Con il Motu Proprio Traditionis Custodes, pubblicato ieri, papa Francesco demolisce quanto Benedetto XVI aveva voluto con il Motu Proprio Summorum Pontificum, che riconosceva la legittimità e la bellezza della forma liturgica "antica". Ora quanti frequentano la Messa antica sono disprezzati, ridotti in un ghetto, tollerati a mala pena, impediti di crescere.
Speravamo che morisse prima; ma siccome persiste a rimanere in vita, andiamo avanti lo stesso. Il soggetto in questione, che si ostina a campare tra un acciacco e un altro, è Benedetto XVI. È questa la sintesi non del contenuto, ma dello spirito del nuovo Motu Proprio, voluto da Francesco, Traditionis Custodes, presentato ieri. Un “titolo” che è un vero capolavoro di ipocrisia, dal momento che gli articoli del Motu Proprio decretano la morte di quella che, con buona pace di tutti, continuiamo a chiamare la Forma Straordinaria del Rito Romano, valorizzata invece dal Motu Proprio Summorum Pontificum (2007) di Benedetto XVI. Una morte per soppressione o estinzione, a seconda dei contesti.
Con un’ironia tipicamente gesuitica, Francesco si richiama ai venerati predecessori, incluso Benedetto XVI, del quale però riporta solo il nome, per distruggerne l’opera. Ci eravamo già abituati dall’epoca di Amoris Laetitia, quando si citavano Giovanni Paolo II e Tommaso d’Aquino come auctoritates per affermare esattamente l’opposto del loro insegnamento.
È infatti evidente che il Motu Proprio Summorum Pontificum esprimeva il riconoscimento della legittimità e bellezza di quella forma liturgica, che per comodità chiamiamo “antica”, come anche il profondo rispetto per quanti, sacerdoti e fedeli, trovavano in essa pascolo per la propria vita cristiana. Con la decisione di ieri ci troviamo invece di fronte alla demolizione del Motu Proprio di Benedetto XVI, punto per punto. A partire dall’art. 1, che non riconosce più gli antichi libri liturgici quali espressione dell’unica lex orandi del Rito romano.
Se dunque l’usus antiquior non ha più nulla a che vedere con la preghiera liturgica della Chiesa è chiaro che diventa la liturgia delle riserve indiane. Le quali devono essere sopportate ancora per un po’, fino alla loro estinzione, assicurandosi che questi personaggi antiquati non si moltiplichino e non contagino gli altri. È esattamente questo il senso delle decisioni prese dal Motu Proprio, che trovano la loro anima nella convinzione espressa da Francesco, totalmente incongruente rispetto alla realtà, secondo la quale i suoi predecessori avrebbero semplicemente «inteso “facilitare la comunione ecclesiale a quei cattolici che si sentono vincolati ad alcune precedenti forme liturgiche” e non ad altri». La citazione interna è tratta dal Motu Proprio Ecclesia Dei del 1988 e ad essa Francesco ha ritenuto di dover aggiungere quel «e non ad altri», che va nella direzione diametralmente opposta rispetto all’altro Motu Proprio, il Summorum Pontificum, che proprio anche a questi “altri” aveva voluto estendere la possibilità di godere delle ricchezze di quella forma liturgica.
Evidentemente contaminato da quelle ideologie che hanno fatto della contraddizione il motore della storia, Francesco ama muoversi di contraddizione in contraddizione, come quando, nella lettera che accompagna Traditionis Custodes, riesce incredibilmente a sostenere di essere confortato nella propria decisione di distruggere il Summorum Pontificum dal fatto che, «dopo il Concilio di Trento, anche san Pio V abrogò tutti i riti che non potessero vantare una comprovata antichità, stabilendo per tutta la Chiesa latina un unico Missale Romanum». Se Francesco avesse seguito i criteri del Santo predecessore, avrebbe dovuto coerentemente abrogare i nuovi libri liturgici, i quali non possono dimostrare che mezzo secolo di vita.
Nella sostanza, il nuovo Motu Proprio è una dichiarazione di guerra a quanti frequentano la Messa antica. Oltre al già richiamato art. 1, secondo il quale «i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II [...] sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano», la direzione è quella del ritorno a un regime d’indulto, nel quale sacerdoti e fedeli devono praticamente essere controllati e sopportati. L’esclusiva competenza torna infatti nelle mani dei Vescovi, i quali potranno eventualmente sopprimere i centri dove si celebra in rito antico, ma non potranno invece erigerne di nuovi. Infatti, nell’art. 3 § 6 si precisa che il Vescovo «avrà cura di non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi». I gruppi già esistenti, invece, saranno passati al vaglio per accertarsi che «non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici». Potrebbe essere interessante – così, per par condicio – che i fedeli che frequentano la nuova Messa vengano interrogati sui canoni del Concilio di Trento, o su Evangelium Vitae...
