giovedì 28 febbraio 2013

Tradizionale ed eccezionale. Le due facce della rinuncia al papato






Nell’ultimo giorno di permanenza sulla cattedra di Pietro di Joseph Ratzinger papa, il 28 febbraio 2013, il significato e gli effetti della sua rinuncia non cessano di accendere la discussione critica.Ecco in proposito un nuovo intervento di Pietro De Marco, professore all’università di Firenze e alla facoltà teologica dell’Italia centrale.



DI COSA ESSERE MASSIMAMENTE GRATI A JOSEPH RATZINGER GIÀ BENEDETTO XVI




di Pietro De Marco

Il cuore cattolico, nella sua maggiore estensione, dagli editorialisti del giornale dei vescovi al sentire di una maggioranza di italiani, oppone da giorni al tritume dissacratorio di pochi, ma anche al senso di vuoto di fronte alle dimissioni di Benedetto XVI, un coro di gratitudine: “Grazie, Benedetto!”.
Ma l’opinione pubblica, anche ecclesiale, deve evitare di consumare l’ennesima manipolazione sentimentalistica della verità cattolica.

Ci aiuta il cardinale Giuseppe Betori che ha indicato (omelia di domenica 17 febbraio) nell’instancabile magistero di Benedetto XVI rivolto alla “fedeltà assoluta al contenuto della fede” la “grande e intramontabile impresa” del papa, “cui va la nostra gratitudine nel momento in cui consegna umilmente la propria persona” a un estremo gesto di servizio, nel quale da altri si è vista una peculiare forma di testimonianza-martirio.

Credo che vada chiarito fermamente – anche con l’aiuto delle parole del cardinale, lette con attenzione – che una gratitudine ben orientata non si accende perché Benedetto XVI ha rinunciato all’ufficio, ma nel momento in cui – lasciando Joseph Ratzinger l’ufficio – scaturisce un giudizio sulla sua opera.
E si deve essere altamente grati a Dio per il dono dell’uomo Joseph Ratzinger e del papa Benedetto XVI agli uomini. E grati all’uomo e al papa per la loro decisiva “impresa”. Chi scrive ha sempre sostenuto ciò, e specialmente nei numerosi momenti di aggressione a Benedetto XVI.

Ma in sé, nella prospettiva che chiamo carismatica legata al suo ufficio, non è certamente un bene che un papa “rinunci”.

Io non ho gratitudine perché Joseph Ratzinger si separa da Benedetto XVI, che terminerà di esistere il 28 febbraio alle ore 20, esattamente come se Joseph Ratzinger non fosse più in vita. Confesso, a questo proposito, che la formula “sommo pontefice emerito” scelta per lui dalla Santa Sede mi pare foriera di equivoci.

Non ha senso essere riconoscenti – che è cosa diversa da capire – per un evento del genere, se non da parte di chi spera che anche l’ufficio petrino ne sia colpito a morte.

Ho già scritto che le opposte opzioni tra il persistere e il rinunciare sono per un papa entrambe legittime, anche se non è casuale che nella storia la “renuntiatio” sia stata rarissima. Sono legittime sotto vincoli, come ogni legittimità, tanto più se di diritto sacro. Quanto al papa come persona individuale, deve essergli evidente in coscienza (una coscienza bene ordinata) la giusta causa per la rinuncia, che è in ultimo una eccezionale ragione di forza maggiore. Sotto rischio di peccato grave (1).

Le ragioni profonde che si oppongono alla “renuntiatio” convergono nella salvaguardia dell’ufficio dalle sempre temute conseguenze di un atto che scompone il mirabile equilibrio, anzi l’unità di ordine sacro e di giurisdizione universale nella persona del papa. Da ciò l’allarme non solo dei tradizionalisti (non tutti: qualcuno di loro avversa il magistero romano) ma di chiunque voglia riflettere e non solo ricamare sentimenti o mascherare problemi.

L’eventualità peggiore è che questa eccezionale frattura nell’ufficio personale del papa possa divenire prassi “a tempo” per il futuro, sotto un criterio estrinseco come l’efficienza o simili. Poiché il dono e il compito sono da Dio e l’uomo non può toglierli all’uomo, se non in condizioni di emergenza da sempre previste ma rarissimamente riconosciute. Per la tradizione giuridica della Chiesa è la stessa potestà sovrana del pontefice, che implica un giudizio sovrano, a decidere riguardo alla propria persona. In sé è una formula perfetta, di massima completezza: integra valore e calcolo, signoria di Dio e libertà umana; è un carisma mediato razionalmente. Per questa stessa ragione la decisione di sospendersi da parte di una tale potestà è sempre indesiderabile.

La consapevolezza di questo – né era da pensare diversamente – appare in diversi passi dell’ultima udienza generale di Benedetto XVI, di mercoledì 27 febbraio, un magnifico testamento spirituale. Ha detto riferendosi al momento della sua elezione a papa:
“Da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore. Sempre: chi assume il ministero petrino non ha più alcuna privacy. Appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata”.

Entro questa appartenenza, ormai, alla totalità, non a sé, Benedetto XVI – col drammatico sentimento delle sue forze diminuite – ha detto d’aver compiuto il passo della rinuncia “nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità”.

Ed ha proseguito:
“Il ‘sempre’ [del ministero] è anche un ‘per sempre’: non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. […] Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro”.

Naturalmente il cenno alla rinuncia all’esercizio “attivo” non significa che persista in lui qualcosa come un carattere – non attivo – del ministero petrino. Il “servizio della preghiera” come tale è del cristiano e del sacerdote, non è una parte del “munus” di Pietro che resta su Joseph Ratzinger.

Il futuro pontefice, assistito dai cardinali e dalla scienza canonistica, dovrà, a mio avviso, dichiarare il carattere necessariamente tradizionale – non innovatore – della rinuncia di Benedetto XVI. E con ciò confermare l’intatta natura carismatica dell’ufficio sempre personale del successore di Pietro.

Ciò che la rinuncia di Benedetto XVI rappresenta per la Chiesa è nelle mani della Chiesa. L’idea che un evento “nuovo” rappresenti una cesura e una novità irreversibile da accogliere e celebrare come tale è un mito ottocentesco.

Il resto, poi, anche le formule del genere “il papa più umano” o “la Chiesa più moderna”, sono solo cascame. Il papa è sempre umano, la Chiesa è per sé moderna.



Firenze, 28 febbraio 2013


(1) Che l’atto di rinuncia di un papa sia ammissibile solo se esso si dimostri utile al bene della Chiesa universale a lui affidata, ma in caso contrario costituisca peccato grave, è clausola che risale alle prime formulazioni giuridiche della materia, nel secolo XII, in particolare a Uguccione da Pisa nella sua “Summa decretorum” (1188-1190): “si expediret, alias peccaret” (ndr).




fonte: http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/

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