Morto a 28 anni Sammy Basso, affetto da sindrome da invecchiamento precoce (progeria). Una malattia che non gli ha tolto la gioia, grazie all’amore di familiari e amici e alla sua fede cristiana.
Ermes Dovico, 08-10-2024
La sera di sabato 5 ottobre è tornato alla Casa del Padre, dopo un improvviso malore verso la fine di una festa di matrimonio ad Asolo (provincia di Treviso), Sammy Basso, biologo di 28 anni (ne avrebbe compiuti 29 il prossimo 1 dicembre). Volto noto in Italia e non solo, Sammy era affetto dalla progeria, una malattia genetica rara anche nota come sindrome dell’invecchiamento precoce. I suoi primi segni si erano manifestati poco dopo la nascita, ma la diagnosi corretta era giunta solo all’età di due anni, all’inizio del 1998, in un periodo in cui nel nostro Paese si sapeva molto poco di questa patologia. Grazie alla sua tenacia, all’amore da cui è stato circondato e anche ai passi avanti che ha fatto la ricerca scientifica nell’ultimo quarto di secolo, Sammy è arrivato ad essere il più longevo ammalato di progeria al mondo.
Sammy in persona è divenuto testimone in tanti modi – dalla partecipazione a programmi televisivi alla scrittura, fino al suo stesso percorso di studi – della necessità di diffondere la conoscenza della sua malattia, raccogliere fondi e facilitare così l’approdo a possibili cure. A tal fine i suoi genitori, con alcuni amici, hanno fondato nel 2005 l’Associazione Italiana Progeria Sammy Basso. Prima e dopo questa fondazione, Sammy e la sua famiglia sono riusciti a fare rete con altri bambini e ragazzi affetti dalla stessa malattia, entrando in contatto con altre associazioni negli Stati Uniti e in Europa, il che ha facilitato lo scambio di esperienze, conoscenze e dati, a tutto vantaggio delle famiglie stesse e dei medici e ricercatori impegnati nel tentativo di curare e alleviare il più possibile le conseguenze della progeria. Uno scambio che si è rivelato utile anche nella cura di altre malattie.
Sammy si era laureato con 110 e lode in Scienze naturali all’Università di Padova (2018), con una tesi volta a dimostrare la possibilità di curare la progeria per mezzo dell’ingegneria genetica. Tre anni più tardi si era specializzato, presso lo stesso ateneo, in Biologia molecolare, stavolta con una tesi sul rapporto tra progeria e infiammazione. Diceva: «Piuttosto che concentrarmi sui limiti che la progeria impone, preferisco pensare alle tante cose in cui posso fare la differenza».
Nonostante le fatiche della vita quotidiana, Sammy mostrava una gioia di vivere e un sorriso che sono merce rara anche tra chi ha una salute invidiabile. Ai suoi amici, quelli più comuni e quelli famosi (tra questi, anche Jovanotti), si premurava di ricordare, sia a parole sia ancor più con i fatti, che la vita è bella e sempre degna di essere vissuta. E la sua famiglia la definiva «una grande squadra». Nella vita di Sammy in effetti è facile scorgere una “ricetta” che vale per ogni persona, ossia che l’amore ricevuto dai propri cari e dagli amici è la prima grande “medicina” che si può umanamente dare a un malato come pure a chiunque altro, il primo grande riparo da quelle tentazioni e cadute nella disperazione che una certa cultura della morte e relative, ingiuste leggi stanno via via favorendo nelle nostre società post-cristiane. Altro aspetto fondamentale: la gratitudine. «Sin da piccolo – raccontava alla rivista Gente Veneta nel giugno 2020 – ho conosciuto i più grandi centri di ricerca al mondo e sono stato più volte in ospedale. Ho conosciuto molti grandi medici e ricercatori. Devo riconoscere di aver visto la bontà di tante persone: spesso si pensa che il mondo sia cattivo, e per certi versi è vero, ma ho sperimentato quanta gente si è messa in cammino per aiutarci».
