foto Ansa |
Apr 2017
di Aldo Maria Valli
Venerdì mattina, a Dio piacendo, mi imbarcherò sul volo papale per seguire la visita di Francesco al Cairo. E sabato sera, sempre a Dio piacendo, saremo di ritorno. Un viaggio breve, dunque, ma che vale per tre. Come infatti ha ricordato lo stesso Francesco nel videomessaggio inviato al popolo egiziano, il papa va in Egitto per portare solidarietà ai cristiani copti colpiti dai recenti attentati, per incontrare la piccola comunità cattolica del paese e per far visita al Grande Imam di al-Azhar, Muhammad Ahmad al-Tayyib, il più importante esponente religioso dell’Egitto sunnita, responsabile sia della moschea sia dell’Università di al-Azhar.
I significati della visita sono dunque molteplici e intrecciati, ma qui mi concentro sull’incontro con il grande imam, che di fatto ristabilisce i pieni rapporti tra al-Azhar e la Santa Sede dopo il gelo sceso in seguito al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006, una separazione resa ancora più netta dal caso sollevato dall’imam nel 2011, quando il rettore stigmatizzò come ingerenza negli affari interni dell’Egitto le parole di condanna pronunciate da Benedetto XVI nel gennaio 2011 dopo gli attentati contro i cristiani ad Alessandria.
L’instancabile ricucitore è stato il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, che nel maggio 2016 è riuscito a portare in Vaticano l’imam al-Tayyib dopo un invito ufficiale recapitato ad al-Azhar dall’arcivescovo Miguel Angel Ayuso Guixot, segretario del dicastero presieduto da Tauran.
Alla fine di quella visita – conclusa da un comunicato congiunto nel quale si sottolineava il «grande significato di questo nuovo incontro» nel quadro del comune impegno per la pace nel mondo, il rifiuto della violenza e la tutela dei cristiani in Medio Oriente – il papa regalò all’imam una copia dell’enciclica «Laudato si’», per far capire che ci sono numerosi campi nei quali cattolici e musulmani possono lavorare insieme.
«L’idea di invitare in Vaticano il grande imam di al-Azhar – commentò in quell’occasione il padre Samir Khalil Samir, gesuita egiziano, docente di islamologia a Beirut e al Pontifico istituto orientale di Roma – è stata una scelta molto buona, fatta nel momento giusto. Durante il pontificato di Benedetto XVI i rapporti erano delicati, visto il conflitto nato quando erano state prese a pretesto alcune parole del papa, che in realtà non erano rivolte contro nessuno, ma difendevano la libertà religiosa. L’invito è un modo per riprendere il dialogo con l’islam sunnita, perché al-Azhar, com’è noto, è l’ateneo che forma il più gran numero di imam sunniti, migliaia all’anno, ed è l’università musulmana più famosa, esistendo da più di mille anni».
Le parole di Benedetto XVI strumentalizzate nel 2006 per alimentare il fuoco della violenza furono quelle pronunciate durante la «lectio magistralis» di Ratisbona, quando papa Ratzinger sottolineò l’importanza dell’unità fra ragione e fede e rimarcò gli esiti nefasti ai quali la religione va incontro quando, sganciata dalla ragione e quindi dal bene dell’uomo, può arrivare a giustificare tutto, anche la sopraffazione e il terrorismo. Come sappiamo, una citazione colta inserita nel testo fu utilizzata per sostenere che il papa aveva offeso l’Islam, e da quel momento al-Azhar troncò i rapporti con la Santa Sede.
Ora il dialogo riprende, ma intanto il papa emerito torna a far sentire la sua voce. Lo ha fatto con un messaggio inviato in Polonia, al simposio organizzato per i suoi novant’anni a Varsavia su «Il concetto di Stato nella prospettiva dell’insegnamento del cardinale Joseph Ratzinger-Benedetto XVI», un testo nel quale il papa emerito, ancora una volta, va al cuore del problema con cui ci stiamo confrontando nell’epoca del terrorismo endemico e della tensione continua tra Occidente e radicalismo islamico.
Ratzinger mette infatti a fuoco il nodo costituito dal duello tra due concezioni opposte dello Stato: da una parte lo Stato ateo e laicista, che non concede alla fede religiosa alcuno spazio pubblico ma pretende di estrometterla e di relegarla alla sola sfera privata, dall’altra lo Stato «radicalmente religioso» sostenuto dai movimenti islamisti, che non conosce distinzione tra religione e politica. Un confronto che non può portare a nulla di buono, perché da entrambe le parti c’è una forzatura contraria alla natura umana.
