di Andrea Zambrano 10-02-2018
C’era da aspettarselo. Se passa l’idea che in chiesa ci si possa mangiare, allora perché non dormirci? Lamentarsene però è proibito dal clerically correct: produce la facile accusa di essere poco misericordiosi, persino crudeli e cinici, di fronte all’emergenza dei senzatetto che non sanno dove dormire per ripararsi dal freddo della Roma by night. Ma allora bisognerebbe chiedersi se si è provato davvero a cercare una soluzione alternativa o se siamo di fronte ad un saccheggio di barbari che rende indispensabile per necessità l’utilizzo delle chiese anche come dormitori. Le cose infatti non stanno affatto così perché i poveri, lo diceva Gesù “ce li avremo sempre”. Invece l’impressione è quella che si debba proseguire con una prassi ormai affermata: una chiesa che si arrende al mondo, con la scusa dei poveri e dei bisognosi.
A Roma infatti nella chiesa di San Callisto da qualche tempo si distendono le brandine lungo la navata e si accolgono 40 senzatetto. Iniziativa di carità. Punto, fare rimostranze è impossibile, pena il passare per razzisti e cattivi. E soprattutto se a farsi portatrice di questa istanza è la Comunità di Sant’Egidio, che proprio nei giorni scorsi ha festeggiato i 50 anni di attività. Una vera e propria Ong della carità che nel corso degli anni è diventata un’agenzia privilegiata per la pace, il dialogo e l’accoglienza. Molto ascoltata in Vaticano e che recentemente può anche contare su due vescovi provenienti dalla sua “scuderia”: monsignor Vincenzo Paglia e Matteo Maria Zuppi.
Al di là dei meriti socio-caritativi che Sant’Egidio ha acquistato nel corso degli anni, non si può non tacere il fatto che proprio in virtù di questa indiscussa opera, a Sant’Egidio siano state concesse parecchie libertà. Anche quella di utilizzare le chiese come semplici luoghi di accoglienza e non come luoghi di culto per un unico scopo: quello della messa e della preghiera.
Ci sono i pranzi, che nella chiesa di Santa Maria in Trastevere, sempre con la scusa dei poveri, si portano avanti da molti anni e proprio recentemente, complice il clamore mediatico del pranzo in San Petronio a Bologna alla presenza di Papa Francesco, hanno sdoganato anche altrove l’idea che la chiesa possa servire come sala mensa. A parte i tanti casi segnalati dalla Nuova BQ nella campagna #salviamolechiese si scopre che nella guida diffusa da Sant’Egidio per l’assistenza ai poveri della città, si contempla alla voce “Dove mangiare”, anche l’utilizzo di tre chiese per il pranzo e la cena.
Come mostra l’opuscolo informativo, si tratta di un utilizzo ormai consolidato. Queste foto si riferiscono alla chiesa di Sant’Eustachio dove i pasti vengono serviti in navata e nelle cappelle laterali tutti i giorni dalle 12.15 alle 15, escluso i festivi, in cui la chiesa è impegnata per altre attività, tipo la messa.
Ma non c’è solo Sant’Eustachio. A Roma si può mangiare gratis anche in altre due chiese: quella di Santa Lucia al Gonfalone, solo la domenica, e quella dei Santi Quirico e Giulitta, ma solo il lunedì, mercoledì e venerdì e solo alle 17, con la distribuzione dei panini. Verrebbe voglia di fare ironie, ma il pudore verso le situazioni di disperazione che vivono le persone che vi accedono, ci costringe a tacere per, appunto, carità. Però è nel nome della stessa carità che, forzando l’uso in abuso, si strumentalizzano i poveri dando loro da mangiare in un luogo che deve essere invece tenuto in ben altra considerazione e potendo confidare così in una sorta di salvacondotto che preservi queste forme di accoglienza da critiche giudicate bacchettone.
Viene da chiedersi allora se presto non dovremo assistereanche alla normalizzazione di una situazione che normale non può essere: la chiesa dormitorio. La notizia dell’utilizzo di San Callisto, quartiere Trastevere, a ricovero temporaneo per una 40ina di senzatetto per proteggersi dal freddo, è stata colta con curiosità dai giornali, ma di fondo accettata come una cosa doverosa.
Se si assolutizza l’emergenza dei senza tetto, il discorso si chiude lì, per cause di forza maggiore. Ma che cosa succede se ci si fermasse a riflettere sulla portata simbolica che questo gesto porta con sé? Si scoprirebbe che l’intenzione di Sant’Egidio sembra piuttosto quella di far passare un concetto potenzialmente distruttivo per la dimensione del sacro, già in crisi nella società moderna: anche le chiese sono luoghi come altri e come tali si possono utilizzare. Per ora soltanto temporaneamente, ma un domani, si potrebbero utilizzare le chiese anche permanentemente.
Persino per chiedere alle amministrazioni soldi pubblici per la gestione delle attività caritative. Nel celebrare il “coraggio” ardito di Sant’Egidio infatti, la Stampa ha riferito che, utilizzando la chiesa di San Callisto, la comunità fondata da Andrea Riccardi ha chiesto al Comune di Roma di poter inserire il tempio all’interno del Piano freddo. Si tratta di un cospicuo stanziamento di 1 milione di euro da destinare a quelle attività caritative e solidaristiche private o sussidiarie impegnate nell’accoglienza di quell’esercito di clochard per i quali la notte è il momento più drammatico della giornata.
