Aldo Maria Valli
La verità è bella, la verità è semplice, la verità risplende. Sono queste le parole che mi salgono dal cuore dopo aver letto la pubblica professione di fede in forma di giuramento che don Alfredo Morselli ha inviato al suo vescovo, monsignor Matteo Zuppi, giudicando inaccettabili le conclusioni dei vescovi dell’Emilia-Romagna circa il capitolo VIII di Amoris laetitia.
Parroco di montagna nel Bolognese, don Alfredo non vuole essere contro il papa, né contro i vescovi. Semmai li vuole aiutare. È soltanto contro l’errore e l’equivoco.
Il testo, suddiviso in 44 affermazioni, ruota attorno alla questione della comunione ai divorziati risposati, e smaschera la contraddizione insita nella posizione di chi sostiene da un lato che non è mai lecito a due persone non sposate compiere gli atti propri degli sposi e dall’altro che qualche volta è lecito a due persone non sposate compiere gli atti propri degli sposi.
In gioco, prima ancora della dottrina, c’è il principio di non contraddizione definito da Aristotele quando spiega che «è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo».
Occupandosi dei divorziati risposati, don Morselli si rifà al cardinale Carlo Caffarra e scrive al vescovo Zuppi: «Il Suo venerato Predecessore, infatti, in occasione di un importante convegno svoltosi a Roma nel novembre 2015, rispondendo a una domanda circa la possibilità di ammettere i suddetti fratelli alla ricezione dell’Eucarestia, ci diceva che ciò “non è possibile”: e questo perché “una tale ammissione vorrebbe dire cambiare la dottrina del matrimonio, della Eucarestia, della confessione, della Chiesa sulla sessualità umana e quinto, avrebbe una rilevanza pedagogica devastante, perché di fronte a una tale decisione, specialmente i giovani potrebbero concludere legittimamente: allora è proprio vero, non esiste un matrimonio indissolubile”».
È possibile leggere interamente la pubblica professione di fede qui: http://blog.messainlatino.it/2018/02/don-morselli-scrive-ai-vescovi.html#more
Intanto eccone i punti salienti.
Uno sviluppo omogeno del dogma, spiega don Morselli, è senz’altro possibile, ma non può mai ammettere la contraddizione. La contraddizione non è sviluppo, ma confusione.
«Purtroppo constatiamo che la divisione tra i Pastori verte su due affermazioni contraddittorie, cioè delle quali se è vera l’una, l’altra è falsa. (a) non è mai lecito a due persone non sposate compiere gli atti propri degli sposi; (b) qualche volta è lecito a due persone non sposate compiere gli atti propri degli sposi. L’ammissione dei fratelli divorziati (civilmente risposati e conviventi more uxorio) alla Santa Comunione presuppone che si ritenga vero (b), e porta inevitabilmente a conclusioni inaccettabili per ogni buon cristiano».
Di qui la professione di fede, all’interno della quale si trovano, fra gli altri, i seguenti punti:
Credo che esistono degli atti intrinsecamente cattivi che sono sempre peccato mortale, se commessi con piena avvertenza e deliberato consenso, e che quindi non possono ricevere una valutazione morale caso per caso.
Infatti «ci sono atti che per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze e dalle intenzioni, sono sempre gravemente illeciti a motivo del loro oggetto; tali la bestemmia e lo spergiuro, l’omicidio e l’adulterio. Non è lecito compiere il male perché ne derivi un bene» (CCC 1756).
Credo che le circostanze non possono rendere buona un’azione intrinsecamente cattiva.
Infatti «le circostanze, in sé, non possono modificare la qualità morale degli atti stessi; non possono rendere né buona né giusta un’azione intrinsecamente cattiva» (CCC 1754).
Credo che non è possibile valutare se un atto sia moralmente buono o meno, considerando solo l’intenzione e le circostanze.