Quale, dunque, la strada percorribile secondo Ratzinger? La risposta l’ha data il suo ex portavoce, padre Federico Lombardi, che al simposio polacco ha detto: «Benedetto XVI è profondamente convinto che il vero fondamento, la garanzia più solida di un ordinamento capace di tutelare la dignità e il valore della persona umana stia nel riconoscimento da parte della ragione umana della verità di un ordine morale oggettivo, basato ultimamente sulla ragione creatrice di Dio».
Evidenti, in queste parole, sono gli echi di Ratisbona, e ancora vivo il desiderio di non restare alla superficie delle questioni che rendono tanto problematico il rapporto tra mondo occidentale di matrice cristiana e mondo musulmano sempre più sottoposto alle forzature di matrice islamista.
Ma in questi ultimi giorni c’è stato un altro intervento coraggioso circa l’Islam. L’ha pubblicato «Asianews» ed è ancora più importante perché viene da un musulmano. Si tratta di un articolo di Kamel Abderrahmani, studioso neppure trentenne che da tempo propone riflessioni sui nodi interni al mondo islamico.
Dopo ogni attentato terroristico, scrive l’autore, tornano le domande sul rapporto tra Islam e violenza, ma le analisi non spiegano le differenze e gli intrecci tra Islam e islamismo. «Le domande si moltiplicano e tormentano le nostre menti, facendo emergere fenomeni che hanno bisogno di essere analizzati e risolti. Io e con me tanti altri musulmani pensiamo che sia inammissibile rimandare la problematica del terrorismo islamista in questa tappa critica che punta sul futuro dell’Islam, dei musulmani e del resto dell’umanità».
Dopo un excursus storico sulla penetrazione dell’islamismo nella sfera politica di moli paesi musulmani, compreso l’Egitto, Abderrahmani scrive: «L’islamismo, la malattia dell’Islam, o il suo figlio maledetto, è il senso puro del nichilismo e dell’alienazione culturale e cultuale, la peggior tragedia generata dall’ignoranza consacrata e dall’assenza di uno spirito razionale e critico. Esso cerca di applicare alla lettera e di essere fedele alla “sharia islamica”. Detto in altro modo, tutti gli argomenti della galassia islamista – come per esempio Daesh, Boko Haram e gli altri gruppi – ai quattro angoli del mondo sono iscritti nel corpus e nella cultura islamica come è insegnata ad al-Azhar, nelle facoltà islamiche, e in centinaia di migliaia di moschee sparpagliate in oriente e in occidente. È quasi impossibile negare il legame esistente fra l’islamismo da un lato e il corpus islamico, le antiche interpretazioni del Corano e delle hadith [racconti sulla vita di Maometto, ndr] dall’altro: fra i due vi è una storia passionale. Del resto, tali insegnamenti sono oggi la fonte principale del fanatismo religioso delle nuove generazioni».
Ecco la questione delle questioni, l’autentico dramma nel quale si dibatte l’Islam. «Daesh e i diversi gruppi terroristi e politici islamisti non hanno inventato nulla, essi non hanno aggiunto alcuna parola, alcuna idea nuova o argomento a ciò che essi hanno trovato nei libri di riferimento della teologia musulmana. [Questi sono] una vera raccolta di idee morte, avvelenanti e velenose, venute fuori dalle antiche interpretazioni del Corano e delle hadith. Ciò che viviamo oggi ne è la prova».
«Questa situazione – spiega il giovane studioso musulmano – nuoce anzitutto all’Islam, bloccato e trasformato, divenuto fonte di una dottrina nefasta; poi a tutti i musulmani, che rischiano di essere esclusi dalle altre nazioni, di rimanere isolati e soprattutto di incancrenire la coabitazione con le altre componenti delle differenti religioni in pieno rispetto, nella pace e nella fraternità. Per questo, oggi, noi domandiamo la modernizzazione, la riforma dell’Islam dall’interno, e soprattutto di accettare le interpretazioni contemporanee del Corano fatte dai nostri esegeti di oggi, cartesiani e razionali, che, in più, hanno il senso della critica».
