Aldo Maria Valli (13/02/2018)
«Uno degli abbagli più estesi del post-concilio è stata l’eliminazione della balaustra. Un errore considerevole sul piano storico, liturgico, dottrinale, artistico e pastorale».
Don Enrico Finotti (Rovereto, 1953) scrive così a pagina 19 del libro Il suo e il vostro sacrificio. Il liturgista risponde (Chora Books), un’opera preziosa, da raccomandare a tutti coloro che hanno a cuore il retto modo di intendere e attuare il culto da rendere a Dio.
Vi sembrerà strano partire da un dettaglio come quello della balaustra, ma la liturgia è fatta di dettagli e ogni volta che se ne stravolge uno (com’è noto, è proprio nei dettagli che il diavolo nasconde la coda) è l’insieme a patirne le conseguenze. Inoltre la risposta di don Finotti fa capire di che pasta è questo prete che non gira attorno alle parole e va dritto al punto.
Dunque, la balaustra. Quale il suo senso? E perché è stata tolta di mezzo?
La distinzione tra la navata, nella quale si raccolgono i fedeli, e la zona sacra dell’altare, dove si compie il sacrificio, è una costante nella tradizione liturgica, sia dell’Oriente sia dell’Occidente. Il motivo liturgico è che l’altare va protetto da un accesso facile e va distinto dal resto per tutelarne la sacralità. Il motivo teologico è che la distinzione serve a evidenziare la gerarchia esistente all’interno della celebrazione, per cui il ministro ordinato, che agisce in persona Christi Capitis, ha un ruolo certamente diverso da quello dei fedeli riuniti nell’assemblea. Occorre poi ricordare che alla balaustra si accostavano i fedeli, inginocchiandosi, per ricevere il Santissimo Sacramento e quindi era una mensa che permetteva di esprimere bene la necessaria riverenza.
Ora è chiaro che eliminare la balaustra vuol dire da un lato banalizzare l’area del sacrificio eucaristico, perché se ne riduce la sacralità, e dall’altro abolire la distinzione gerarchica presente nella liturgia, nella pretesa «democratica» di rendere tutti uguali. Il che ha conseguenze negative anche sul piano storico e artistico, perché l’eliminazione della balaustra equivale a una manomissione di una testimonianza liturgica radicata nella tradizione e a una grave alterazione dello spazio architettonico.
Ma c’è da sottolineare che il Concilio Vaticano II non ha affatto richiesto l’eliminazione della balaustra, tant’è vero che anche il Messale Romano del 2000 ribadisce che il presbiterio si deve distinguere dalla navata attraverso «strutture e ornamenti particolari».
Insomma, aver tolto la balaustra è stato un abuso. Uno dei tanti.
Il bello del libro di don Finotti è che si occupa veramente di tutto. Perché la messa di Natale va celebrata a mezzanotte? È vero che l’albero di Natale ha un’origine cristiana? Durante la Quaresima i fiori vanno tolti dalla chiesa? Quali regole osservare per il suono delle campane? Come utilizzare gli altari laterali? Ha senso un gruppo liturgico in parrocchia? Un laico può tenere l’omelia? Si può tenere l’omelia scendendo in mezzo ai fedeli e camminando con il microfono in mano? È corretto dire «Andiamo in pace» anziché «Andate in pace»? Perché accanto al tabernacolo deve essere accesa una lampada perenne? Dove deporre la pisside? La comunione in ginocchio è ancora possibile? In chiesa ci può essere posto per cartelloni e manifesti? Gli avvisi parrocchiali si possono fare dall’ambone? I doni offertoriali possono essere commentati?
Per ogni domanda, da don Finotti arriva una risposta sintetica ma ben argomentata. Si tratta di una raccolta degli interventi pubblicati dalla rivista Liturgia: culmen et fons, nella rubrica Domande del lettore, e mi sembra che il direttore della casa editrice, Aurelio Porfiri, facendone un libro, abbia avuto un’ottima idea, perché nella liturgia oggi c’è spesso confusione ed è ormai evidente, purtroppo, «l’influsso di forti derive abusive, che continuano a condizionare ancor oggi sia l’interpretazione sia la celebrazione dei nuovi ordines liturgici».
