«Con un bimbo in fasce tra le mie braccia, riconosco che ogni bambino è come Alfie, totalmente dipendente dalla sua mamma». «La sua fragilità, come quella di Alfie, mi grida in continuazione che la vita è un soffio e che pure io, come lui, ho bisogno di tutto. Di cibo, di acqua, di amore, di salvezza. Ma soprattutto di un Dio che ha sconfitto la sua e la mia morte». «L'omicidio di Alfie non è una sconfitta perché molti si sono risvegliati e hanno compreso l’importanza della lotta per rendere testimonianza alla Verità».
Benedetta Frigerio, 28-04-2019
Esattamente un anno fa, all'Alder Hey Hospital di Liverpool, veniva messo a morte Alfie Evans, un bambino di neanche due anni affetto da una grave malattia genetica a cui medici e giudici hanno voluto togliere la ventilazione artificiale per farlo morire «nel suo miglior interesse». Per mesi, La Nuova Bussola Quotidiana ha seguito il caso passo dopo passo, la lotta titanica dei genitori di Alfie, Thomas e Kate, contro il potere per affermare il diritto di Dio sulla vita di ogni singola persona. Oggi, nel primo anniversario della morte, vogliamo proporvi la riflessione della nostra giornalista che maggiormente ha seguito la vicenda di Alfie, unica inviata di una testata italiana a Liverpool nei giorni caldi in cui si è deciso il destino di Alfie.
Caro direttore,
è passato un solo anno, eppure per l’intensità della vicenda mi paiono secoli. Inoltre, fra la prima volta che andai in Vaticano per Alfie (poi a Liverpool, per volare a Roma dal papa) e l’ultima volta che tornai per il funerale del piccolo passò solo un mese e mezzo, ma mi parve una eternità, dove non c’erano più né giorno né notte, né tempo per mangiare, bere o dormire.
Ricordare quei momenti, come tu sai, costretta a ripensare a quello che non vorrei, non è mai indolore. Perché vorrei non aver visto il male così da vicino. Vorrei che Alfie fosse qui, vorrei aver trovato appoggio in tutta la Chiesa invece che menzogna, interessi o gelosie fatti passare davanti alla lotta comune per la vita di un innocente. Un innocente che, dal suo lettino, roseo in volto e pieno di vita - anche se di una vita diversa da quella che piace ad un mondo che odia la fragilità - ci chiedeva di amarlo così com’era, gridandoci che l’esistenza umana se amata (ossia sempre, perché se c’è Qualcuno che ci fa essere significa che quel Qualcuno ci ama) vale anche nelle condizioni fisiche o mentali più invalidanti.
Alfie, in braccio alla sua mamma e difeso da un padre colmo d’amore tenace per lui, ci strillava che il senso della vita non è fare qualcosa ma lasciarsi amare, come sosteneva Chiara Corbella accogliendo, anziché abortirli, due figli che sarebbero morti subito dopo la nascita.
Sì, Alfie ci diceva, ci ricordava, ci rendeva inevitabile guardare a quello che il mondo non tollera e rifugge. Quello che l’uomo moderno, che non conosce l'amore o non lo accetta, e pertanto furioso contro la propria natura e incapace a sua volta di amare, vuole eliminare con ferocia: la dipendenza e a maggior ragione la malattia. Non è autonomo in nulla - sostenevano medici e giudici - quindi va eliminato. Eppure, quale bimbo di pochi mesi lo è? Quale è diverso da Alfie?
Me lo chiedo a un anno dalla sua morte mentre mi ritrovo qui a scrivere con un neonato in fasce di appena due mesi che, sono certa, esiste anche per intercessione del piccolo Alfie. Ricordo infatti quando, salendo sull’aereo per arrivare a Liverpool, dopo giorni di lavoro e notti insonni per riuscire a chiedere asilo al papa e far parlare il padre del bambino con il nunzio apostolico, dissi al Signore: «Ti chiedo solo una cosa, io continuerò a fare tutto quello che posso senza risparmiarmi, ma tu fammelo abbracciare». Successivamente volai da Liverpool a Roma in Vaticano senza che questo fosse avvenuto, dato che di fronte alla stanza del piccolo c’erano due poliziotti che bloccavano l’ingresso; perciò, certa che il Signore risponde sempre, ero convinta che avremmo vinto la battaglia portandolo fuori da quella prigione che è il Sistema sanitario nazionale inglese.
