Il popolo del Summorum Pontificum fa il punto annuale sulla diffusione della forma straordinaria della messa. Burke: "Sta aiutando molti sacerdoti". Incoraggianti i dati italiani con numeri in crescita. Sgroi: "Ora serve uno sforzo culturale".
Luisella Scrosati, 01-11-2018
Venerdì 26 ottobre è iniziato a Roma il VII Convegno Summorum Pontificum, un convegno che è nato per ringraziare il buon Dio, oltre che papa Benedetto XVI, per aver restituito al Messale del 1962 piena libertà nella Chiesa. La giornata è stata dedicata alla riflessione sulla realtà del “popolo Summorum Pontificum”, cioè, in concreto sulla diffusione della Forma straordinaria del Rito Romano.
Molti sono stati gli interventi, ma è importante soffermarsi almeno su due. Il primo è quello del Card. Raymond Burke, che ha potuto testimoniare la pazienza, l’interesse e la tenacia con cui Benedetto XVI ha portato avanti il Motu Proprio del 2007. L’idea cara a papa Benedetto, secondo quanto riferito dal Cardinale, era quella di immettere nella Chiesa una boccata di sacralità, che potesse contagiarne tutta la liturgia e venire così incontro al forte desiderio di molti fedeli e sacerdoti, soprattutto giovani, che richiedevano – e non smettono di chiedere – che ogni celebrazione liturgica possa vincere quella forza di gravità spirituale, che inevitabilmente ci schiaccia verso il basso e ci porta a vivere la nostra fede, semplicemente come se fosse un insieme di bei valori. Questa verticalità, questa centralità di Dio e del Mistero erano al centro dell’intento di Benedetto XVI, il quale maturò la sua decisione attraverso il confronto, la riflessione sulle critiche che gli venivano mosse e le repliche puntuali.
Il Cardinale Burke ha tenuto a sottolineare che questo contagio, in una certa misura, si è in effetti verificato. Parlando della realtà che gli è più nota, quella statunitense, è infatti accaduto che in molte chiese il tabernacolo sia stato riportato in posizione centrale. Parimenti, molti sacerdoti americani gli hanno confidato che aver potuto conoscere la Forma straordinaria è stato per loro una benedizione, che li ha spinti a riappropriarsi della propria identità sacerdotale.
Per quanto riguarda la situazione Italiana, l’avv. Marco Sgroi, coordinatore nazionale del Coordinamento Nazionale Summorum Pontificum “ha dato i numeri”…
Le Messe in "rito antico" che vengono celebrate in modo regolare, escludendo quindi quelle occasionali, le Messe “private” (cioè celebrate da un sacerdote da solo) e quelle che, per richiesta dei promotori, non vengono “pubblicizzate”, ed omettendo anche quelle celebrate dai sacerdoti della Fraternità San Pio X o da sacerdoti sedevacantisti, sono ad oggi 123, di cui 73 settimanali, con un probabile incremento del 270% in dieci anni. Il 78% di queste Messe è celebrato nel centro-nord e solo il 22% a sud di Roma (inclusa) e isole.
Un altro dato interessante è che solo il 15% delle celebrazioni è assicurato da sacerdoti di istituti che sono sotto la tutela della Pontifica commissione Ecclesia Dei: tutto il resto è opera di sacerdoti diocesani o religiosi. La proporzione numerica potrebbe erroneamente indurre a pensare che il peso degli Istituti Ecclesia Dei sia esiguo. In realtà, questi istituti, oltre a garantire la possibilità di formazione di nuove vocazioni, presso i propri seminari, sono anche dei punti di riferimento stabili anche per il clero diocesano e per i fedeli, grazie al loro incessante apostolato liturgico.
L’avv. Sgroi ha poi messo in rilievo che la partecipazione alla Messa antica non è solo qualcosa di episodico. Infatti, “iniziano a farsi pian piano più frequenti, benché siano ancora rare, le celebrazioni di prime Comunioni, il conferimento della Cresima, la celebrazione dei matrimoni nelle comunità che praticano abitualmente la liturgia tradizionale. Ciò significa che almeno presso alcuni Coetus Fidelium si è sviluppata anche la preparazione ai sacramenti, cioè una qualche forma di catechismo”.
Il trattamento che è stato e che in parte viene ancora riservato ai fedeli che desiderano la Messa antica ha spesso provocato quella che Sgroi, non senza un po’ di sana ironia, chiama “la tentazione dell’autoghettizzazione pizzomerlettara”; per sanare questa pericolosa deriva, il coordinatore nazionale CNSP chiede, soprattutto ai laici, di “abbinare all’attività liturgica un’attività di promozione culturale” ed anche “qualche iniziativa caritativa”. Importante anche il richiamo ad uno sforzo per “migliorare il nostro atteggiamento verso chi non conosce ancora la liturgia tradizionale, o la conosce solo attraverso falsi stereotipi negativi, perché talora tendiamo a dimenticare che il cattolico praticante medio – forse anche il sacerdote medio... – è stato deprivato di larga parte degli strumenti culturali e, soprattutto, spirituali necessari per approcciarla”.
In effetti il grande lavoro che abbiamo davanti è proprio di natura culturale e spirituale, dove per culturale non intendiamo sterili discussioni da salotto, ma ciò che profondamente caratterizza il modo di vivere e di pensare dell’uomo. La corrosione universale ed incessante che ha penetrato la vita dei cristiani, e non solo negli ultimi cinquant’anni, ha bisogno di un lavoro paziente e lungimirante, a partire da se stessi: lavoro di bonifica e di risemina.
Perché la liturgia antica possa liberare tutto il potenziale della propria “vis attractiva” a vantaggio dei “tanti fedeli che cercano rimedio al disorientamento sempre più diffuso”, come spiega Sgroi, è importante reinserirla nel suo contesto normale, che è quello della vita cristiana integrale della gente comune, per poter risvegliare in tanti fratelli quella sete di Assoluto e di Mistero, che aspetta solo di essere sollecitata. E’ inevitabile che ci siano stati e sempre ci saranno ostacoli, opposizioni, anche subdole o virulente; ma, come scriveva Dante, “non ragioniam di loro, ma guarda e passa”.
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