Inoltre il Vescovo deve procedere «nelle parrocchie personali canonicamente erette a beneficio di questi fedeli, a una congrua verifica in ordine alla effettiva utilità per la crescita spirituale, e valuti se mantenerle o meno» (§ 5).
Il vescovo poi potrà autorizzare luoghi per la celebrazione dei gruppi “vagliati”, «non però nelle chiese parrocchiali e senza erigere nuove parrocchie personali» (§ 2). Non sia mai che contagino qualcuno.
I sacerdoti che «già celebrano secondo il Missale Romanum del 1962, richiederanno al Vescovo diocesano l’autorizzazione per continuare ad avvalersi della facoltà» (art. 4), mentre quanti verranno ordinati «dopo la pubblicazione del presente Motu proprio, che intendono celebrare con il Missale Romanum del 1962, devono inoltrare formale richiesta al Vescovo diocesano il quale prima di concedere l’autorizzazione consulterà la Sede Apostolica».
La ghigliottina scatta anche sulla testa degli Istituti ex-Ecclesia Dei, come la Fraternità Sacerdotale San Pietro, l’Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote, l’Istituto del Buon Pastore, la Fraternità San Vincenzo Ferrer ed altri. In virtù dell’art. 6, questi istituti «passano sotto la competenza della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica». Il duo Braz de Aviz- Carballo già si frega le mani...
Prima considerazione. La lettera ed il Motu Proprio rivelano ad ogni riga il disprezzo verso i fedeli legati alla liturgia antica: a loro e a nessun altro viene fatta la “prova di fedeltà” alla Chiesa; loro e nessun altro devono essere relegati lontano dalle parrocchie; a loro e a nessun altro viene impedito di allargarsi. Si tratta di una ghettizzazione a tutti gli effetti.
Seconda considerazione: la differenza tra l’atteggiamento di Benedetto XVI e quello di Francesco. Il primo ha lavorato instancabilmente, sopportando forti resistenze, perché nella Chiesa non si creasse una rottura interna con ciò che era sacro per le generazioni antiche. Il secondo taglia qualsiasi ponte con quella eredità, che utilizza a suo piacimento, violentandola, solo per dare ragione a se stesso. Il primo ha cercato di far sentire a casa propria, nella Chiesa, tutti quei fedeli che hanno vissuto lo choc delle riforme, autorizzate o meno, degli anni Settanta, apprezzando la loro fedeltà e serietà e coinvolgendoli in un servizio alla Chiesa. Il secondo li rifila in un ghetto, tollerandoli a mala pena, facendogli l’interrogatorio e impedendo loro di crescere e moltiplicarsi.
Con un’ironia tipicamente gesuitica, Francesco si richiama ai venerati predecessori, incluso Benedetto XVI, del quale però riporta solo il nome, per distruggerne l’opera. Ci eravamo già abituati dall’epoca di Amoris Laetitia, quando si citavano Giovanni Paolo II e Tommaso d’Aquino come auctoritates per affermare esattamente l’opposto del loro insegnamento.
È infatti evidente che il Motu Proprio Summorum Pontificum esprimeva il riconoscimento della legittimità e bellezza di quella forma liturgica, che per comodità chiamiamo “antica”, come anche il profondo rispetto per quanti, sacerdoti e fedeli, trovavano in essa pascolo per la propria vita cristiana. Con la decisione di ieri ci troviamo invece di fronte alla demolizione del Motu Proprio di Benedetto XVI, punto per punto. A partire dall’art. 1, che non riconosce più gli antichi libri liturgici quali espressione dell’unica lex orandi del Rito romano.
Se dunque l’usus antiquior non ha più nulla a che vedere con la preghiera liturgica della Chiesa è chiaro che diventa la liturgia delle riserve indiane. Le quali devono essere sopportate ancora per un po’, fino alla loro estinzione, assicurandosi che questi personaggi antiquati non si moltiplichino e non contagino gli altri. È esattamente questo il senso delle decisioni prese dal Motu Proprio, che trovano la loro anima nella convinzione espressa da Francesco, totalmente incongruente rispetto alla realtà, secondo la quale i suoi predecessori avrebbero semplicemente «inteso “facilitare la comunione ecclesiale a quei cattolici che si sentono vincolati ad alcune precedenti forme liturgiche” e non ad altri». La citazione interna è tratta dal Motu Proprio Ecclesia Dei del 1988 e ad essa Francesco ha ritenuto di dover aggiungere quel «e non ad altri», che va nella direzione diametralmente opposta rispetto all’altro Motu Proprio, il Summorum Pontificum, che proprio anche a questi “altri” aveva voluto estendere la possibilità di godere delle ricchezze di quella forma liturgica.