Infatti è «sbagliato giudicare la moralità degli atti umani considerando soltanto l’intenzione che li ispira, o le circostanze (ambiente, pressione sociale, costrizione o necessità di agire, etc. che ne costituiscono la cornice)» (CCC 1756).
Credo che la morale dell’oggetto – così come spiegata nell’enciclica Veritatis splendor – possa e debba essere opportunamente applicata all’esperienza pastorale concreta, anche nei casi più critici.
Infatti «il Magistero della Chiesa […] presenta le ragioni del discernimento pastorale necessario in situazioni pratiche e culturali complesse e talvolta critiche» (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 115).
Credo che Dio non comanda a nessuno cose impossibili ad osservarsi (quindi neppure ai divorziati civilmente risposati).
Infatti «Nessuno, poi, per quanto giustificato, deve ritenersi libero dall’osservanza dei comandamenti, nessuno deve far propria quell’espressione temeraria e proibita dai padri sotto pena di scomunica, esser cioè impossibile per l’uomo giustificato osservare i comandamenti di Dio» (Concilio di Trento, Decreto sulla giustificazione, 13-1-1547, Sessio VI, cap. 11).
Inoltre «Dio non comanda cose impossibili ordinando di resistere a qualunque tentazione, ma ordinando “ammonisce di fare ciò che puoi, e di chiedere ciò che non puoi e aiuta perché tu possa» (Concilio di Trento, Ibidem).
Credo che Dio non permette che siamo tentati oltre le nostre forze.
Infatti «Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo per poterla sostenere» (1 Cor 10,13).
Credo che non bisogna violare i comandamenti di Dio anche nelle circostanze più gravi.
Infatti «La Chiesa propone l’esempio di numerosi santi e sante, che hanno testimoniato e difeso la verità morale fino al martirio o hanno preferito la morte ad un solo peccato mortale. Elevandoli all’onore degli altari, la Chiesa ha canonizzato la loro testimonianza e dichiarato vero il loro giudizio, secondo cui l’amore di Dio implica obbligatoriamente il rispetto dei suoi comandamenti, anche nelle circostanze più gravi, e il rifiuto di tradirli, anche con l’intenzione di salvare la propria vita» (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 91).
Credo che non è lecito commettere un peccato neppure nel caso si voglia favorire l’educazione dei figli avuti al di fuori del legittimo matrimonio.
Infatti «non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene, cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali» (Paolo VI, Lettera enciclica Humanae Vitae, 25-7-1968, § 14).
Credo che la coscienza debba adeguarsi a ciò che è bene e non deciderlo autonomamente.
Infatti «La coscienza, all’atto pratico, è il giudizio circa la rettitudine, cioè la moralità, delle nostre azioni, sia considerate nel loro abituale svolgimento, sia nei loro singoli atti». (Paolo VI, Udienza generale,12-8-1969).
Credo che la coscienza, intesa come sopra, è necessaria.
Infatti, la coscienza è necessaria perché «la bontà dell’azione umana dipende dall’oggetto in cui è impegnata e, oltre che dalle circostanze in cui è compiuta, dall’intenzione che la muove (Cfr. S. TH. I-IIæ, 18, 1-4); ora questa complessa specificazione dell’azione, se vuol essere umana, implica un giudizio soggettivo, immediato di coscienza, che poi si sviluppa nella virtù regolatrice dell’azione stessa, la prudenza». (Paolo VI, Udienza generale, 2-8-1972).
Credo che la coscienza, intesa come sopra, è insufficiente.
Infatti la coscienza è insufficiente perché da sola «non basta. Anche se essa porta in se stessa i precetti fondamentali della legge naturale (Cfr. Rom. 2, 2-16). Occorre appunto la legge: e quella che la coscienza offre da sé alla guida della vita umana non basta; dev’essere educata e spiegata; dev’essere integrata con la legge esterna, sia nell’ordinamento civile – chi non lo sa? – e sia nell’ordinamento cristiano – anche questo: chi non lo sa? -. La “via” cristiana non ci sarebbe nota, con verità e con autorità, se non ci fosse annunciata dal messaggio della Parola esteriore, del Vangelo e della Chiesa» (Paolo VI, Ibidem).