Nato e cresciuto da genitori cattolici, Sammy ha saputo vivere la sua vita terrena in pienezza, animato dalla virtù teologale della speranza, con la capacità di alzare lo sguardo verso ciò che lo avrebbe atteso in Paradiso, nell’eternità. «La fede è la parte principale, la più intima di me stesso. Potrei dire qualsiasi cosa su di me, ma se non dicessi che ho fede è come se non dicessi niente. Sono credente e spesso magari mi viene anche chiesto come si fa a credere nonostante una malattia genetica così rara. Per me, però, Dio è così grande, cioè una realtà talmente oltre ogni portata, che veramente ogni cosa scompare, perché credo che Dio mi ha dato una vita, mi ha dato una famiglia, mi ha dato degli amici, mi ha dato un mondo dove stare e queste sono tutte cose molto più importanti, molto più grandi di quelle che una malattia può togliere», diceva Sammy nel febbraio 2020, in un’intervista per Beati Voi, su Tv2000. Aggiungeva allora: «Della fede cristiana mi piace proprio questo: il fatto che tutti noi fedeli dovremmo cercare di assomigliare a Dio, tenendo però conto che Lui ci ha reso il compito facile, perché è Lui che ha voluto assomigliare tantissimo a noi, ha condiviso ogni cosa con noi: dalla festa al dolore, alla morte».
Sammy sapeva bene di essere molto di più della sua malattia, rispetto a cui, come visto, non si autocommiserava e, anzi, riusciva a vedere tutto il buono che era nato dall’accettazione della stessa. Non solo ha saputo vivere unito alla Passione di Gesù – che chiamava «il mio Salvatore» – ma se ne faceva anche apostolo, ricordando come il Suo messaggio di salvezza vada «oltre ogni barriera religiosa e valga anche per gli atei». Indossava il tau, Sammy, devoto di san Francesco, di cui ha potuto celebrare l’ultima festa in terra proprio il giorno prima della morte. Giunta poco prima del giorno del Signore, di cui gli auguriamo di contemplare già il volto, partecipando di quella gloria che Cristo stesso ha promesso a chi prende la propria croce e Lo segue.
Sammy in persona è divenuto testimone in tanti modi – dalla partecipazione a programmi televisivi alla scrittura, fino al suo stesso percorso di studi – della necessità di diffondere la conoscenza della sua malattia, raccogliere fondi e facilitare così l’approdo a possibili cure. A tal fine i suoi genitori, con alcuni amici, hanno fondato nel 2005 l’Associazione Italiana Progeria Sammy Basso. Prima e dopo questa fondazione, Sammy e la sua famiglia sono riusciti a fare rete con altri bambini e ragazzi affetti dalla stessa malattia, entrando in contatto con altre associazioni negli Stati Uniti e in Europa, il che ha facilitato lo scambio di esperienze, conoscenze e dati, a tutto vantaggio delle famiglie stesse e dei medici e ricercatori impegnati nel tentativo di curare e alleviare il più possibile le conseguenze della progeria. Uno scambio che si è rivelato utile anche nella cura di altre malattie.
Sammy si era laureato con 110 e lode in Scienze naturali all’Università di Padova (2018), con una tesi volta a dimostrare la possibilità di curare la progeria per mezzo dell’ingegneria genetica. Tre anni più tardi si era specializzato, presso lo stesso ateneo, in Biologia molecolare, stavolta con una tesi sul rapporto tra progeria e infiammazione. Diceva: «Piuttosto che concentrarmi sui limiti che la progeria impone, preferisco pensare alle tante cose in cui posso fare la differenza».
