Rodolfo Casadei, 3 giugno 2019
Periodicamente i media ci informano della diminuzione del numero dei cristiani praticanti nei paesi europei e della lenta ma continua ascesa del numero degli agnostici e degli atei. L’ultimo caso è quello di un sondaggio sulla religiosità in Italia commissionato dalla Uaar (Unione degli atei, agnostici e razionalisti) alla Doxa dal quale risulterebbe che in soli cinque anni il numero di credenti cattolici è diminuito di quasi otto punti percentuali mentre il numero di atei e agnostici sarebbe cresciuto di 5 (passando dal 10 al 15 per cento).
Fino a qualche anno fa notizie come questa avrebbero suscitato dibattiti e controversie, intellettuali e uomini di Chiesa avrebbero detto la loro, i vescovi avrebbero probabilmente convocato un Sinodo o un convegno ecclesiale per correre ai ripari. Niente di tutto questo oggi: la notizia scivola come l’acqua sui sassi. Per il fondamentale motivo che il principio liberale secondo cui la fede religiosa è una questione strettamente privata è diventato senso comune anche presso molti credenti. L’importante – questa è l’opinione comune prevalente – è che le persone siano oneste, paghino le tasse e facciano un po’ di beneficenza e volontariato per facilitare la coesione sociale: che queste prassi nascano da una convinta fede religiosa o invece da una generica filantropia che non avverte l’esigenza di un fondamento metafisico, è assolutamente indifferente.
Questa visione delle cose – che ai piani alti della filosofia e della teologia è definita primato dell’ortoprassi sull’ortodossia – è estremamente ingenua, perché in realtà gli effetti dell’apostasia dal Dio cristiano sulla coscienza di sé dell’uomo occidentale sono profondi, e di conseguenza si riflettono sulle sue azioni e creazioni. Abbandonare il rapporto personale e comunitario col Dio di Gesù Cristo non è come rinunciare ai sacrifici ad Artemide o trascurare i riti della Madre Terra. Quel che viene meno, è il rapporto col Padre di cui sono segno le paternità terrene: il Dio di Gesù è il Padre Nostro che stai nei Cieli ma che ha mandato il Figlio sulla terra.
E quando si rinnega il padre, si innescano sensi di colpa che portano molto lontano. L’aveva già intuito il profeta dell’ateismo moderno, Friedrich Nietzsche, nella conclusione del famoso aforisma 125 della Gaia Scienza: «Dove se ne è andato Dio? […] ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io. […] Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? […] Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa?».
Che cos’altro hanno fatto gli esseri umani nei 137 anni successivi alla pubblicazione della Gaia Scienza se non cercare di diventare dèi? Se non trasformare in attributi di sé l’onnipotenza, l’onniscienza, l’immortalità, la giustizia e la bontà che sono gli attributi del Dio cristiano? Per giustificarci del delitto che abbiamo compiuto uccidendo Dio nostro Padre, abbiamo cercato di dimostrare a noi stessi che senza di Lui siamo in grado di fare meglio di Lui, siamo in grado di correggere gli errori della creazione: la morte, la sofferenza, la lotta per la sopravvivenza che comporta l’eliminazione di altri esseri viventi.
I risultati contraddittori di questo sforzo sono sotto gli occhi di tutti: il progresso tecnico-scientifico e l’anelito alla giustizia e alla filantropia hanno prodotto un abbassamento dei tassi di mortalità e un boom demografico, una diminuzione della povertà e della denutrizione, un aumento dei redditi e dei consumi senza precedenti nella storia dell’umanità; ma ci hanno anche regalato i totalitarismi che in nome di una classe, di una razza o di un’ideologia hanno assassinato milioni di uomini e cancellato i diritti di altri milioni, le armi di distruzione di massa che minacciano l’estinzione dell’umanità, le tecniche di riproduzione e manipolazione genetica che stanno reificando l’uomo in un prodotto destinato all’obsolescenza, un pianeta sull’orlo del collasso per lo sfruttamento scriteriato delle risorse e l’inquinamento dell’ambiente.