Invece, come sappiamo, fra una giustizia macabra, una cultura sanitaria feroce nel difendere l’omicidio del bambino (la cui vita fu definita in udienza “futile”), e l’appoggio della Chiesa inglese, che l’ha fatta pagare cara a chi ha cercato di recare conforto alla famiglia fino ad andare dal Papa per raccontargli una versione faziosa dei fatti, Alfie alla fine è stato ucciso: sebbene avesse respirato senza ausilio della ventilazione per ben quattro giorni, fu mal nutrito, non sufficientemente ossigenato e non curato invece che sostenuto. Capii solo poi, dopo tante umiliazioni e attacchi per le verità scritte, che la preghiera che avevo rivolto a Dio in aereo non era finita nel nulla: i giorni in cui ero salita per la prima volta a Liverpool erano gli stessi in cui avrei dovuto partorire il mio primogenito figlio, volato in cielo a qualche settimana dal concepimento, ma appena dopo l’ultima volta che andai e tornai dalla cittadina inglese per il funerale rimasi nuovamente incinta.
Stavo ancora soffrendo molto per la morte di Alfie e per il male vissuto, soprattutto per il fuoco “amico” timoroso della verità, ma alla scoperta della nuova gravidanza sentii nel mio cuore un “grazie”. Bastò a darmi pace dopo tante calunnie e mi dimostrò che il piccolo era vivo e continuava a lottare per la vita.
Ma torniamo alla domanda su quale bimbo sia diverso da Alfie. Se guardo il mio ci rivedo in qualche modo il volto del martire inglese. Anche lui ha bisogno di me per ogni cosa, non può mangiare, lavarsi, cambiarsi, persino addormentarsi senza di me. Anche lui non parla, anche lui ha un livello di coscienza non definibile. Anche lui dipende in tutto. Anche lui richiede quasi ogni secondo della mia vita, richiede attenzione di giorno e perfino di notte (è vero che le mamme vegliano sempre). Non so quanto vivrà, non so per quanto sarà sano. Ma una cosa la so: anche lui prima o poi morirà (ogni mamma lo sente, anche se tende ad allontanare il pensiero della contraddizione intrinseca alla letizia del generare vita), dovrei quindi ammazzarlo?
È chiaro, le probabilità che il mio bambino viva un’esistenza estremamente invalidante o che muoia presto sono minori rispetto a quelle di Alfie, ma il problema si pone comunque: perché, infatti, sostenere in ogni caso la vita se tanto ci si ammala e si muore? Rispondo che si può solo amando l’istante presente, che mi ricorda che se il mio piccolo c’è è perché è voluto e ha un compito nel mondo. Finché mio figlio esiste vale quindi la pena amarlo, perciò anche nutrirlo, lavarlo, accarezzarlo, parlargli, in una parola sacrificarmi, servendo la sua vita e scoprendo ogni giorno il significato e la necessità della sua presenza, che non posso definire io e fra cui ci metto la mia conversione.
Anche la sua fragilità, infatti, come quella di Alfie, mi grida in continuazione che la vita è un soffio e che pure io, come lui, ho bisogno di tutto. Di cibo, di acqua, di amore, di salvezza. Ma soprattutto di un Dio che ha sconfitto la sua e la mia morte. Un Dio che sconfessa in un istante la nostra pretesa d’autonomia. Forse è proprio per questo che il nostro mondo, caduto nel tranello dell’autodeterminazione, odia tanto i bambini, specialmente i più indifesi e fragili. Perché ci buttano in faccia il nostro limite e quindi il bisogno che abbiamo di nascere e non morire più, di essere salvati.