Credo che la coscienza non è arbitra del valore morale delle azioni che essa suggerisce.
Infatti la coscienza «è interprete d’una norma interiore e superiore; non la crea da sé. Essa è illuminata dalla intuizione di certi principi normativi, connaturali nella ragione umana (cfr. S. Th., I, 79, 12 e 13; I-II, 94, 1); la coscienza non è la fonte del bene e del male; è l’avvertenza, è l’ascoltazione di una voce, che si chiama appunto la voce della coscienza, è il richiamo alla conformità che un’azione deve avere ad una esigenza intrinseca all’uomo, affinché l’uomo sia uomo vero e perfetto. Cioè è l’intimazione soggettiva e immediata di una legge, che dobbiamo chiamare naturale, nonostante che molti oggi non vogliano più sentir parlare di legge naturale» (Paolo VI, Udienza generale, 12-2-1969).
Credo che la ragione umana non può creare essa stessa la norma morale
Infatti «La giusta autonomia della ragione pratica significa che l’uomo possiede in se stesso la propria legge, ricevuta dal Creatore. Tuttavia, l’autonomia della ragione non può significare la creazione, da parte della stessa ragione, dei valori e delle norme morali. Se questa autonomia implicasse una negazione della partecipazione della ragione pratica alla sapienza del Creatore e Legislatore divino, oppure se suggerisse una libertà creatrice delle norme morali, a seconda delle contingenze storiche o delle diverse società e culture, una tale pretesa autonomia contraddirebbe l’insegnamento della Chiesa sulla verità dell’uomo» (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 40).
Credo che un colloquio con un sacerdote non può mai rendere lecita un’azione intrinsecamente cattiva.
Infatti il sacerdote ha il dovere di spiegare la malizia di un atto intrinsecamente cattivo: «nel campo della morale come in quello del dogma, tutti si attengano al Magistero della Chiesa e parlino uno stesso linguaggio» (Paolo VI, Lettera enciclica Humanae Vitae, 25-7-1968, § 28).
Credo che i precetti negativi della legge naturale – quali ad esempio non bestemmiare, non spergiurare, non commettere omicidio, non commettere adulterio (cf. CCC 1756) – sono universalmente validi.
Infatti «I precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo. È proibito ad ognuno e sempre di infrangere precetti che vincolano, tutti e a qualunque costo, a non offendere in alcuno e, prima di tutto, in se stessi la dignità personale e comune a tutti» (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 51).
Credo che chi commette un peccato mortale è privo della grazia di Dio.
Infatti «Il peccato mortale è una possibilità radicale della libertà umana, come lo stesso amore. Ha come conseguenza la perdita della carità e la privazione della grazia santificante, cioè dello stato di grazia» (CCC 1861).
Credo che l’unione matrimoniale dell’uomo e della donna è indissolubile in ogni caso.
Infatti «Nella sua predicazione Gesù ha insegnato senza equivoci il senso originale dell’unione dell’uomo e della donna, quale il Creatore l’ha voluta all’origine: il permesso, dato da Mosè, di ripudiare la propria moglie, era una concessione motivata dalla durezza del cuore; [Cf Mt 19,8] l’unione matrimoniale dell’uomo e della donna è indissolubile: Dio stesso l’ha conclusa. “Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt 19,6)» (CCC 1614).
Credo che l’indissolubilità del matrimonio non è mai un’esigenza irrealizzabile.