Le ragioni sono numerose e don Finotti le espone a partire dal vago «profetismo» del periodo immediatamente successivo al Concilio. Fu l’epoca nella quale numerosi «profeti» (leaders religiosi, sociali e politici, comunità ecclesiali, movimenti di opinione, ecclesiastici più «sensibili», intellettuali più «aperti», teologi più «avanzati»), pur essendo spesso in polemica e in contrasto fra loro, individuarono i comuni nemici da abbattere: la Chiesa e il magistero, uniche realtà escluse a priori dal «carisma profetico». Così, tutte queste «realtà vive» diffusero il sospetto e l’accusa: Roma è «nemica della profezia», l’istituzione ecclesiale è un ostacolo e chi è «vivo» ha il dovere di essere «profeticamente» ostile ai suoi pronunciamenti. Di qui una vera e propria disobbedienza ecclesiale, con i conseguenti abusi, anche in campo liturgico. Il principio secondo il quale un carisma deve passare al vaglio del magistero della Chiesa, all’insegna di un’umile obbedienza, fu semplicemente ignorato o addirittura osteggiato come, a sua volta, «anti-profetico», e i risultati sono quelli che vediamo oggi.
«Se applichiamo questa analisi – scrive l’autore – alla riforma liturgica, si comprende come essa sul piano concreto poté divaricare dalle normative stabilite nell’edizione tipica dei libri liturgici e dalle direttive dei documenti del supremo magistero e imboccare la via di una creatività libera, nella quale ognuno faceva ciò che credeva, in un soggettivismo a tutto campo».
Come rimediare a tanti danni? Da dove ripartire? Don Finotti consiglia una rilettura attenta dei documenti conciliari. Si vedrà così che la lettera del Concilio è ben diversa dallo «spirito» del quale si sono serviti i «profeti» per gettare alle ortiche la santa tradizione e introdurre l’«aggiornamento». Si scoprirà, per esempio, che il Concilio riconosce e promuove il canto gregoriano, che non bandisce l’uso della lingua latina, che prevede un’autorità per regolare la liturgia, che raccomanda lo studio di san Tommaso d’Aquino, che conferma la natura gerarchica della Chiesa, che riafferma l’unicità della Chiesa cattolica, che ribadisce la necessità della Chiesa cattolica in ordine alla salvezza, e così via.
Il Concilio è stato stravolto dai paladini del relativismo e del soggettivismo, spiega don Finotti, e lungo questa via, ovviamente in nome del «servizio» (guai parlare di potere) si è arrivati a una vera e propria «dittatura di sostituzione». Come scrive Riccardo Pane, citato da don Finotti, ciò che occorre è quindi superare la visione ideologica del Concilio: «Il fatto è che oggi il termine “preconciliare” ha assunto un significato nuovo, che tutti accettano senza discutere: se indosso una casula in poliestere, celebro messa con calice di legno, interrompo la liturgia con frequenti didascalie, evito il più possibile di fare il segno della croce e mi compiaccio di far partecipare i fedeli con l’ultima melodia orecchiata al festival di Sanremo, allora sono un perfetto figlio del Concilio. Siccome invece mi ostino a preferire l’organo alla chitarra, il canone romano alla preghiera eucaristica V e oso persino di tanto in tanto cantare il prefazio, in tal caso sono proprio un esempio deleterio di disadattato preconciliare!».
Insomma bisogna studiare, con serietà e onestà. Ma c’è un altro punto da segnalare. «La liturgia – scrive don Finotti – si deve celebrare così come l’attuale disciplina della Chiesa prevede». Significa, in concreto, che i privati, i gruppi e i movimenti non possono disporre arbitrariamente delle leggi liturgiche. Occorre sottolinearlo con decisione. Poiché soggetto della liturgia è la Chiesa, la comunità, sia essa espressione di una parrocchia, di un gruppo o di un movimento, «si inserisce in un’azione di culto, la liturgia, che la supera» ed è più grande delle esigenze di cui l’assemblea o la comunità si dicono portatrici. Nessuno è legittimato a fare di testa propria, aggiungendo o togliendo qualcosa.
«Si tratta – precisa don Finotti – di entrare in atti che sono, a diverso titolo, di Cristo e della Chiesa in quanto tale, ed è appunto in questo universale orizzonte che la liturgia emerge in dignità ed efficacia su qualsiasi altro atto di culto personale e soggettivo. Su questa base teologica indispensabile è possibile comprendere e accettare di celebrare in modo conforme ai riti stabiliti e definiti dalla Chiesa».
E sentite qui: «Non sono infatti gli atti nostri che ci salvano, ma quelli di Cristo e della Chiesa a noi offerti per purificare ed elevare un culto personale che, da solo, non avrebbe alcuna possibilità di penetrare nei cieli e di ottenerci la salvezza».
Aldo Maria Valli
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