Eppure, è misteriosamente per lo stesso motivo che l’omicidio di Alfie non è una sconfitta: il piccolo inglese ha svolto il suo compito di martire svelando, prima inchiodato ad un letto e poi morendo ucciso per “accanimento anti-terapeutico”, il vero volto di un sistema giudiziario e sanitario di stampo nazista, risvegliando i dormienti che hanno compreso l’importanza della lotta per rendere testimonianza alla Verità, svelando i pensieri di molti cuori e così cambiando migliaia di vite. Fra cui, in molti modi, c’è appunto la mia. Se dimentichiamo questo limitandoci a versare qualche lacrima e a postare qualche foto su Facebook, non solo non facciamo onore ad Alfie ma saremo complici dell’omicidio di altri innocenti e disabili (il prossimo potrebbe essere nostro figlio) che, come abbiamo raccontato sulla NuovaBQ, sono sempre di più anche grazie alle nuove leggi (vedi le Dat) introdotte di recente in Italia sulla scia di quelle inglesi.
Caro direttore,
è passato un solo anno, eppure per l’intensità della vicenda mi paiono secoli. Inoltre, fra la prima volta che andai in Vaticano per Alfie (poi a Liverpool, per volare a Roma dal papa) e l’ultima volta che tornai per il funerale del piccolo passò solo un mese e mezzo, ma mi parve una eternità, dove non c’erano più né giorno né notte, né tempo per mangiare, bere o dormire.
Ricordare quei momenti, come tu sai, costretta a ripensare a quello che non vorrei, non è mai indolore. Perché vorrei non aver visto il male così da vicino. Vorrei che Alfie fosse qui, vorrei aver trovato appoggio in tutta la Chiesa invece che menzogna, interessi o gelosie fatti passare davanti alla lotta comune per la vita di un innocente. Un innocente che, dal suo lettino, roseo in volto e pieno di vita - anche se di una vita diversa da quella che piace ad un mondo che odia la fragilità - ci chiedeva di amarlo così com’era, gridandoci che l’esistenza umana se amata (ossia sempre, perché se c’è Qualcuno che ci fa essere significa che quel Qualcuno ci ama) vale anche nelle condizioni fisiche o mentali più invalidanti.
Alfie, in braccio alla sua mamma e difeso da un padre colmo d’amore tenace per lui, ci strillava che il senso della vita non è fare qualcosa ma lasciarsi amare, come sosteneva Chiara Corbella accogliendo, anziché abortirli, due figli che sarebbero morti subito dopo la nascita.
Sì, Alfie ci diceva, ci ricordava, ci rendeva inevitabile guardare a quello che il mondo non tollera e rifugge. Quello che l’uomo moderno, che non conosce l'amore o non lo accetta, e pertanto furioso contro la propria natura e incapace a sua volta di amare, vuole eliminare con ferocia: la dipendenza e a maggior ragione la malattia. Non è autonomo in nulla - sostenevano medici e giudici - quindi va eliminato. Eppure, quale bimbo di pochi mesi lo è? Quale è diverso da Alfie?
Me lo chiedo a un anno dalla sua morte mentre mi ritrovo qui a scrivere con un neonato in fasce di appena due mesi che, sono certa, esiste anche per intercessione del piccolo Alfie. Ricordo infatti quando, salendo sull’aereo per arrivare a Liverpool, dopo giorni di lavoro e notti insonni per riuscire a chiedere asilo al papa e far parlare il padre del bambino con il nunzio apostolico, dissi al Signore: «Ti chiedo solo una cosa, io continuerò a fare tutto quello che posso senza risparmiarmi, ma tu fammelo abbracciare». Successivamente volai da Liverpool a Roma in Vaticano senza che questo fosse avvenuto, dato che di fronte alla stanza del piccolo c’erano due poliziotti che bloccavano l’ingresso; perciò, certa che il Signore risponde sempre, ero convinta che avremmo vinto la battaglia portandolo fuori da quella prigione che è il Sistema sanitario nazionale inglese.
