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Giuliano Guzzo

Ha suscitato preoccupazione, in alcuni casi direi quasi panico un recente studio del Censis, non a caso intitolato Non mi sposo più, secondo il quale nel 2020 in Italia si conteggerannno più matrimoni civili che religiosi e nel 2031 non sarà più celebrato un solo matrimonio – neppure uno – nelle chiese italiane. Da sociologo, confesso invece che la mia reazione a questa notizia, di per sé tutto fuorché positiva chiaramente, non è stata affatto di dispiacere bensì di sollievo sia perché è importante che di questi fenomeni si inizi a parlare anche fra i non studiosi sia perché, nel mio piccolo, avevo diffuso la stessa identica notizia (senza però, prevedibilmente, ottenere la stessa visibilità del Censis) già due anni fa.

Più precisamente nel mio saggio, La famiglia è una sola (Gòndolin, 2014), confrontando quelli che sono i dati non solo italiani ma di diversi Paesi europei tra il 1970 ed il 2009 relativi al numero di matrimoni celebrati, spiegai – cito testualmente – che «a colpire non è solo la rapidità con la quale si è ridotto il numero delle coppie sposate, ma anche il fatto che, in mancanza di una inversione di rotta, nel giro di pochi decenni questa tendenza porterà il matrimonio ad estinguersi» (p.104). I motivi del calo delle nozze celebrate sono numerosi e spaziano dalla sfiducia nell’istituto, generata dallo stesso divorzio – che lo ha precarizzato -, alla secolarizzazione, dall’impoverimento economico al diffondersi di un individualismo incompatibile con la vita coniugale.

C’è però, a mio avviso, una ragione dell’estinzione del matrimonio che in qualche modo le riassume tutte. La ragione (mi spiace dovermi citare per la seconda volta) è che la famiglia è una sola, e nel momento in cui si inizia a predicare l’opposto sostenendo che esisterebbero – grazie alle convivenze, alle unioni omosessuali o addirittura ai cosiddetti poliamori – “nuove famiglie” non soltanto si favorisce a livello culturale la crisi della famiglia fondata sul matrimonio, ma si dice una cosa falsa: che si guardi alla stabilità di coppia anziché al beneficio della collettività, al benessere dei coniugi anziché a quello dei figli, non c’è infatti una sola evidenza scientifica che testimoni l’esistenza di un equivalente funzionale a quella che viene impropriamente chiamata famiglia tradizionale.

Eppure, ciò nonostante, continuiamo a farci sedurre – per paura di passare come intolleranti – dalla tesi secondo cui esisterebbero “nuove famiglie” perdendo di vista non solo l’unicità della famiglia, realtà empirica prima che filosofica o morale (senza offesa per filosofi e teologi morali, chiaramente), ma anche il suo fascino di realtà in grado di comporre fecondamente le differenze tra uomo e donna e di proiettare l’essere umano verso la dimensione che più gli è propria: quella dell’eterno. Per quanto infatti insistano col propinarci la menzogna secondo cui il precariato affettivo sarebbe libertà di scelta e il divorzio tutto sommato una conquista, nel cuore di ciascun uomo la sete di eternità – e di un’eternità da condividere – rimane inalterata e solo la stabilità propria della vita coniugale risulta in grado di saziarla.