Come spiega l’ateo Yuval Noah Harari nel suo Homo Deus, l’uomo del futuro sarà virtualmente immortale e potentissimo, ma sarà cosciente della sua radicale illibertà; il soggetto transumano, per quanto prossimo a una divinità, vivrà una vita preconfezionata (d’altra parte riservata a una minoranza che dovrà difendersi con le buone e con le cattive dalla maggioranza vetero-umana) di scelte inevitabili. Dovremo rinunciare definitivamente alla presunzione di essere dotati di libero arbitrio, di avere un sé unitario, di essere qualcosa di più di un fascio di reazioni biochimiche; e dovremo affidarci completamente ad algoritmi che ci conosceranno meglio di noi stessi e prenderanno le decisioni al posto nostro. Questa distopia che si realizzerà nel migliore dei casi – cioè se non interverrà prima un’apocalisse legata alle armi di distruzione di massa o alla catastrofe ecologica – sarà il risultato del senso di colpa per l’uccisione del Padre.
Il secondo effetto dell’apostasia dell’Occidente dal cristianesimo è l’impazzimento del senso di colpa. Diversamente dalle religioni tradizionali pagane, nel cristianesimo la colpa non è espiata attraverso i sacrifici che gli uomini fanno alla divinità, ma attraverso il sacrificio di Dio stesso nel Suo Figlio. È Dio stesso che prende l’iniziativa di perdonare l’uomo. Nell’Occidente che si è convertito al cristianesimo, senso di colpa e senso del perdono sono giunti al diapason. Non esiste un’altra civiltà dove queste due realtà siano state sentite più intensamente a livello emotivo, psichico e spirituale, e ciò ha avuto conseguenze enormi sulla storia e sulla vita sociale. Tolto il Dio cristiano – il Dio del perdono – dall’autocoscienza dell’uomo occidentale, il senso di colpa impazzisce. L’Occidente odia se stesso perché si sente colpevole di tutto e non ha più un’istanza sovrumana a cui ricorrere per il perdono.
L’Occidente si sente colpevole del colonialismo, dello schiavismo, del razzismo, del sottosviluppo del Terzo Mondo, della mancanza di accoglienza, dello sfruttamento e dell’emarginazione degli immigrati, della morte dei migranti clandestini che non arrivano a destinazione, di islamofobia, di omofobia, di transfobia, di maschilismo, dei femminicidi, della diseguaglianza fra uomo e donna, della condizione degli occupanti abusivi di case che non pagano le bollette, ecc., e per finire del proprio eurocentrismo, cioè del pensare che i propri valori abbiano portata universale. Nessun’altra civiltà ha questi sensi di colpa, benché di quasi tutte le colpe rimproverate all’Occidente si siano rese responsabili, in misura e in tempi diversi, anche le altre civiltà: né il mondo arabo-islamico, né quello turco-islamico, né quello slavo cristiano ortodosso, né quello cinese confuciano, né quello induista, né quello buddhista, né quello giapponese shintoista, né quello delle religioni tradizionali africane.
Che l’Occidente li abbia, gli fa onore; che si faccia paralizzare da essi e che si autodistrugga consegnandosi senza opporre resistenza a chiunque si dichiari vittima delle colpe dell’Occidente, va a suo totale demerito. Il merito si è trasformato in un demerito, il senso di colpa occidentale è diventato autodistruttivo a causa della rinuncia al Dio di Gesù, cioè al senso del perdono per i propri peccati. Come scrive Alexandre Del Valle, «la colpevolizzazione patologica e collettiva dell’Europa non è nient’altro che la perversione della nobile propensione a riconoscere le proprie colpe, e non un frutto dottrinale della fede cristiana, la quale concede al contrario il perdono e sopprime il circolo vizioso della colpevolizzazione. Ma è anche vero che nella misura in cui l’insegnamento e la pratica di una religione diminuiscono, gli atteggiamenti psicologici inerenti alla fede che ha forgiato la cultura, la storia e dunque l’anima dei popoli rimangono, pur in modo sovente edulcorato. Il senso di colpa, fortemente ancorato in Occidente, non è dunque scomparso con la scristianizzazione, bensì ha solo perso il suo significato teologico per essere ritorto contro la stessa civiltà giudeocristiana. Così, il senso di colpa cristiano è stato traviato dai professionisti del pentimento in una vera e propria arma di guerra psicologica: la colpevolizzazione».
L’Occidente è diventato la civiltà del vittimismo organizzato – interno ed esterno – perché nessuno può più chiedere di essere perdonato. La vittima non chiede riconciliazione, ma potere e privilegi come forma di indennizzo. Il destino di una società governata dal senso di colpa e nella quale è assente il perdono è la disgregazione e frammentazione in comunità rivali che si rapportano fra loro sulla base del rancore anziché della vocazione all’amicizia e alla socialità. Una triste prospettiva, quando viene in mente che anche un filosofo ateo come Jacques Derrida aveva compreso il segreto del perdono cristiano: «Il perdono», ha scritto, «se ce n’è, deve e può perdonare solo l’imperdonabile, l’inespiabile e quindi fare l’impossibile».