Invece, come sappiamo, fra una giustizia macabra, una cultura sanitaria feroce nel difendere l’omicidio del bambino (la cui vita fu definita in udienza “futile”), e l’appoggio della Chiesa inglese, che l’ha fatta pagare cara a chi ha cercato di recare conforto alla famiglia fino ad andare dal Papa per raccontargli una versione faziosa dei fatti, Alfie alla fine è stato ucciso: sebbene avesse respirato senza ausilio della ventilazione per ben quattro giorni, fu mal nutrito, non sufficientemente ossigenato e non curato invece che sostenuto. Capii solo poi, dopo tante umiliazioni e attacchi per le verità scritte, che la preghiera che avevo rivolto a Dio in aereo non era finita nel nulla: i giorni in cui ero salita per la prima volta a Liverpool erano gli stessi in cui avrei dovuto partorire il mio primogenito figlio, volato in cielo a qualche settimana dal concepimento, ma appena dopo l’ultima volta che andai e tornai dalla cittadina inglese per il funerale rimasi nuovamente incinta.
Stavo ancora soffrendo molto per la morte di Alfie e per il male vissuto, soprattutto per il fuoco “amico” timoroso della verità, ma alla scoperta della nuova gravidanza sentii nel mio cuore un “grazie”. Bastò a darmi pace dopo tante calunnie e mi dimostrò che il piccolo era vivo e continuava a lottare per la vita.
Ma torniamo alla domanda su quale bimbo sia diverso da Alfie. Se guardo il mio ci rivedo in qualche modo il volto del martire inglese. Anche lui ha bisogno di me per ogni cosa, non può mangiare, lavarsi, cambiarsi, persino addormentarsi senza di me. Anche lui non parla, anche lui ha un livello di coscienza non definibile. Anche lui dipende in tutto. Anche lui richiede quasi ogni secondo della mia vita, richiede attenzione di giorno e perfino di notte (è vero che le mamme vegliano sempre). Non so quanto vivrà, non so per quanto sarà sano. Ma una cosa la so: anche lui prima o poi morirà (ogni mamma lo sente, anche se tende ad allontanare il pensiero della contraddizione intrinseca alla letizia del generare vita), dovrei quindi ammazzarlo?
È chiaro, le probabilità che il mio bambino viva un’esistenza estremamente invalidante o che muoia presto sono minori rispetto a quelle di Alfie, ma il problema si pone comunque: perché, infatti, sostenere in ogni caso la vita se tanto ci si ammala e si muore? Rispondo che si può solo amando l’istante presente, che mi ricorda che se il mio piccolo c’è è perché è voluto e ha un compito nel mondo. Finché mio figlio esiste vale quindi la pena amarlo, perciò anche nutrirlo, lavarlo, accarezzarlo, parlargli, in una parola sacrificarmi, servendo la sua vita e scoprendo ogni giorno il significato e la necessità della sua presenza, che non posso definire io e fra cui ci metto la mia conversione.
Anche la sua fragilità, infatti, come quella di Alfie, mi grida in continuazione che la vita è un soffio e che pure io, come lui, ho bisogno di tutto. Di cibo, di acqua, di amore, di salvezza. Ma soprattutto di un Dio che ha sconfitto la sua e la mia morte. Un Dio che sconfessa in un istante la nostra pretesa d’autonomia. Forse è proprio per questo che il nostro mondo, caduto nel tranello dell’autodeterminazione, odia tanto i bambini, specialmente i più indifesi e fragili. Perché ci buttano in faccia il nostro limite e quindi il bisogno che abbiamo di nascere e non morire più, di essere salvati.
Eppure, è misteriosamente per lo stesso motivo che l’omicidio di Alfie non è una sconfitta: il piccolo inglese ha svolto il suo compito di martire svelando, prima inchiodato ad un letto e poi morendo ucciso per “accanimento anti-terapeutico”, il vero volto di un sistema giudiziario e sanitario di stampo nazista, risvegliando i dormienti che hanno compreso l’importanza della lotta per rendere testimonianza alla Verità, svelando i pensieri di molti cuori e così cambiando migliaia di vite. Fra cui, in molti modi, c’è appunto la mia. Se dimentichiamo questo limitandoci a versare qualche lacrima e a postare qualche foto su Facebook, non solo non facciamo onore ad Alfie ma saremo complici dell’omicidio di altri innocenti e disabili (il prossimo potrebbe essere nostro figlio) che, come abbiamo raccontato sulla NuovaBQ, sono sempre di più anche grazie alle nuove leggi (vedi le Dat) introdotte di recente in Italia sulla scia di quelle inglesi.
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