martedì 11 aprile 2017

Giudicare? Ecco perché il cattolico non solo può, ma deve farlo



di  (10/04/2017)
Dodici anni fa, il 18 aprile 2005, dopo la morte di Giovanni Paolo II, nella «Missa pro eligendo romano pontifice», il decano del collegio cardinalizio, il cardinale Joseph Ratzinger, pronunciò un’omelia che alle orecchie di molti suonò come un programma da affidare al futuro pontefice.
Un passaggio, in particolare, colpì tutti i presenti. È quello, famoso, nel quale Ratzinger denunciò la dittatura del relativismo, che ammette come unico metro di giudizio il proprio io moralmente ineducato: «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero. La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».

Poi il decano disse: «Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. È quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede  –  solo la fede – che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1 Cor 13, 1)».

Le parole dell’allora cardinale Ratzinger a molti possono sembrare superate. A me invece sono tornate alla mente leggendo il libro «Who Am I to Judge? Responding to Relativism with Logic and Love» («Chi sono io per giudicare? Una risposta al relativismo con la logica e l’amore»), del teologo Edward Sri, docente all’Augustine Institute di Denver, Colorado.

In questo testo il professor Sri si mette nei panni di tanti cattolici che, sottoposti alla mentalità relativista ormai ampiamente dominante, hanno paura di sostenere che sotto il profilo morale esiste un bene oggettivo e un male oggettivo e che dunque ci sono davvero scelte moralmente giuste o sbagliate.

Perché paura? Perché, risponde Sri, temono di offendere qualcuno e siccome non vogliono fare del male, ma apparire amorevoli, comprensivi e disponibili, evitano di formulare un giudizio morale sul comportamento delle persone.

Sri parte dalla sua esperienza accademica e ricorda tutte le volte che gli è stato chiesto: «Ma chi sei tu per giudicare? Chi sei tu per dire alla gente che cosa è giusto e che cosa è sbagliato? Perché la Chiesa cattolica ha la pretesa di giudicare?».

Da lì, rendendosi conto di quanto il relativismo influenzi ormai il comune sentire, il teologo ha preso spunto per incominciare a spiegare ai suoi alunni che c’è una differenza tra formulare un giudizio morale e giudicare l’anima di una persona.

Quando Gesù raccomanda di non giudicare ci chiede di non prendere il posto di Dio, perché solo Dio sa che cosa c’è nel cuore di ogni uomo, ma di certo non ci chiede di astenerci da ogni valutazione morale cadendo nel relativismo.

Paolo ricorda che l’uomo spirituale giudica «ogni cosa», e lo fa alla luce della Parola di Dio. Il giudizio è quindi amore. Ecco perché il cattolico, di fronte al fratello che sceglie il male, non può dire semplicemente «Io non lo farei, ma tu fai pure, basta che vada bene per te». Questo non è amore. Questa è indifferenza e, alla fine, collaborazione con il male.

Il professor Sri sostiene che mentre nelle parrocchie ci sono, giustamente, programmi per la preparazione ai sacramenti, per la fede dei bambini e degli adulti, perfino per lo studio della Bibbia, non c’è quasi nulla per aiutare i cattolici a ritrovare la capacità di giudicare la realtà in termini morali. Sotto sotto prevale l’idea che un simile lavoro non vada fatto, per non creare tensioni, per non offendere le sensibilità delle persone. Ma in questo modo si lascia che le creature restino moralmente allo sbando.

Il problema interpella molto i genitori, che spesso non solo non hanno gli strumenti per proporre risposte morali ai figli, ma ritengono che le risposte non vadano date. Prevale l’idea che i giovani dovranno fare le loro esperienze e poi giudicheranno, in base a ciò che l’esperienza avrà insegnato. Ma questa via non è cattolica. Questa è proprio la via indicata dal relativismo.

Occorre recuperare l’idea che la Chiesa, maestra in umanità, non giudica per il gusto di sanzionare e dividere, ma per il bene delle creature, per non lasciarle in preda al disorientamento morale che, confondendo il male con il bene, le conduce su una strada non di salvezza ma di perdizione.

Troppo spesso, dice Sri, separiamo verità e misericordia, verità e compassione, come fossero cose diverse, mentre, al contrario, vanno sempre insieme. Mai dimenticare che quando Gesù, di fronte all’adultera, dice ai suoi accusatori «chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra», non legittima il relativismo, per cui nessuno può giudicare nessuno, ma mette gli accusatori di fronte alla necessità di un esame di coscienza. E poi è vero che alla donna dice «neanch’io ti condanno», ma le dice anche «va’ e d’ora in poi non peccare più».