Fino a qualche anno fa notizie come questa avrebbero suscitato dibattiti e controversie, intellettuali e uomini di Chiesa avrebbero detto la loro, i vescovi avrebbero probabilmente convocato un Sinodo o un convegno ecclesiale per correre ai ripari. Niente di tutto questo oggi: la notizia scivola come l’acqua sui sassi. Per il fondamentale motivo che il principio liberale secondo cui la fede religiosa è una questione strettamente privata è diventato senso comune anche presso molti credenti. L’importante – questa è l’opinione comune prevalente – è che le persone siano oneste, paghino le tasse e facciano un po’ di beneficenza e volontariato per facilitare la coesione sociale: che queste prassi nascano da una convinta fede religiosa o invece da una generica filantropia che non avverte l’esigenza di un fondamento metafisico, è assolutamente indifferente.
Questa visione delle cose – che ai piani alti della filosofia e della teologia è definita primato dell’ortoprassi sull’ortodossia – è estremamente ingenua, perché in realtà gli effetti dell’apostasia dal Dio cristiano sulla coscienza di sé dell’uomo occidentale sono profondi, e di conseguenza si riflettono sulle sue azioni e creazioni. Abbandonare il rapporto personale e comunitario col Dio di Gesù Cristo non è come rinunciare ai sacrifici ad Artemide o trascurare i riti della Madre Terra. Quel che viene meno, è il rapporto col Padre di cui sono segno le paternità terrene: il Dio di Gesù è il Padre Nostro che stai nei Cieli ma che ha mandato il Figlio sulla terra.
E quando si rinnega il padre, si innescano sensi di colpa che portano molto lontano. L’aveva già intuito il profeta dell’ateismo moderno, Friedrich Nietzsche, nella conclusione del famoso aforisma 125 della Gaia Scienza: «Dove se ne è andato Dio? […] ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io. […] Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? […] Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa?».
Che cos’altro hanno fatto gli esseri umani nei 137 anni successivi alla pubblicazione della Gaia Scienza se non cercare di diventare dèi? Se non trasformare in attributi di sé l’onnipotenza, l’onniscienza, l’immortalità, la giustizia e la bontà che sono gli attributi del Dio cristiano? Per giustificarci del delitto che abbiamo compiuto uccidendo Dio nostro Padre, abbiamo cercato di dimostrare a noi stessi che senza di Lui siamo in grado di fare meglio di Lui, siamo in grado di correggere gli errori della creazione: la morte, la sofferenza, la lotta per la sopravvivenza che comporta l’eliminazione di altri esseri viventi.
I risultati contraddittori di questo sforzo sono sotto gli occhi di tutti: il progresso tecnico-scientifico e l’anelito alla giustizia e alla filantropia hanno prodotto un abbassamento dei tassi di mortalità e un boom demografico, una diminuzione della povertà e della denutrizione, un aumento dei redditi e dei consumi senza precedenti nella storia dell’umanità; ma ci hanno anche regalato i totalitarismi che in nome di una classe, di una razza o di un’ideologia hanno assassinato milioni di uomini e cancellato i diritti di altri milioni, le armi di distruzione di massa che minacciano l’estinzione dell’umanità, le tecniche di riproduzione e manipolazione genetica che stanno reificando l’uomo in un prodotto destinato all’obsolescenza, un pianeta sull’orlo del collasso per lo sfruttamento scriteriato delle risorse e l’inquinamento dell’ambiente.
Come spiega l’ateo Yuval Noah Harari nel suo Homo Deus, l’uomo del futuro sarà virtualmente immortale e potentissimo, ma sarà cosciente della sua radicale illibertà; il soggetto transumano, per quanto prossimo a una divinità, vivrà una vita preconfezionata (d’altra parte riservata a una minoranza che dovrà difendersi con le buone e con le cattive dalla maggioranza vetero-umana) di scelte inevitabili. Dovremo rinunciare definitivamente alla presunzione di essere dotati di libero arbitrio, di avere un sé unitario, di essere qualcosa di più di un fascio di reazioni biochimiche; e dovremo affidarci completamente ad algoritmi che ci conosceranno meglio di noi stessi e prenderanno le decisioni al posto nostro. Questa distopia che si realizzerà nel migliore dei casi – cioè se non interverrà prima un’apocalisse legata alle armi di distruzione di massa o alla catastrofe ecologica – sarà il risultato del senso di colpa per l’uccisione del Padre.