Secondo Abderrahmani «i musulmani devono rendersi conto senza dubbio del pericolo insito in questa situazione, perché fra l’Islam così come è concepito, visto e interpretato non vi è confine con l’islamismo: esso è l’incarnazione dell’islamismo stesso. Oggi è necessario che essi la finiscano di cantare il solito ritornello dopo ogni attentato islamista: “Questo non è l’Islam”. È urgente che essi prendano questa situazione nelle loro mani e comincino a riflettere ed agire in pienezza. Tutto è da rifare, dalle antiche interpretazioni del Corano, alle metodologie d’analisi, passando per la giurisprudenza e le referenze della legislazione religiosa».
Abderrahmani non nasconde che il lavoro da fare è enorme, ma non rinviabile. Occorre distinguere il vero dal falso e separarli. Il male va seppellito, il vero sostenuto. Solo così la pace, prima di tutto fra gli stessi musulmani, sunniti e sciiti, avrà una base solida. «Altrimenti, la nostra esistenza continuerà a vivere nella paura e nelle incertezze della sicurezza, e l’Islam come religione non potrà continuare che rimanendo strumentalizzato, sclerotico e stagnante. Lo abbiamo detto tante volte, l’ignoranza consacrata e il fallimento della riforma intra-islamica non fanno che favorire l’Islam delle mitragliatrici, delle spade e degli attentati suicidi».
E gli occidentali che cosa devono fare? Anche a questo proposito Abderrahmani non si dimostra certamente prigioniero del politicamente corretto: «Per quanto riguarda gli occidentali, essi hanno ragione ad aver paura, ad essere islamofobi e ad accusare l’Islam, perché noi siamo il frutto di questo albero che si chiama Islam e si è loro presentato un Islam stanco e appesantito dalla storia. Essi hanno ragione perché i musulmani non hanno osato riconoscere il male, estraendolo ed eliminandolo».
Guardare in faccia la realtà, a partire da quella musulmana. Ecco il primo dovere. E dire apertamente che se i musulmani non faranno questa operazione di divisione tra bene e male, tra vero e falso, tra ragionevole e irrazionale, «l’abisso fra i musulmani contemporanei e le altre nazioni si allargherà e si approfondirà la miseria di questa religione», così come «la coabitazione fra gli stessi musulmani e il resto dell’umanità».
Come si vede, se la diplomazia interreligiosa procede con le sue formule, necessariamente generiche, c’è chi non rinuncia ad andare in profondità, indicando i veri nodi da scogliere e le ferite da guarire.
Aldo Maria Valli
Venerdì mattina, a Dio piacendo, mi imbarcherò sul volo papale per seguire la visita di Francesco al Cairo. E sabato sera, sempre a Dio piacendo, saremo di ritorno. Un viaggio breve, dunque, ma che vale per tre. Come infatti ha ricordato lo stesso Francesco nel videomessaggio inviato al popolo egiziano, il papa va in Egitto per portare solidarietà ai cristiani copti colpiti dai recenti attentati, per incontrare la piccola comunità cattolica del paese e per far visita al Grande Imam di al-Azhar, Muhammad Ahmad al-Tayyib, il più importante esponente religioso dell’Egitto sunnita, responsabile sia della moschea sia dell’Università di al-Azhar.
I significati della visita sono dunque molteplici e intrecciati, ma qui mi concentro sull’incontro con il grande imam, che di fatto ristabilisce i pieni rapporti tra al-Azhar e la Santa Sede dopo il gelo sceso in seguito al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006, una separazione resa ancora più netta dal caso sollevato dall’imam nel 2011, quando il rettore stigmatizzò come ingerenza negli affari interni dell’Egitto le parole di condanna pronunciate da Benedetto XVI nel gennaio 2011 dopo gli attentati contro i cristiani ad Alessandria.
L’instancabile ricucitore è stato il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, che nel maggio 2016 è riuscito a portare in Vaticano l’imam al-Tayyib dopo un invito ufficiale recapitato ad al-Azhar dall’arcivescovo Miguel Angel Ayuso Guixot, segretario del dicastero presieduto da Tauran.
Alla fine di quella visita – conclusa da un comunicato congiunto nel quale si sottolineava il «grande significato di questo nuovo incontro» nel quadro del comune impegno per la pace nel mondo, il rifiuto della violenza e la tutela dei cristiani in Medio Oriente – il papa regalò all’imam una copia dell’enciclica «Laudato si’», per far capire che ci sono numerosi campi nei quali cattolici e musulmani possono lavorare insieme.