Infatti «Questa inequivocabile insistenza sull’indissolubilità del vincolo matrimoniale ha potuto lasciare perplessi e apparire come un’esigenza irrealizzabile [Cf. Mt 19,10]. Tuttavia Gesù non ha caricato gli sposi di un fardello impossibile da portare e troppo gravoso, [Cf. Mt 11,29-30] più pesante della Legge di Mosè» (CCC 1615).
Credo che è sempre possibile rimanere fedeli al matrimonio indissolubile, pur in mezzo a tante difficoltà.
Infatti «Venendo a ristabilire l’ordine iniziale della creazione sconvolto dal peccato, [Gesù] stesso dona la forza e la grazia per vivere il matrimonio nella nuova dimensione del Regno di Dio» (CCC 1615).
Credo che tutti gli sposi possono capire il senso originale del matrimonio e viverlo con l’aiuto di Cristo.
Infatti «Seguendo Cristo, rinnegando se stessi, prendendo su di sé la propria croce [Cf. Mc 8,34] gli sposi potranno “capire” [Cf. Mt 19,11] il senso originale del matrimonio e viverlo con l’aiuto di Cristo. Questa grazia del Matrimonio cristiano è un frutto della croce di Cristo, sorgente di ogni vita cristiana» (CCC 1615).
Credo che chi causa il divorzio pecca gravemente.
Infatti «il divorzio è una grave offesa alla legge naturale. Esso pretende di sciogliere il patto liberamente stipulato dagli sposi, di vivere l’uno con l’altro fino alla morte. Il divorzio offende l’Alleanza della salvezza, di cui il matrimonio sacramentale è segno» (CCC 2384).
Credo che un coniuge che contrae un nuovo matrimonio meramente civile si trova in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio.
Infatti «Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio» (CCC 1650).
Inoltre «Il fatto di contrarre un nuovo vincolo nuziale, anche se riconosciuto dalla legge civile, accresce la gravità della rottura: il coniuge risposato si trova in tal caso in una condizione di adulterio pubblico e permanente» (CCC 2384).
Credo che la Chiesa non può riconoscere come valida una nuova unione se era valido il primo matrimonio.
Infatti, anche se oggi, «in molti paesi, sono numerosi i cattolici che ricorrono al divorzio secondo le leggi civili e che contraggono civilmente una nuova unione. La Chiesa sostiene, per fedeltà alla parola di Gesù Cristo (“Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio”: (Mc 10,11-12), che non può riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il primo matrimonio» (CCC 1650).
Credo che non è possibile applicare analogicamente, ad una relazione adulterina, il principio per cui se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51).
Infatti, essendo l’adulterio un grave peccato e «il peccato il principio attivo della divisione – divisione fra l’uomo e il Creatore, divisione nel cuore e nell’essere dell’uomo, divisione fra gli uomini singoli e fra i gruppi umani, divisione fra l’uomo e la natura creata da Dio -, soltanto la conversione dal peccato è capace di operare una profonda e duratura riconciliazione dovunque sia penetrata la divisione» (S. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, 2-12-1984, § 23).
Credo che l’astensione dagli atti propri degli sposi non danneggia i figli nati dalla nuova unione e quindi non costituisce una nuova colpa.
Infatti provvedere ai figli nati dalla nuova unione non rende necessario compiere gli atti propri degli sposi tra persone che non sono in realtà sposi. Se i divorziati risposati hanno dei figli nati nell’ambito del nuovo matrimonio civile, possono meglio provvedere loro vivendo in grazia di Dio.
Seguono alcuni principi di teologia sacramentaria che si concludono con il quarantaquattresimo e ultimo punto: «Credo che Maria Santissima, debellatrice di tutte le eresie, debellerà anche gli errori circa la dottrina sul matrimonio. Ne sono certo, perché Ella “non accetta che l’uomo peccatore venga ingannato da chi pretenderebbe di amarlo giustificandone il peccato, perché sa che in tal modo sarebbe reso vano il sacrificio di Cristo, suo Figlio” (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 120)».
Grazie don Alfredo!