Il secondo effetto dell’apostasia dell’Occidente dal cristianesimo è l’impazzimento del senso di colpa. Diversamente dalle religioni tradizionali pagane, nel cristianesimo la colpa non è espiata attraverso i sacrifici che gli uomini fanno alla divinità, ma attraverso il sacrificio di Dio stesso nel Suo Figlio. È Dio stesso che prende l’iniziativa di perdonare l’uomo. Nell’Occidente che si è convertito al cristianesimo, senso di colpa e senso del perdono sono giunti al diapason. Non esiste un’altra civiltà dove queste due realtà siano state sentite più intensamente a livello emotivo, psichico e spirituale, e ciò ha avuto conseguenze enormi sulla storia e sulla vita sociale. Tolto il Dio cristiano – il Dio del perdono – dall’autocoscienza dell’uomo occidentale, il senso di colpa impazzisce. L’Occidente odia se stesso perché si sente colpevole di tutto e non ha più un’istanza sovrumana a cui ricorrere per il perdono.
L’Occidente si sente colpevole del colonialismo, dello schiavismo, del razzismo, del sottosviluppo del Terzo Mondo, della mancanza di accoglienza, dello sfruttamento e dell’emarginazione degli immigrati, della morte dei migranti clandestini che non arrivano a destinazione, di islamofobia, di omofobia, di transfobia, di maschilismo, dei femminicidi, della diseguaglianza fra uomo e donna, della condizione degli occupanti abusivi di case che non pagano le bollette, ecc., e per finire del proprio eurocentrismo, cioè del pensare che i propri valori abbiano portata universale. Nessun’altra civiltà ha questi sensi di colpa, benché di quasi tutte le colpe rimproverate all’Occidente si siano rese responsabili, in misura e in tempi diversi, anche le altre civiltà: né il mondo arabo-islamico, né quello turco-islamico, né quello slavo cristiano ortodosso, né quello cinese confuciano, né quello induista, né quello buddhista, né quello giapponese shintoista, né quello delle religioni tradizionali africane.
Che l’Occidente li abbia, gli fa onore; che si faccia paralizzare da essi e che si autodistrugga consegnandosi senza opporre resistenza a chiunque si dichiari vittima delle colpe dell’Occidente, va a suo totale demerito. Il merito si è trasformato in un demerito, il senso di colpa occidentale è diventato autodistruttivo a causa della rinuncia al Dio di Gesù, cioè al senso del perdono per i propri peccati. Come scrive Alexandre Del Valle, «la colpevolizzazione patologica e collettiva dell’Europa non è nient’altro che la perversione della nobile propensione a riconoscere le proprie colpe, e non un frutto dottrinale della fede cristiana, la quale concede al contrario il perdono e sopprime il circolo vizioso della colpevolizzazione. Ma è anche vero che nella misura in cui l’insegnamento e la pratica di una religione diminuiscono, gli atteggiamenti psicologici inerenti alla fede che ha forgiato la cultura, la storia e dunque l’anima dei popoli rimangono, pur in modo sovente edulcorato. Il senso di colpa, fortemente ancorato in Occidente, non è dunque scomparso con la scristianizzazione, bensì ha solo perso il suo significato teologico per essere ritorto contro la stessa civiltà giudeocristiana. Così, il senso di colpa cristiano è stato traviato dai professionisti del pentimento in una vera e propria arma di guerra psicologica: la colpevolizzazione».
L’Occidente è diventato la civiltà del vittimismo organizzato – interno ed esterno – perché nessuno può più chiedere di essere perdonato. La vittima non chiede riconciliazione, ma potere e privilegi come forma di indennizzo. Il destino di una società governata dal senso di colpa e nella quale è assente il perdono è la disgregazione e frammentazione in comunità rivali che si rapportano fra loro sulla base del rancore anziché della vocazione all’amicizia e alla socialità. Una triste prospettiva, quando viene in mente che anche un filosofo ateo come Jacques Derrida aveva compreso il segreto del perdono cristiano: «Il perdono», ha scritto, «se ce n’è, deve e può perdonare solo l’imperdonabile, l’inespiabile e quindi fare l’impossibile».
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