«L’idea di invitare in Vaticano il grande imam di al-Azhar – commentò in quell’occasione il padre Samir Khalil Samir, gesuita egiziano, docente di islamologia a Beirut e al Pontifico istituto orientale di Roma – è stata una scelta molto buona, fatta nel momento giusto. Durante il pontificato di Benedetto XVI i rapporti erano delicati, visto il conflitto nato quando erano state prese a pretesto alcune parole del papa, che in realtà non erano rivolte contro nessuno, ma difendevano la libertà religiosa. L’invito è un modo per riprendere il dialogo con l’islam sunnita, perché al-Azhar, com’è noto, è l’ateneo che forma il più gran numero di imam sunniti, migliaia all’anno, ed è l’università musulmana più famosa, esistendo da più di mille anni».
Le parole di Benedetto XVI strumentalizzate nel 2006 per alimentare il fuoco della violenza furono quelle pronunciate durante la «lectio magistralis» di Ratisbona, quando papa Ratzinger sottolineò l’importanza dell’unità fra ragione e fede e rimarcò gli esiti nefasti ai quali la religione va incontro quando, sganciata dalla ragione e quindi dal bene dell’uomo, può arrivare a giustificare tutto, anche la sopraffazione e il terrorismo. Come sappiamo, una citazione colta inserita nel testo fu utilizzata per sostenere che il papa aveva offeso l’Islam, e da quel momento al-Azhar troncò i rapporti con la Santa Sede.
Ora il dialogo riprende, ma intanto il papa emerito torna a far sentire la sua voce. Lo ha fatto con un messaggio inviato in Polonia, al simposio organizzato per i suoi novant’anni a Varsavia su «Il concetto di Stato nella prospettiva dell’insegnamento del cardinale Joseph Ratzinger-Benedetto XVI», un testo nel quale il papa emerito, ancora una volta, va al cuore del problema con cui ci stiamo confrontando nell’epoca del terrorismo endemico e della tensione continua tra Occidente e radicalismo islamico.
Ratzinger mette infatti a fuoco il nodo costituito dal duello tra due concezioni opposte dello Stato: da una parte lo Stato ateo e laicista, che non concede alla fede religiosa alcuno spazio pubblico ma pretende di estrometterla e di relegarla alla sola sfera privata, dall’altra lo Stato «radicalmente religioso» sostenuto dai movimenti islamisti, che non conosce distinzione tra religione e politica. Un confronto che non può portare a nulla di buono, perché da entrambe le parti c’è una forzatura contraria alla natura umana.
Quale, dunque, la strada percorribile secondo Ratzinger? La risposta l’ha data il suo ex portavoce, padre Federico Lombardi, che al simposio polacco ha detto: «Benedetto XVI è profondamente convinto che il vero fondamento, la garanzia più solida di un ordinamento capace di tutelare la dignità e il valore della persona umana stia nel riconoscimento da parte della ragione umana della verità di un ordine morale oggettivo, basato ultimamente sulla ragione creatrice di Dio».
Evidenti, in queste parole, sono gli echi di Ratisbona, e ancora vivo il desiderio di non restare alla superficie delle questioni che rendono tanto problematico il rapporto tra mondo occidentale di matrice cristiana e mondo musulmano sempre più sottoposto alle forzature di matrice islamista.
Ma in questi ultimi giorni c’è stato un altro intervento coraggioso circa l’Islam. L’ha pubblicato «Asianews» ed è ancora più importante perché viene da un musulmano. Si tratta di un articolo di Kamel Abderrahmani, studioso neppure trentenne che da tempo propone riflessioni sui nodi interni al mondo islamico.
Dopo ogni attentato terroristico, scrive l’autore, tornano le domande sul rapporto tra Islam e violenza, ma le analisi non spiegano le differenze e gli intrecci tra Islam e islamismo. «Le domande si moltiplicano e tormentano le nostre menti, facendo emergere fenomeni che hanno bisogno di essere analizzati e risolti. Io e con me tanti altri musulmani pensiamo che sia inammissibile rimandare la problematica del terrorismo islamista in questa tappa critica che punta sul futuro dell’Islam, dei musulmani e del resto dell’umanità».