Un’altra argomentazione che il professor Sri propone di utilizzare nei confronti del relativismo riguarda la reciprocità. Quando un amico relativista ti dice «tu non puoi giudicare le persone, ognuno può fare come gli pare», non bisogna aver paura di replicare che, in questo modo, il relativismo, che parla tanto di libertà, pretende di imporre a tutti la sua visione del mondo.

Noi cristiani, conclude Sri, siamo troppo sulla difensiva. Dovremmo recuperare un po’ di coraggio e trovare il modo di mostrare che la nostra attenzione per il giudizio morale nasce dall’amore verso le persone, non dal desiderio di condannarle.

Proprio mentre leggevo le argomentazioni di Edward Sri mi sono imbattuto anche in un’interessante intervista, pubblicata dall’«Osservatore romano», con  il frate minore conventuale Rocco Rizzo, rettore del Collegio dei penitenzieri vaticani che accolgono le persone nei confessionali della basilica di San Pietro.

Alla domanda su come vivono oggi i giovani il sacramento della confessione, padre Rizzo risponde: «C’è una buona percentuale che si confessa da noi. Alcuni provengono da comunità, gruppi, associazioni laicali e sono più preparati alla confessione. Molti invece si sono accostati al sacramento in occasione della prima comunione e si sono fermati lì. Quando capitano questi casi, la confessione diventa molto difficile, soprattutto perché bisogna aiutare il penitente a scavare un po’ dentro la coscienza».

Quale la principale difficoltà nel confronto con i giovani?

Sta nel fatto, risponde il penitenziere, che «per i giovani di oggi è difficile riconoscere i peccati. Non hanno una coscienza formata. Il relativismo ormai ha preso il sopravvento e quindi si è perso il senso del peccato. Alcune questioni per molti non rappresentano un problema, per cui non vengono considerate nemmeno materia di confessione».

La risposta di padre Rizzo è chiara e mi fa pensare a quanto riferiscono molti catechisti, secondo i quali, nel rapporto con i giovanissimi, prima ancora di trasmettere contenuti di fede si tratta di ripristinare una coscienza morale che è già assopita a causa del relativismo respirato fin dai primi anni di vita.

Occorre aiutare la coscienza a risvegliarsi, dimostrando che il richiamo alla responsabilità personale di fronte al bene e al male, in senso oggettivo, non è un’inutile complicazione, un peso caricato sulle spalle della creatura innocente, ma l’unico modo verso l’autentica libertà, perché là dove la voce di Dio è messa a tacere la persona diventa schiava: a volte di se stessa e delle proprie debolezze, a volte di un’ideologia, a volte di sistemi di convenzioni tanto più falsi e anti-umani quanto più si presentano come fonti di liberazione interiore.

Ho incominciato con un pensiero dell’allora cardinale Ratzinger e voglio concludere ancora con lui.




«La coscienza richiede formazione e educazione. Può diventare rachitica; può essere distrutta; può essere deformata a tal pun­to da riuscire a esprimersi solo a stento o in maniera distorta. Il silenzio della coscienza può diventare una malattia mortale per una intera civiltà. Incon­triamo di tanto in tanto, nei Salmi, la preghiera a Dio perché liberi l’uomo dai suoi peccati nascosti. Il salmista vede come il più grande pericolo il non riconoscerli più come peccati, e cadere in essi apparentemente con buona coscienza. Non riuscire ad avere una coscienza di colpa è una malattia, come è una malattia l’assenza di dolore in una malattia. Non si può quindi accettare il principio che ognuno può sempre fare ciò che la sua coscienza lo autorizza a fare: in tal caso, un individuo senza coscienza sarebbe autorizzato a fare qualsiasi cosa. Invece è proprio per colpa sua se la coscienza è tanto oscurata che egli non vede più quello che, in quanto uomo, dovrebbe vedere […]. Questo significa per noi che il Magistero della Chiesa ha la responsabilità di una corretta formazione. Si rivolge, per così dire, alle vibrazioni interne che le sue parole suscitano nel processo di maturazione della coscienza […]. A questo corrisponde quindi un obbligo del Magistero di pronunciare la sua parola in modo tale che possa essere compresa in mezzo ai conflitti di valori e di orientamenti» (tratto da «Coscienza e verità. Conferenza a Dallas ed a Siena», in «La Chiesa. Una comunità sempre in cammino», Edizioni Paoline, 1991, pagg.113-137).











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