Part. della vetrata dedicata a F. Jägerstätter nella Votivkirche di Vienna. (Haeferl, wiki)
Marta Dell'Asta, 11 Ottobre 2024
Il discernimento di una coscienza illuminata dal Vangelo non è roba d’altri tempi. È quello che ci manca oggi.
«La vera storia della Chiesa è la storia dei santi e dei martiri» ha detto papa Francesco, ricordandoci implicitamente che la testimonianza è essenziale per i cristiani: in quanto battezzati, tutti vi siamo tenuti. Ricordarlo e capirne il valore non è solo un gesto di pietà: l’esperienza dei confessori della fede e dei testimoni getta una nuova luce sulla nostra vita e sui fatti della storia in cui siamo immersi, offrendoci un orientamento in un periodo che per la sua drammaticità ci vede sempre più sgomenti, quasi incapaci di vedere una via di uscita tra la disperazione che ci annichila e il desiderio di voltare la faccia dall’altra parte, non solo per non vedere, ma anche per dimenticare, o per convincerci che non sia successo nulla.
Non siamo capaci di un giudizio, e anche quando ci riferiamo alla tradizione cristiana, il Vangelo e i santi ci sembrano cose di un altro mondo, ormai scomparso e irripetibile, troppo spirituale per i nostri tempi: la verità e la misericordia, la giustizia e il perdono sembrano inconciliabili e anche il solo accostare queste parole ci sembra uno scandalo insostenibile.
Ci sembra di vivere in un tempo maledetto dove non è più possibile essere cristiani. Eppure, la testimonianza dei martiri è stata spesso, se non sempre, scandalosa e questo non ha impedito la loro esistenza né, poi, la loro venerazione. Persino l’antico martire sant’Alessandro – se proviamo a immedesimarci in una situazione storica concreta – in quanto soldato e comandante di centuria avrà fatto scandalo tra i suoi commilitoni per essersi rifiutato di eseguire gli ordini e far strage di cristiani. Il suo era un tradimento dell’impero, del giuramento militare. Noi oggi questo non lo consideriamo, per cui ci sembra che allora tutto fosse più semplice e spirituale. Lo stesso se pensiamo ai recenti «nuovi martiri russi» del XX secolo che caddero vittime del regime bolscevico, o ai ragazzi della Rosa Bianca o a Dietrich Bonhoeffer, tutti loro hanno accettato di testimoniare la verità in circostanze nelle quali per lo spirito non sembrava esserci grande spazio.
E allora – osservava padre Aleksej Uminskij in una predica recente – cosa possiamo chiedere ai nuovi martiri che vediamo in fotografia non col nimbo della gloria ma con volti sfatti e sconvolti, così poco spirituali: che ci vada bene l’esame? Di trovar casa?
Con il nostro materialismo, questi santi non ci servirebbero a granché; a meno che gli si possa chiedere ancora qualcosa che c’entra con la loro santità: semplicemente, che ci aiutino ad essere come loro, fedeli a Cristo. Però chiedere questo implica una condizione importante: «I nuovi martiri e confessori – continuava Uminskij – dicevano la verità; non avevano paura della verità (…). Invece a noi viene comodo chiedere ai santi d’altri tempi che ci facciano vivere felici e contenti (…) mentre varrebbe la pena che noi chiedessimo di diventare dei veri cristiani, delle persone oneste che non hanno paura di dire la verità, di testimoniare quella stessa verità divina che ci annuncia il Vangelo».
Questo potrebbe andar bene non solo per i cristiani ma per tutti gli uomini sinceramente innamorati della verità, del bene e della giustizia.
Per essere veri cristiani, però, sosteneva ancora padre Uminskij, bisogna amare così tanto la verità da avere il coraggio di testimoniarla, esponendosi pubblicamente, scontrandosi con la mentalità corrente, essendo disposti a mostrare a cosa si tiene veramente. Come aveva scritto Aleksej Naval’nyj dal lager un mese prima di essere ucciso, chiarendo i termini della questione: «Se le tue convinzioni valgono qualcosa devi essere pronto a difenderle. E, se necessario, devi essere disposto ad accettare dei sacrifici. Se non sei pronto, significa che non hai nessuna convinzione. Pensi di averne, tutto qui. Ma non sono né convinzioni né principi, sono soltanto delle idee che hai nella testa».
La verità implica dunque un sacrificio e, senza arrivare alle prove estreme, il prezzo da pagare può essere anche semplicemente l’isolamento, come osservava il cardinal Pizzaballa, patriarca dei cattolici latini di Terra Santa, confessando che oggi, nel nodo insolubile delle ragioni e torti della guerra, il suo attaccamento alla verità – che è Cristo e non una delle parti belligeranti – lo condanna a una certa solitudine, che lui accetta però come una condizione utile e profetica.
Deve essere chiaro però che, se facciamo fatica ad ascoltare e ad accettare testimonianze come queste, non è perché le condizioni di oggi siano più difficili di quelle che vennero affrontate sotto il potere nazista o bolscevico: è la nostra coscienza cristiana ad essere fragile e smarrita.
E la coscienza non sono «le idee che hai in testa», le opinioni, che facciamo e disfiamo con la facilità con la quale ci si cambia d’abito, ma qualcosa che va formato e verificato ogni giorno in un continuo confronto con i fatti, perché la coscienza non è mai formata definitivamente: essa cammina nella realtà e si lascia continuamente plasmare, in un percorso che, per un cristiano, è segnato dal confronto con la parola di Cristo e con l’insegnamento della Chiesa.