Evidentemente contaminato da quelle ideologie che hanno fatto della contraddizione il motore della storia, Francesco ama muoversi di contraddizione in contraddizione, come quando, nella lettera che accompagna Traditionis Custodes, riesce incredibilmente a sostenere di essere confortato nella propria decisione di distruggere il Summorum Pontificum dal fatto che, «dopo il Concilio di Trento, anche san Pio V abrogò tutti i riti che non potessero vantare una comprovata antichità, stabilendo per tutta la Chiesa latina un unico Missale Romanum». Se Francesco avesse seguito i criteri del Santo predecessore, avrebbe dovuto coerentemente abrogare i nuovi libri liturgici, i quali non possono dimostrare che mezzo secolo di vita.
Nella sostanza, il nuovo Motu Proprio è una dichiarazione di guerra a quanti frequentano la Messa antica. Oltre al già richiamato art. 1, secondo il quale «i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II [...] sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano», la direzione è quella del ritorno a un regime d’indulto, nel quale sacerdoti e fedeli devono praticamente essere controllati e sopportati. L’esclusiva competenza torna infatti nelle mani dei Vescovi, i quali potranno eventualmente sopprimere i centri dove si celebra in rito antico, ma non potranno invece erigerne di nuovi. Infatti, nell’art. 3 § 6 si precisa che il Vescovo «avrà cura di non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi». I gruppi già esistenti, invece, saranno passati al vaglio per accertarsi che «non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici». Potrebbe essere interessante – così, per par condicio – che i fedeli che frequentano la nuova Messa vengano interrogati sui canoni del Concilio di Trento, o su Evangelium Vitae...
Inoltre il Vescovo deve procedere «nelle parrocchie personali canonicamente erette a beneficio di questi fedeli, a una congrua verifica in ordine alla effettiva utilità per la crescita spirituale, e valuti se mantenerle o meno» (§ 5).
Il vescovo poi potrà autorizzare luoghi per la celebrazione dei gruppi “vagliati”, «non però nelle chiese parrocchiali e senza erigere nuove parrocchie personali» (§ 2). Non sia mai che contagino qualcuno.
I sacerdoti che «già celebrano secondo il Missale Romanum del 1962, richiederanno al Vescovo diocesano l’autorizzazione per continuare ad avvalersi della facoltà» (art. 4), mentre quanti verranno ordinati «dopo la pubblicazione del presente Motu proprio, che intendono celebrare con il Missale Romanum del 1962, devono inoltrare formale richiesta al Vescovo diocesano il quale prima di concedere l’autorizzazione consulterà la Sede Apostolica».
La ghigliottina scatta anche sulla testa degli Istituti ex-Ecclesia Dei, come la Fraternità Sacerdotale San Pietro, l’Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote, l’Istituto del Buon Pastore, la Fraternità San Vincenzo Ferrer ed altri. In virtù dell’art. 6, questi istituti «passano sotto la competenza della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica». Il duo Braz de Aviz- Carballo già si frega le mani...
Prima considerazione. La lettera ed il Motu Proprio rivelano ad ogni riga il disprezzo verso i fedeli legati alla liturgia antica: a loro e a nessun altro viene fatta la “prova di fedeltà” alla Chiesa; loro e nessun altro devono essere relegati lontano dalle parrocchie; a loro e a nessun altro viene impedito di allargarsi. Si tratta di una ghettizzazione a tutti gli effetti.
Seconda considerazione: la differenza tra l’atteggiamento di Benedetto XVI e quello di Francesco. Il primo ha lavorato instancabilmente, sopportando forti resistenze, perché nella Chiesa non si creasse una rottura interna con ciò che era sacro per le generazioni antiche. Il secondo taglia qualsiasi ponte con quella eredità, che utilizza a suo piacimento, violentandola, solo per dare ragione a se stesso. Il primo ha cercato di far sentire a casa propria, nella Chiesa, tutti quei fedeli che hanno vissuto lo choc delle riforme, autorizzate o meno, degli anni Settanta, apprezzando la loro fedeltà e serietà e coinvolgendoli in un servizio alla Chiesa. Il secondo li rifila in un ghetto, tollerandoli a mala pena, facendogli l’interrogatorio e impedendo loro di crescere e moltiplicarsi.
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