sabato 15 giugno 2019

Il problema della Chiesa? La fedeltà a Cristo





Vediamo oggi una Chiesa arrabattarsi a seguire i problemi del mondo, oltretutto percepiti secondo la mentalità mondana. Quando invece la Chiesa ha un solo problema determinante: la fedeltà a Gesù Cristo e la sua evangelizzazione.




Luigi Negri, 15-06-2019

Ci sono cose che non vorremmo più sentire ed ascoltare: i continui interventi sui disagi della Chiesa, sull’insieme delle sue inadempienze morali. Non nel senso che noi pretendiamo che la Chiesa non abbia difetti o limiti, ma perché l’essenza della questione della Chiesa è un’altra: come ci è insegnato con una fedeltà assoluta nel magistero ecclesiastico della tradizione, la Chiesa è un mistero.

Non si può ricondurre la Chiesa a nessun complesso di condizioni o di condizionamenti umani. La Chiesa non fu ridotta e non potè essere ridotta alla chiesa dei pagani o alla chiesa dei greci. In tutta la sua storia la tentazione è sempre stata quella di identificarla per un problema emergente oppure per un problema considerato determinante. Ma la Chiesa ha un solo problema determinante: la fedeltà a Gesù Cristo e la sua evangelizzazione.

La gerarchia dei valori della Chiesa, quella a cui deve permanentemente essere fedele e ritornare, è che innanzitutto c’è Cristo, e il resto consegue. «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato in sovrappiù» (Mt 6,33).

La difficoltà oggi è vedere una Chiesa che si arrabatta a seguire i problemi del mondo, che riceve secondo la mentalità mondana e senza avere la forza e l’energia per ribaltare la logica di questa gerarchia; una Chiesa che si preoccupa di riuscire a risolvere i problemi così come li riceve dal mondo e secondo le preferenze del mondo.

La Chiesa ha un compito prioritario: vivere il rapporto con Cristo e comunicare agli uomini quella novità di vita che la presenza di Cristo comporta, che la presenza di Cristo le dona. E facendo esperienza di questa novità di vita tendere inesorabilmente a comunicarlo a tutti coloro che vivono in questo tempo come hanno vissuto in altri tempi. Quello che è necessario è avere sempre chiara la gerarchia dei valori e dei problemi, non raffazzonandoli così come la mentalità mondana ce li propone e finisce per imporceli, ma facendo scaturire dalla esperienza della fede la capacità di porre gerarchie sempre nuove alle problematiche umani, sociali, culturali e politiche.

Oggi la Chiesa gioca la sua credibilità non tanto se continua a dire che in essa sono stati perpetrati degli abusi, anche se certamente sono stati perpetrati degli abusi; non se si dice che la Chiesa deve chiedere perdono, che poi non si riesce neanche a stabilire o a dire con chiarezza a chi deve chiedere perdono: alla mentalità dominante, alle istanze fondamentali della società? O deve chiedere perdono a Dio? Addirittura questo rimane imprecisato.

Deve invece recuperare la grande lezione della tradizione: la Chiesa è mistero di Dio che si dona agli uomini. La Chiesa è il mistero di Cristo che è presente in essa, non confondendosi ad essa ma neanche vivendo separato da essa. È la presenza - secondo l’immagine della tradizione - del corpo e delle membra, dello sposo e della sposa.

Noi dobbiamo rivivere il mistero della Chiesa, che è un mistero di comunione del Signore con noi e la chiamata degli uomini a vivere la comunione con Lui. Questo semplice e radicale inizio deve essere sempre di nuovo invocato e quindi poi proposto agli uomini.

Determinante dunque è che la Chiesa viva di preghiera, non di affermazioni di progetti, di propositi, di diagnosi, di analisi. A un certo punto serviranno anche queste ma innanzitutto serve confidare continuamente la vita a Cristo, perché Cristo ne prenda possesso. Ci ritroviamo tutti in quella magnifica definizione di Jean Guitton, che chiedeva al Signore che occupasse totalmente il suo cuore senza lasciarne neanche un pollice che non fosse invaso da lui.

La vita è nostra perché è di Dio; il senso della nostra vita lo possediamo anche noi ma non perché lo creiamo con la nostra intelligenza o la nostra capacità culturale, sociale e politica. Ma perché questo senso della vita ci è donato, ci è donato da una Origine che non controlliamo e ci spinge verso un esito che anch’esso non controlliamo ma di cui siamo certi. E così la nostra vita diventa un cammino; per dirla con la definizione di Robert Spaemann, carissimo amico di Joseph Ratzinger, «il nostro non è il sentiero polveroso del nulla ma il sentiero luminoso dell’essere».

Questa è la sfida che riceviamo anzitutto da Cristo. Cristo che ci chiede «che cosa pensi di me?». Questa grande domanda che Cristo ha rivolto ai primi si riverbera nella vita, nel cuore e nella coscienza di ogni generazione cristiana. Che cosa pensiamo di Cristo, che cosa significa Cristo per noi? La parola di un alfabeto umano dominabile dal punto di vista della cultura mondana, o la parola di un altro alfabeto, l’alfabeto della Grazia? La Chiesa è sfidata ogni giorno da Cristo a ritrovare la sua identità in Lui, per Lui e con Lui. Sfidata ad accogliere questa grazia come un dono purissimo sull’immagine, sull’esempio e per la protezione di Maria Santissima; a vivere questa vita donata come esperienza inesorabile di novità, da non tenere per sé, ma da donare a tutti gli uomini. E questa è la radice della pace.

La radice della pace non è che tutti i problemi siano risolti secondo la mentalità dominante, ma la pace è vivere la vita come obbedienza a Dio.

*Arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio
















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