Nonostante le fatiche della vita quotidiana, Sammy mostrava una gioia di vivere e un sorriso che sono merce rara anche tra chi ha una salute invidiabile. Ai suoi amici, quelli più comuni e quelli famosi (tra questi, anche Jovanotti), si premurava di ricordare, sia a parole sia ancor più con i fatti, che la vita è bella e sempre degna di essere vissuta. E la sua famiglia la definiva «una grande squadra». Nella vita di Sammy in effetti è facile scorgere una “ricetta” che vale per ogni persona, ossia che l’amore ricevuto dai propri cari e dagli amici è la prima grande “medicina” che si può umanamente dare a un malato come pure a chiunque altro, il primo grande riparo da quelle tentazioni e cadute nella disperazione che una certa cultura della morte e relative, ingiuste leggi stanno via via favorendo nelle nostre società post-cristiane. Altro aspetto fondamentale: la gratitudine. «Sin da piccolo – raccontava alla rivista Gente Veneta nel giugno 2020 – ho conosciuto i più grandi centri di ricerca al mondo e sono stato più volte in ospedale. Ho conosciuto molti grandi medici e ricercatori. Devo riconoscere di aver visto la bontà di tante persone: spesso si pensa che il mondo sia cattivo, e per certi versi è vero, ma ho sperimentato quanta gente si è messa in cammino per aiutarci».
Un amore ricevuto che Sammy ritrasmetteva a piene mani. «È lui che aiuta noi, con la sua forza, la sua determinazione e la sua ironia. Non si arrende mai, trova sempre in se stesso e nella fede in Dio le energie per farcela», spiegava mamma Laura nel 2019 in un’intervista al Corriere della sera. Anche la passione che Sammy metteva nello studio, gli sforzi fatti per divenire ricercatore non erano diretti a suo esclusivo beneficio, ma trovavano alimento nell’amore per il prossimo, nel desiderio di aiutare gli altri malati in condizioni simili. Credeva in un sano connubio tra fede e scienza.
Nato e cresciuto da genitori cattolici, Sammy ha saputo vivere la sua vita terrena in pienezza, animato dalla virtù teologale della speranza, con la capacità di alzare lo sguardo verso ciò che lo avrebbe atteso in Paradiso, nell’eternità. «La fede è la parte principale, la più intima di me stesso. Potrei dire qualsiasi cosa su di me, ma se non dicessi che ho fede è come se non dicessi niente. Sono credente e spesso magari mi viene anche chiesto come si fa a credere nonostante una malattia genetica così rara. Per me, però, Dio è così grande, cioè una realtà talmente oltre ogni portata, che veramente ogni cosa scompare, perché credo che Dio mi ha dato una vita, mi ha dato una famiglia, mi ha dato degli amici, mi ha dato un mondo dove stare e queste sono tutte cose molto più importanti, molto più grandi di quelle che una malattia può togliere», diceva Sammy nel febbraio 2020, in un’intervista per Beati Voi, su Tv2000. Aggiungeva allora: «Della fede cristiana mi piace proprio questo: il fatto che tutti noi fedeli dovremmo cercare di assomigliare a Dio, tenendo però conto che Lui ci ha reso il compito facile, perché è Lui che ha voluto assomigliare tantissimo a noi, ha condiviso ogni cosa con noi: dalla festa al dolore, alla morte».
Sammy sapeva bene di essere molto di più della sua malattia, rispetto a cui, come visto, non si autocommiserava e, anzi, riusciva a vedere tutto il buono che era nato dall’accettazione della stessa. Non solo ha saputo vivere unito alla Passione di Gesù – che chiamava «il mio Salvatore» – ma se ne faceva anche apostolo, ricordando come il Suo messaggio di salvezza vada «oltre ogni barriera religiosa e valga anche per gli atei». Indossava il tau, Sammy, devoto di san Francesco, di cui ha potuto celebrare l’ultima festa in terra proprio il giorno prima della morte. Giunta poco prima del giorno del Signore, di cui gli auguriamo di contemplare già il volto, partecipando di quella gloria che Cristo stesso ha promesso a chi prende la propria croce e Lo segue.
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