luglio 16, 2016 Mauro Grimoldi
Lucia e l’Innominato. Indagine su una battuta de “I promessi sposi”. E su tutta la lunga storia che c’è dietro e che è giunta fino a noi.
Questo articolo di Mauro Grimoldi, insegnante e poeta, è tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) e fa parte della serie “Idee per respirare”
«Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!».
Da dove arrivano queste parole sconosciute?
Perdono. E misericordia.
Da quale altezza di profondità sono risalite per prendere forma materiale e verbale in questa giovane, segregata nella cella del castello il cui signore neppure può essere chiamato per nome? E perché, non mai pensate, non mai conosciute, hanno l’impertinente scontroso ardire di penetrare fin dentro la camera segreta e inaccessibile della coscienza, dell’anima, fino a scardinarne le cateratte, in un’eruzione incontrollata e incontenibile di materia vitale, tremenda, implacabile, indomabile, che risale lungo le strettoie, le anse, i vicoli ciechi della incomprensibile geografia umana, e si aprono varchi, crateri, sfondano diaframmi cristallizzati, con una potenza incandescente di terrori, aperture, illusioni, possibilità; disperate chiusure, se neppure la vita può essere terminata, se neppure si può sperare di finire, morire, scomparire. Ah, l’ingombro ineluttabile di questo fragile grumo di polvere che nessuna decisione o potenza riesce a scomporre fino alla dissoluzione totale! Non si ha potere sull’essere, non si ha potere sul nulla.
«Un qualche demonio ha costei dalla sua… Un qualche demonio, o… un qualche angelo che la protegge…».
Costei è lì, rannicchiata a terra, che piange, supplica, trema, delira. Un’imponenza di sconosciuta fattura, una signoria strana e penetrante, imperiosa, esigente, eversiva fino al sollievo.
«Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!».
Qui l’autore e il suo personaggio si incontrano, in una intimità profonda e persino inusuale, dando sostanza più che verbale alla domanda ineludibile che sottende ogni movimento cosciente e invade ogni spasimo muscolare, sostiene ogni respiro: «Dio, se ci sei, rivelati a me!».
Che cosa convoca questo nome che non è un nome, Dio, al cospetto di chi si trova a invocarlo?
Padre, ragione, significato, amore, bellezza, giustizia, bontà: tutte parole destinate ad essere sfondate dalle definizioni che le circoscrivono entro le conosciute dimensioni dell’immaginabile, ma che pure, aperte all’ineffabile, cercano una forma, un particolare che si disponga ad ospitare questa urgenza di visitazione che muove Dio a voler dimorare tra noi perché sia visto, udito, toccato. Perché le parole dell’attesa ricevano sostanza tangibile e verace. Verbo abbreviato, dicevano i vecchi padri.
«Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua».
Le campane che accompagnano la luce crepuscolare, le persone che vanno, il cardinale, questo movimento di bello dietro le finestre del palazzo prigione non sono l’intrecciarsi impersonale e bizzarro d’una fortunosa coincidenza. C’è dietro una storia lunga, da quando Dio nella sua infanzia eterna ha plasmato ogni cosa dal nulla, da Adamo a Noè, da Abramo a Giovanni Battista, da Cristo agli apostoli, dai primi cristiani alla schiera nota e ignota di santi peccatori, fino ai volti prossimi di padri, madri, amici, fratelli che ci hanno consegnato l’Ospite che abita l’istante. Non un dispositivo meccanico produce l’avvenimento che giunge con la parvenza del caso, ma questa drammatica densa viva trama di persone, rapporti, amicizie: il presente ardore della comunione cristiana, l’emergenza attuale della risurrezione del Figlio.
Lucia stringe in mano la corona del Rosario, consegna a Maria le sue lacrime e persino la promessa di un voto da cui sarà giustamente sciolta. Anche questo gesto viene dalla saggezza del popolo cristiano, la fragile inamovibile impalcatura che tiene su tutta la storia, e il romanzo, e il suo stesso autore, quasi suo malgrado, verrebbe da dire.
Maria è la Madre della misericordia («Salve, Regína, Mater misericórdiae»), il ventre in cui si è riacceso l’amore; da lei viene l’opera della misericordia, foriera di quel dono infinito, iper dono, per cui quel che è morto torna a vivere.
Quando scende la notte nel Purgatorio dantesco, e viene il serpente a insidiare le anime che camminano verso la libertà, giungono gli angeli a loro difesa: «Vegnon del grembo di Maria», spiega il poeta Sordello tra la stupefazione dei presenti. Anche Virgilio, fuori dalla selva intricata in cui Dante sta per essere ingoiato di nuovo, viene a lui perché interpellato da Beatrice, che viene perché interpellata da santa Lucia, che viene perché interpellata da Maria. Il primo movimento è suo, di lei, della Mater Misericordiae, l’assunta: «Or ha bisogno il tuo fedele di te, e io a te lo raccomando».
Un movimento divino dentro la scena di questo mondo: l’opera della Misericordia.
«Con il mistero dell’Assunzione il Signore dice: “Vedete, io non vi farò perdere niente di quello che vi ho dato, di quello che avete usato, di quello che avete gustato, persino di quello che avete usato male, se voi sarete umili di fronte a me. Beati i poveri di spirito, cioè: se voi riconoscete che tutto è grazia, che tutto è misericordia, perché i vostri criteri sono niente, il mio criterio è tutto”. La Madonna già sta a quel livello ultimo, profondo dell’Essere da cui tutti gli esseri traggono consistenza, vita e destino. Per questo è stata assunta al cielo, là dove sta il mistero di Dio: perché fosse per noi madre quotidiana dell’avvenimento». (don Luigi Giussani)
Tempi.it
Nessun commento:
Posta un commento