello del pastore, che è unicamente il Vescovo e il presbitero”[12].


L’immersione del sacerdozio nel mare dei “ministeri” laicali e la parallela declericalizzazione dei ministri ordinati a causa dell’elevazione all’ordine sacerdotale di uomini sposati che esercitano una professione, proposte dal Sinodo, rappresentano un passo avanti colossale per demolire la struttura gerarchica della Chiesa.


In definitiva, la “sinodalità” che propone il Documento Finale può avere come fondamento teologico solo la dottrina formulata dal cosiddetto “Conciliabolo di Pistoia” e condannata come eretica da Pio VI. In particolare, la tesi secondo cui Gesù Cristo non ha trasmesso il suo triplice potere sacerdotale, magisteriale e pastorale direttamente agli Apostoli ma all’insieme della Chiesa e che, pertanto, è nel seno delle comunità che sorgono i carismi e i ministeri dei quali esse hanno bisogno ed è da queste quindi che i ministri ricevono il potere per esercitarli[13]. O altrimenti la versione aggiornata dell’ ex-francescano condannato dalla Santa Sede.


Poiché ci troviamo nel pontificato delle riabilitazioni, forse Papa Francesco, in un prossimo concistoro, potrebbe ricompensare Leonardo Boff con la porpora cardinalizia.

José Antonio Ureta




Edward Pentin, 30-10-19 by Pan-Amazon Synod Watch
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[1] Versione in spagnolo della Editrice Sal Terrae, Santander, 1984.
[2] P. 38.
[3] P. 39.
[4] P. 65.
[5] P. 66.
[6] P. 40-41.
[7] P. 43.
[8] P. 44.
[9] Cfr. L. Boff, Igreja: carisma e poder, Editora Ática, São Paulo, edizione del 1994 che include i documenti della polemico con il Vaticano, pp. 274-275.
[10] https://bit.ly/2q1WfRo
[11] N° 2, https://bit.ly/2JA2nqX
[12] Art. 1 § 3.
[13] La tesi di Pistoia venne condannata da Papa Pio VI con la bolla Auctorem Fidei, con queste parole: “La proposizione la quale stabilisce che ‘la potestà fu data da Dio alla Chiesa per comunicarsi ai Pastori, che sono i suoi ministri per la salute delle anime’; così intesa, che dalla Comunità dei fedeli derivi nei pastori la potestà del ministero e del governo ecclesiastico, è eretica” (cf. Denz./Hün. 2602).




José Antonio Ureta*

Nato in Cile, è membro fondatore della "Fundación Roma", una delle più influenti organizzazioni cilene pro-vita e pro-famiglia. Ha lavorato sin da giovanissimo nelle file della TFP (Tradizione, Famiglia e Proprietà) del suo paese e in seguito si è dedicato a diffonderne gli ideali e a formare gruppi TFP in tutto il mondo. Oggi è ricercatore e membro della Società Francese per la difesa della Tradizione, Famiglia e Proprietà. Studioso e docente, è conosciuto a livello internazionale nel mondo cattolico conservatore. Collaboratore della rivista Catolicismo e dell'Istituto Plinio Corrêa de Oliveira di San Paolo, Brasile, è autore del libro Il "cambio di paradigma" di Papa Francesco: continuità o rottura nella missione della Chiesa? Bilancio quinquennale del suo pontificato.





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