Aldo Maria Valli
La verità è bella, la verità è semplice, la verità risplende. Sono queste le parole che mi salgono dal cuore dopo aver letto la pubblica professione di fede in forma di giuramento che don Alfredo Morselli ha inviato al suo vescovo, monsignor Matteo Zuppi, giudicando inaccettabili le conclusioni dei vescovi dell’Emilia-Romagna circa il capitolo VIII di Amoris laetitia.
Parroco di montagna nel Bolognese, don Alfredo non vuole essere contro il papa, né contro i vescovi. Semmai li vuole aiutare. È soltanto contro l’errore e l’equivoco.
Il testo, suddiviso in 44 affermazioni, ruota attorno alla questione della comunione ai divorziati risposati, e smaschera la contraddizione insita nella posizione di chi sostiene da un lato che non è mai lecito a due persone non sposate compiere gli atti propri degli sposi e dall’altro che qualche volta è lecito a due persone non sposate compiere gli atti propri degli sposi.
In gioco, prima ancora della dottrina, c’è il principio di non contraddizione definito da Aristotele quando spiega che «è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo».
Occupandosi dei divorziati risposati, don Morselli si rifà al cardinale Carlo Caffarra e scrive al vescovo Zuppi: «Il Suo venerato Predecessore, infatti, in occasione di un importante convegno svoltosi a Roma nel novembre 2015, rispondendo a una domanda circa la possibilità di ammettere i suddetti fratelli alla ricezione dell’Eucarestia, ci diceva che ciò “non è possibile”: e questo perché “una tale ammissione vorrebbe dire cambiare la dottrina del matrimonio, della Eucarestia, della confessione, della Chiesa sulla sessualità umana e quinto, avrebbe una rilevanza pedagogica devastante, perché di fronte a una tale decisione, specialmente i giovani potrebbero concludere legittimamente: allora è proprio vero, non esiste un matrimonio indissolubile”».
È possibile leggere interamente la pubblica professione di fede qui: http://blog.messainlatino.it/2018/02/don-morselli-scrive-ai-vescovi.html#more
Intanto eccone i punti salienti.
Uno sviluppo omogeno del dogma, spiega don Morselli, è senz’altro possibile, ma non può mai ammettere la contraddizione. La contraddizione non è sviluppo, ma confusione.
«Purtroppo constatiamo che la divisione tra i Pastori verte su due affermazioni contraddittorie, cioè delle quali se è vera l’una, l’altra è falsa. (a) non è mai lecito a due persone non sposate compiere gli atti propri degli sposi; (b) qualche volta è lecito a due persone non sposate compiere gli atti propri degli sposi. L’ammissione dei fratelli divorziati (civilmente risposati e conviventi more uxorio) alla Santa Comunione presuppone che si ritenga vero (b), e porta inevitabilmente a conclusioni inaccettabili per ogni buon cristiano».
Di qui la professione di fede, all’interno della quale si trovano, fra gli altri, i seguenti punti:
Credo che esistono degli atti intrinsecamente cattivi che sono sempre peccato mortale, se commessi con piena avvertenza e deliberato consenso, e che quindi non possono ricevere una valutazione morale caso per caso.
Infatti «ci sono atti che per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze e dalle intenzioni, sono sempre gravemente illeciti a motivo del loro oggetto; tali la bestemmia e lo spergiuro, l’omicidio e l’adulterio. Non è lecito compiere il male perché ne derivi un bene» (CCC 1756).
Credo che le circostanze non possono rendere buona un’azione intrinsecamente cattiva.
Infatti «le circostanze, in sé, non possono modificare la qualità morale degli atti stessi; non possono rendere né buona né giusta un’azione intrinsecamente cattiva» (CCC 1754).
Credo che non è possibile valutare se un atto sia moralmente buono o meno, considerando solo l’intenzione e le circostanze.