Dopo un excursus storico sulla penetrazione dell’islamismo nella sfera politica di moli paesi musulmani, compreso l’Egitto, Abderrahmani scrive: «L’islamismo, la malattia dell’Islam, o il suo figlio maledetto, è il senso puro del nichilismo e dell’alienazione culturale e cultuale, la peggior tragedia generata dall’ignoranza consacrata e dall’assenza di uno spirito razionale e critico. Esso cerca di applicare alla lettera e di essere fedele alla “sharia islamica”. Detto in altro modo, tutti gli argomenti della galassia islamista – come per esempio Daesh, Boko Haram e gli altri gruppi – ai quattro angoli del mondo sono iscritti nel corpus e nella cultura islamica come è insegnata ad al-Azhar, nelle facoltà islamiche, e in centinaia di migliaia di moschee sparpagliate in oriente e in occidente. È quasi impossibile negare il legame esistente fra l’islamismo da un lato e il corpus islamico, le antiche interpretazioni del Corano e delle hadith [racconti sulla vita di Maometto, ndr] dall’altro: fra i due vi è una storia passionale. Del resto, tali insegnamenti sono oggi la fonte principale del fanatismo religioso delle nuove generazioni».
Ecco la questione delle questioni, l’autentico dramma nel quale si dibatte l’Islam. «Daesh e i diversi gruppi terroristi e politici islamisti non hanno inventato nulla, essi non hanno aggiunto alcuna parola, alcuna idea nuova o argomento a ciò che essi hanno trovato nei libri di riferimento della teologia musulmana. [Questi sono] una vera raccolta di idee morte, avvelenanti e velenose, venute fuori dalle antiche interpretazioni del Corano e delle hadith. Ciò che viviamo oggi ne è la prova».
«Questa situazione – spiega il giovane studioso musulmano – nuoce anzitutto all’Islam, bloccato e trasformato, divenuto fonte di una dottrina nefasta; poi a tutti i musulmani, che rischiano di essere esclusi dalle altre nazioni, di rimanere isolati e soprattutto di incancrenire la coabitazione con le altre componenti delle differenti religioni in pieno rispetto, nella pace e nella fraternità. Per questo, oggi, noi domandiamo la modernizzazione, la riforma dell’Islam dall’interno, e soprattutto di accettare le interpretazioni contemporanee del Corano fatte dai nostri esegeti di oggi, cartesiani e razionali, che, in più, hanno il senso della critica».
Secondo Abderrahmani «i musulmani devono rendersi conto senza dubbio del pericolo insito in questa situazione, perché fra l’Islam così come è concepito, visto e interpretato non vi è confine con l’islamismo: esso è l’incarnazione dell’islamismo stesso. Oggi è necessario che essi la finiscano di cantare il solito ritornello dopo ogni attentato islamista: “Questo non è l’Islam”. È urgente che essi prendano questa situazione nelle loro mani e comincino a riflettere ed agire in pienezza. Tutto è da rifare, dalle antiche interpretazioni del Corano, alle metodologie d’analisi, passando per la giurisprudenza e le referenze della legislazione religiosa».
Abderrahmani non nasconde che il lavoro da fare è enorme, ma non rinviabile. Occorre distinguere il vero dal falso e separarli. Il male va seppellito, il vero sostenuto. Solo così la pace, prima di tutto fra gli stessi musulmani, sunniti e sciiti, avrà una base solida. «Altrimenti, la nostra esistenza continuerà a vivere nella paura e nelle incertezze della sicurezza, e l’Islam come religione non potrà continuare che rimanendo strumentalizzato, sclerotico e stagnante. Lo abbiamo detto tante volte, l’ignoranza consacrata e il fallimento della riforma intra-islamica non fanno che favorire l’Islam delle mitragliatrici, delle spade e degli attentati suicidi».
E gli occidentali che cosa devono fare? Anche a questo proposito Abderrahmani non si dimostra certamente prigioniero del politicamente corretto: «Per quanto riguarda gli occidentali, essi hanno ragione ad aver paura, ad essere islamofobi e ad accusare l’Islam, perché noi siamo il frutto di questo albero che si chiama Islam e si è loro presentato un Islam stanco e appesantito dalla storia. Essi hanno ragione perché i musulmani non hanno osato riconoscere il male, estraendolo ed eliminandolo».
Guardare in faccia la realtà, a partire da quella musulmana. Ecco il primo dovere. E dire apertamente che se i musulmani non faranno questa operazione di divisione tra bene e male, tra vero e falso, tra ragionevole e irrazionale, «l’abisso fra i musulmani contemporanei e le altre nazioni si allargherà e si approfondirà la miseria di questa religione», così come «la coabitazione fra gli stessi musulmani e il resto dell’umanità».
Come si vede, se la diplomazia interreligiosa procede con le sue formule, necessariamente generiche, c’è chi non rinuncia ad andare in profondità, indicando i veri nodi da scogliere e le ferite da guarire.
Aldo Maria Valli