Ebbene. A conferma della strategia di Sant’Egidio che si sfrutta l’emergenza in un piano programmatico, stanno proprio le tempistiche e le intenzioni dell’”operazione San Callisto”: a settembre scorso infatti - dice il giornale - la giunta Raggi pubblica il bando del Piano Freddo a cui possono partecipare tutte le associazioni di volontariato. Partecipa anche Sant’Egidio con le sue strutture e inserisce anche la chiesa di San Callisto tra le location atte a dispiegare brandine.
Ma il progetto non va in porto e – se ne lamentano i volontari candidamente – la chiesa di San Callisto viene esclusa dal bando. Perché? Colpa della burocrazia. “I criteri del bando – si legge infatti nel reportage sulla Stampa -, però, erano troppo stringenti e non tutte le associazioni hanno potuto partecipare”.
Il volontario santegidino intervistato lamenta il fatto che “in questa chiesa non ci sono nemmeno i servizi igienici. Abbiamo dovuto chiedere dei bagni chimici da montare all’esterno”. D’altra parte di che stupirsi? Da quando le chiese devono essere dotate anche di doccia e scaldabagno nell’eventualità che qualcuno vi soggiorni? Così la giunta ha allargato le maglie del bando, anche se nell’articolo non si dice se la chiesa ha poi ottenuto i requisiti per fare l’ospitality dei clochard.
Intanto però Sant’Egidio non ha perso tempo ha dispiegato le brande annunciando con un comunicato stampa l’apertura della nuova e insolita “locanda”. Tutto regolare?
Dal punto di vista dell’uso civile, secondo i criteri del Comune, se la vedrà la Raggi, ma dal punto di vista delle leggi del culto qualche problema si pone, eccome, nonostante la Chiesa sia sotto la giurisdizione della Santa Sede. Ma è un problema che non sembra essere tenuto in considerazione da nessuno. Soprattutto da parte di una realtà che è nata nel ’68 facendo l’occhiolino alla contestazione – come ha ammesso in un’intervista il suo fondatore – ma che con la logica rivoluzionaria del ’68 porta avanti un’operazione di desacralizzazione delle chiese che, proprio perché mascherata da attività caritativa, dunque “intoccabile”, non può essere contestata.
Potrebbe ingenerare l’abitudine di iniziare a chiedere soldi pubblici per alloggiare bisognosi nelle chiese. Oggi i clochard e domani i richiedenti asilo. In fondo sempre di povertà si tratta. In questo modo l’utilizzo falsamente caritativo delle chiese potrebbe essere inserito in un vero e proprio business dove la carità si sostituisce sempre più all’empietà.
Invece gli elementi per separare le attività di Sant’Egidio ci sarebbero tutti. Da un lato la sua opera caritativa che segue il corso, le modalità e i canali di tutte le altre opere che nella Chiesa fanno accoglienza e assistenza alle cosiddette “periferie esistenziali”, ma dall’altro una severa critica di come le chiese vengono utilizzate con la scusa dei poveri. Una scusa nella quale si innestano, propagandosi, concezioni derivanti da una cattiva teologia, come appunto è quella secondo la quale la chiesa non è più una porzione di terra santa in cui si celebra solo la messa.
“La mia casa sarà chiamata casa di preghiera”, ricorda Gesù nel Vangelo. Ecco perché un utilizzo che sminuisca il tempio fino a comprometterne la santità e la sacralità e la sua esclusiva dedicazione al culto è la manifestazione della non più chiara consapevolezza cattolica di che cosa è la messa e, di conseguenza, la redenzione del mondo che in essa si rinnova.
Bisognerebbe infatti prendersi la briga di dire che l’okkupazione delle chiese, sempre animata dalle migliori intenzioni e come abbiamo visto anche dettata da urgenze che appaiono impellenti e insormontabili, è stata ampiamente fondata teologicamente con l’annullamento tutto ranheriano della distinzione tra sacro e profano.
Per il teologo tedesco “Dio si manifesta prima di tutto nel mondo tramite eventi storici, allora lo si incontra nella prassi di fare entrare gli eventi storici nelle chiese”. Per proseguire con quanto ha scritto Stefano Fontana “viene quindi trascurato che la Chiesa è il luogo in cui il fedele può entrare in contatto con quanto storico non è. Lo spazio sacro è il luogo dell’eterno. La Chiesa, per la presenza del Santissimo Sacramento dell’altare, è un luogo “metafisico” e non più solo storico: lì è presente l’Alfa e l’Omega della storia, che proprio perciò non è storia”.
Ma nella nuova prospettiva ranheriana non è più così. L’uomo è solo storia e Dio non si rivela con dei contenuti di verità metastorici, con una dottrina che rimanga immutata, ma nell’apriori esistenziale in cui l’uomo si trova inserito”.
Il problema non è tanto quindi dare da mangiare o da dormire, ma capire che un atto, specie nella nostra società, genera un modo di fare, in un mondo dove ormai ognuno è diventato legge a se stesso. Si produce così una ferita. L’uomo deve custodire il Mistero, perché il Mistero lo custodisca. Perché entrare nello spazio sacro significa entrare in un altro mondo e in un altro tempo. Vivere lo spazio del sacro è comprendere che la nostra vita non dipende dalla bistecca o dalla salsiccia, ma da un altro cibo.
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