Infatti è «sbagliato giudicare la moralità degli atti umani considerando soltanto l’intenzione che li ispira, o le circostanze (ambiente, pressione sociale, costrizione o necessità di agire, etc. che ne costituiscono la cornice)» (CCC 1756).
Credo che la morale dell’oggetto – così come spiegata nell’enciclica Veritatis splendor – possa e debba essere opportunamente applicata all’esperienza pastorale concreta, anche nei casi più critici.
Infatti «il Magistero della Chiesa […] presenta le ragioni del discernimento pastorale necessario in situazioni pratiche e culturali complesse e talvolta critiche» (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 115).
Credo che Dio non comanda a nessuno cose impossibili ad osservarsi (quindi neppure ai divorziati civilmente risposati).
Infatti «Nessuno, poi, per quanto giustificato, deve ritenersi libero dall’osservanza dei comandamenti, nessuno deve far propria quell’espressione temeraria e proibita dai padri sotto pena di scomunica, esser cioè impossibile per l’uomo giustificato osservare i comandamenti di Dio» (Concilio di Trento, Decreto sulla giustificazione, 13-1-1547, Sessio VI, cap. 11).
Inoltre «Dio non comanda cose impossibili ordinando di resistere a qualunque tentazione, ma ordinando “ammonisce di fare ciò che puoi, e di chiedere ciò che non puoi e aiuta perché tu possa» (Concilio di Trento, Ibidem).
Credo che Dio non permette che siamo tentati oltre le nostre forze.
Infatti «Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo per poterla sostenere» (1 Cor 10,13).
Credo che non bisogna violare i comandamenti di Dio anche nelle circostanze più gravi.
Infatti «La Chiesa propone l’esempio di numerosi santi e sante, che hanno testimoniato e difeso la verità morale fino al martirio o hanno preferito la morte ad un solo peccato mortale. Elevandoli all’onore degli altari, la Chiesa ha canonizzato la loro testimonianza e dichiarato vero il loro giudizio, secondo cui l’amore di Dio implica obbligatoriamente il rispetto dei suoi comandamenti, anche nelle circostanze più gravi, e il rifiuto di tradirli, anche con l’intenzione di salvare la propria vita» (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 91).
Credo che non è lecito commettere un peccato neppure nel caso si voglia favorire l’educazione dei figli avuti al di fuori del legittimo matrimonio.
Infatti «non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene, cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali» (Paolo VI, Lettera enciclica Humanae Vitae, 25-7-1968, § 14).
Credo che la coscienza debba adeguarsi a ciò che è bene e non deciderlo autonomamente.
Infatti «La coscienza, all’atto pratico, è il giudizio circa la rettitudine, cioè la moralità, delle nostre azioni, sia considerate nel loro abituale svolgimento, sia nei loro singoli atti». (Paolo VI, Udienza generale,12-8-1969).
Credo che la coscienza, intesa come sopra, è necessaria.
Infatti, la coscienza è necessaria perché «la bontà dell’azione umana dipende dall’oggetto in cui è impegnata e, oltre che dalle circostanze in cui è compiuta, dall’intenzione che la muove (Cfr. S. TH. I-IIæ, 18, 1-4); ora questa complessa specificazione dell’azione, se vuol essere umana, implica un giudizio soggettivo, immediato di coscienza, che poi si sviluppa nella virtù regolatrice dell’azione stessa, la prudenza». (Paolo VI, Udienza generale, 2-8-1972).
Credo che la coscienza, intesa come sopra, è insufficiente.
Infatti la coscienza è insufficiente perché da sola «non basta. Anche se essa porta in se stessa i precetti fondamentali della legge naturale (Cfr. Rom. 2, 2-16). Occorre appunto la legge: e quella che la coscienza offre da sé alla guida della vita umana non basta; dev’essere educata e spiegata; dev’essere integrata con la legge esterna, sia nell’ordinamento civile – chi non lo sa? – e sia nell’ordinamento cristiano – anche questo: chi non lo sa? -. La “via” cristiana non ci sarebbe nota, con verità e con autorità, se non ci fosse annunciata dal messaggio della Parola esteriore, del Vangelo e della Chiesa» (Paolo VI, Ibidem).