La coscienza implica dunque innanzitutto una questione di responsabilità di fronte al reale, di fronte ai fatti che non possono mai essere confusi con le opinioni che noi ci creiamo su di essi; qui la differenza è radicale e si fonda su un’alternativa evidente: tra la pretesa di creare noi la realtà e la verità, concependola come un nostro possesso geloso che ci rende ciechi di fronte alla complessità del reale e tendenzialmente aggressivi.
Sulla prima questione vale l’acuta puntualizzazione di padre Zelinskij: se le nostre idee costituiscono un muro che i semplici fatti non riescono a penetrare, vuol dire che non stiamo usando la ragione, ma pulsioni che vengono da passioni, voglie, fantasmi che infestano la nostra memoria.
Sull’aggressività con la quale spesso crediamo di poter difendere la verità, varrà la pena osservare che sacrificarsi per la verità non significa sacrificare gli altri: anche i jihadisti sacrificano la vita (non solo la loro, oltre tutto), ma lo fanno per odio; diverso è il sacrificio come forma di incarnazione di un amore concreto per chi abbiamo davanti, la moglie, i figli, gli amici, il proprio paese.
Oltre a richiedere l’impegno della responsabilità, la coscienza ha dunque bisogno anche dell’uso della ragione, secondo un legame che Naval’nyj aveva ben colto: «Rinunciare alla coscienza alla fine dei conti porta a rinunciare al raziocinio», aveva detto alla fine del suo processo farsa per estremismo, ricordando che rinunciare alla prima rende immorali e rinunciare al secondo rende inefficaci, incapaci di una qualsiasi azione, mentre la ragione non è il regno delle astrazioni, accessibile solo a pochi eletti, ma una questione assolutamente concreta che impegna tutti.
Un’illustrazione impressionante di cosa possa fare una retta coscienza che cresce con la vita e usa la ragione la troviamo nel contadino austriaco Franz Jägerstätter che, nonostante fosse un uomo semplice e illetterato, era arrivato a capire la disumanità radicale del nazionalsocialismo, distaccandosi in questo da tutti i suoi compaesani. E, una volta divenuto certo dell’incompatibilità assoluta tra nazismo e cristianesimo, era arrivato a rifiutare la chiamata alle armi, per la qual cosa fu ghigliottinato nel 1943.
Come aveva potuto lui arrivare a tanta chiarezza? Innanzitutto, tenendo gli occhi ben aperti sui fatti che accadevano (e sui quali riusciva trovare il modo di informarsi nonostante la censura nazista, mentre noi spesso viviamo solo di un sentito dire che spacciamo per libertà e pluralismo di informazione) e poi confrontandosi lealmente con la parola di Dio, pregando intensamente; così era arrivato a formulare sul nazionalsocialismo un giudizio di cui né il suo parroco, né il suo vescovo, né tutta la comunità del suo villaggio erano stati capaci.
Ma Jägerstätter si era lasciato muovere da un senso di responsabilità che non poteva mettere a tacere e lo distingueva, come diceva lui stesso, da «quelli che non vogliono riconoscere la pericolosa situazione nella quale ci troviamo o che non nuotano controcorrente semplicemente perché è più faticoso che lasciarsi trasportare dalle onde»; ma la linea del disimpegno priva l’uomo di qualcosa di essenziale: «la capacità di giudizio e di azione».
Questa capacità di giudizio era per lui coessenziale alla fede; per esempio, gli aveva permesso di distinguere il dovere dell’obbedienza civile all’autorità costituita dal dovere di non obbedire là dove la coscienza vedeva l’abuso dello Stato. Jägerstätter a questo proposito arriva a dire qualcosa di veramente sconvolgente per noi, per il nostro qualunquismo: «Davvero queste autorità hanno davanti a Dio una responsabilità così grande, come noi crediamo, e noi siamo incolpevoli? Dio ci giudicherà più per la nostra capacità di discernimento che per il ruolo da noi coperto».
Forse, se non capiamo quel che succede è perché non ci interessa più di tanto farlo, mentre Franz, che aveva un autentico amore per Cristo, aveva raggiunto quel discernimento che a noi manca. Lo stesso «percorso di discernimento» è possibile anche nella nostra epoca così confusa, ma richiede tutta la nostra ragione, la nostra umanità, e un sincero amore per Cristo.
Davvero, come diceva padre Uminskij, venerare i santi significa imitarli e seguirli nel loro cammino, a patto che si desideri veramente questo cammino e che si capisca che è possibile in qualsiasi condizione, di fronte a qualsiasi male. Ce lo ci ricorda un testimone purtroppo dimenticato, Michail Novosëlov (1864-1938), storico e pensatore russo che nel periodo staliniano trascorse dieci anni in prigionia, privato della possibilità di insegnare e di scrivere; e che oltretutto patì l’atroce delusione di vedere i vertici della sua Chiesa conniventi con il potere ateo; e che infine subì la condanna alla fucilazione, apparente trionfo finale del nemico.
Evidentemente quest’uomo visse lo scontro con l’imponenza del male, ma pur nella drammaticità della sua vita conservò al fondo una certezza positiva che ricomprendeva anche il male:
«Ai nostri giorni – scriveva – si mostra con forza il “mistero dell’iniquità” ma non deve turbare i cristiani, fiduciosi nell’incrollabilità della Chiesa di Dio. L’anticristo e i suoi profeti non devono far paura ai figli della Chiesa che è “colonna e fondamento della verità”. (…) Non affliggetevi, gli sconvolgimenti sono necessari per risanare il corpo ecclesiale. (…) Misteriosamente, attraverso le mani degli empi, il Signore compie la sua santa volontà, lavando la sua Sposa nel sangue dei martiri e dei confessori».
La sfida di questa coscienza si ripropone a noi oggi in tutta la sua luce.
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