Credo che la coscienza non è arbitra del valore morale delle azioni che essa suggerisce.
Infatti la coscienza «è interprete d’una norma interiore e superiore; non la crea da sé. Essa è illuminata dalla intuizione di certi principi normativi, connaturali nella ragione umana (cfr. S. Th., I, 79, 12 e 13; I-II, 94, 1); la coscienza non è la fonte del bene e del male; è l’avvertenza, è l’ascoltazione di una voce, che si chiama appunto la voce della coscienza, è il richiamo alla conformità che un’azione deve avere ad una esigenza intrinseca all’uomo, affinché l’uomo sia uomo vero e perfetto. Cioè è l’intimazione soggettiva e immediata di una legge, che dobbiamo chiamare naturale, nonostante che molti oggi non vogliano più sentir parlare di legge naturale» (Paolo VI, Udienza generale, 12-2-1969).
Credo che la ragione umana non può creare essa stessa la norma morale
Infatti «La giusta autonomia della ragione pratica significa che l’uomo possiede in se stesso la propria legge, ricevuta dal Creatore. Tuttavia, l’autonomia della ragione non può significare la creazione, da parte della stessa ragione, dei valori e delle norme morali. Se questa autonomia implicasse una negazione della partecipazione della ragione pratica alla sapienza del Creatore e Legislatore divino, oppure se suggerisse una libertà creatrice delle norme morali, a seconda delle contingenze storiche o delle diverse società e culture, una tale pretesa autonomia contraddirebbe l’insegnamento della Chiesa sulla verità dell’uomo» (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 40).
Credo che un colloquio con un sacerdote non può mai rendere lecita un’azione intrinsecamente cattiva.
Infatti il sacerdote ha il dovere di spiegare la malizia di un atto intrinsecamente cattivo: «nel campo della morale come in quello del dogma, tutti si attengano al Magistero della Chiesa e parlino uno stesso linguaggio» (Paolo VI, Lettera enciclica Humanae Vitae, 25-7-1968, § 28).
Credo che i precetti negativi della legge naturale – quali ad esempio non bestemmiare, non spergiurare, non commettere omicidio, non commettere adulterio (cf. CCC 1756) – sono universalmente validi.
Infatti «I precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo. È proibito ad ognuno e sempre di infrangere precetti che vincolano, tutti e a qualunque costo, a non offendere in alcuno e, prima di tutto, in se stessi la dignità personale e comune a tutti» (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 51).
Credo che chi commette un peccato mortale è privo della grazia di Dio.
Infatti «Il peccato mortale è una possibilità radicale della libertà umana, come lo stesso amore. Ha come conseguenza la perdita della carità e la privazione della grazia santificante, cioè dello stato di grazia» (CCC 1861).
Credo che l’unione matrimoniale dell’uomo e della donna è indissolubile in ogni caso.
Infatti «Nella sua predicazione Gesù ha insegnato senza equivoci il senso originale dell’unione dell’uomo e della donna, quale il Creatore l’ha voluta all’origine: il permesso, dato da Mosè, di ripudiare la propria moglie, era una concessione motivata dalla durezza del cuore; [Cf Mt 19,8] l’unione matrimoniale dell’uomo e della donna è indissolubile: Dio stesso l’ha conclusa. “Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt 19,6)» (CCC 1614).
Credo che l’indissolubilità del matrimonio non è mai un’esigenza irrealizzabile.
Infatti «Questa inequivocabile insistenza sull’indissolubilità del vincolo matrimoniale ha potuto lasciare perplessi e apparire come un’esigenza irrealizzabile [Cf. Mt 19,10]. Tuttavia Gesù non ha caricato gli sposi di un fardello impossibile da portare e troppo gravoso, [Cf. Mt 11,29-30] più pesante della Legge di Mosè» (CCC 1615).
Credo che è sempre possibile rimanere fedeli al matrimonio indissolubile, pur in mezzo a tante difficoltà.
Infatti «Venendo a ristabilire l’ordine iniziale della creazione sconvolto dal peccato, [Gesù] stesso dona la forza e la grazia per vivere il matrimonio nella nuova dimensione del Regno di Dio» (CCC 1615).
Credo che tutti gli sposi possono capire il senso originale del matrimonio e viverlo con l’aiuto di Cristo.
Infatti «Seguendo Cristo, rinnegando se stessi, prendendo su di sé la propria croce [Cf. Mc 8,34] gli sposi potranno “capire” [Cf. Mt 19,11] il senso originale del matrimonio e viverlo con l’aiuto di Cristo. Questa grazia del Matrimonio cristiano è un frutto della croce di Cristo, sorgente di ogni vita cristiana» (CCC 1615).
Credo che chi causa il divorzio pecca gravemente.
Infatti «il divorzio è una grave offesa alla legge naturale. Esso pretende di sciogliere il patto liberamente stipulato dagli sposi, di vivere l’uno con l’altro fino alla morte. Il divorzio offende l’Alleanza della salvezza, di cui il matrimonio sacramentale è segno» (CCC 2384).
Credo che un coniuge che contrae un nuovo matrimonio meramente civile si trova in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio.
Infatti «Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio» (CCC 1650).
Inoltre «Il fatto di contrarre un nuovo vincolo nuziale, anche se riconosciuto dalla legge civile, accresce la gravità della rottura: il coniuge risposato si trova in tal caso in una condizione di adulterio pubblico e permanente» (CCC 2384).
Credo che la Chiesa non può riconoscere come valida una nuova unione se era valido il primo matrimonio.
Infatti, anche se oggi, «in molti paesi, sono numerosi i cattolici che ricorrono al divorzio secondo le leggi civili e che contraggono civilmente una nuova unione. La Chiesa sostiene, per fedeltà alla parola di Gesù Cristo (“Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio”: (Mc 10,11-12), che non può riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il primo matrimonio» (CCC 1650).
Credo che non è possibile applicare analogicamente, ad una relazione adulterina, il principio per cui se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51).
Infatti, essendo l’adulterio un grave peccato e «il peccato il principio attivo della divisione – divisione fra l’uomo e il Creatore, divisione nel cuore e nell’essere dell’uomo, divisione fra gli uomini singoli e fra i gruppi umani, divisione fra l’uomo e la natura creata da Dio -, soltanto la conversione dal peccato è capace di operare una profonda e duratura riconciliazione dovunque sia penetrata la divisione» (S. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, 2-12-1984, § 23).
Credo che l’astensione dagli atti propri degli sposi non danneggia i figli nati dalla nuova unione e quindi non costituisce una nuova colpa.
Infatti provvedere ai figli nati dalla nuova unione non rende necessario compiere gli atti propri degli sposi tra persone che non sono in realtà sposi. Se i divorziati risposati hanno dei figli nati nell’ambito del nuovo matrimonio civile, possono meglio provvedere loro vivendo in grazia di Dio.
Seguono alcuni principi di teologia sacramentaria che si concludono con il quarantaquattresimo e ultimo punto: «Credo che Maria Santissima, debellatrice di tutte le eresie, debellerà anche gli errori circa la dottrina sul matrimonio. Ne sono certo, perché Ella “non accetta che l’uomo peccatore venga ingannato da chi pretenderebbe di amarlo giustificandone il peccato, perché sa che in tal modo sarebbe reso vano il sacrificio di Cristo, suo Figlio” (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 120)».
Grazie don Alfredo!
Aldo Maria Valli
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