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by Aldo Maria Valli
di Aldo Maria Valli
Non fui testimone dell’attentato a Giovanni Paolo II. Avevo ventitré anni (sono coetaneo dell’attentatore Alì Agca). Ero iscritto a Scienze politiche alla Cattolica di Milano e lavoravo come redattore a Studi cattolici, la rivista delle Edizioni Ares, sotto la direzione di Cesare Cavalleri. Non ero ancora diventato giornalista professionista (lo sarei diventato cinque anni dopo, all’Avvenire), ma, lavorando in una rivista e in una casa editrice cattolica, mi occupavo già di Giovanni Paolo II.
Più tardi, diventato vaticanista per la Rai, sono stato testimone diretto di alcuni avvenimenti legati all’attentato e alle profezie di Fatima.
Il 13 maggio del 2000, in occasione del viaggio di Giovanni Paolo II, ero a Fatima quando il cardinale Angelo Sodano, allora segretario di Stato, fece il celebre annuncio e disse: «Per consentire ai fedeli di meglio recepire il messaggio della Vergine di Fatima, il Papa ha affidato alla Congregazione per la Dottrina della Fede il compito di rendere pubblica la terza parte del segreto, dopo averne preparato un opportuno commento».
Ero presente il 26 giugno del 2000, quando, in una affollatissima sala stampa della Santa Sede, il cardinale Ratzinger e monsignor Bertone, all’epoca rispettivamente prefetto e segretario della Congregazione per la dottrina della fede, diffusero i contenuti del commento teologico al terzo segreto.
Ero presente nel maggio del 2002 in Bulgaria, quando Giovanni Paolo, a Sofia, facendo riferimento all’attentato, disse: «In nessuna circostanza ho cessato di amare il popolo bulgaro», frase che fu interpretata come un modo per dire che il papa non credeva alla cosiddetta «pista bulgara».
Ero presente sul volo papale l’11 maggio 2010 quando, in occasione della sua visita in Portogallo per il decimo anniversario della beatificazione dei pastorelli Giacinta e Francesco, Benedetto XVI parlò con noi giornalisti del segreto di Fatima ed espresse una valutazione molto importante. Riguardo alla visione del «vescovo vestito di bianco», nel quale Giovanni Paolo II si identificò, papa Ratzinger disse infatti: «Oltre questa grande visione della sofferenza del Papa, che possiamo in prima istanza riferire a Papa Giovanni Paolo II, sono indicate realtà del futuro della Chiesa che man mano si sviluppano e si mostrano. Perciò è vero che oltre il momento indicato nella visione, si parla, si vede la necessità di una passione della Chiesa, che naturalmente si riflette nella persona del Papa, ma il Papa sta per la Chiesa e quindi sono sofferenze della Chiesa che si annunciano. […] Quanto alle novità che possiamo oggi scoprire in questo messaggio, vi è anche il fatto che non solo da fuori vengono attacchi al Papa e alla Chiesa, ma le sofferenze della Chiesa vengono proprio dall’interno della Chiesa, dal peccato che esiste nella Chiesa. Anche questo si è sempre saputo, ma oggi lo vediamo in modo realmente terrificante: che la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa».
E naturalmente ero presente il successivo 13 maggio 2010 quando, nell’omelia della Messa celebrata a Fatima, davanti a mezzo milione di persone radunate nella spianata del santuario, Benedetto XVI disse: «Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa”.
Ma se la missione profetica non è conclusa e «riguarda il futuro della Chiesa», viene naturale chiedersi: a quale epoca si riferisce veramente? Forse alla nostra? E il fatto che Benedetto XVI abbia parlato di una persecuzione che viene da dentro la Chiesa non legittima forse questa interpretazione?
Invece non ero più vaticanista Rai quando, il 15 marzo 2020, papa Francesco, con andatura claudicante, camminò da solo, a Roma, lungo una via del Corso deserta a causa del lockdown, per andare a pregare ai piedi del Crocifisso nella chiesa di San Marcello, e quell’immagine fece tornare in mente a molti il terzo segreto, là dove si legge che «il Santo Padre… attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino».
Molti si chiedono: c’è un quarto segreto che non è mai stato rivelato? C’è un allegato misterioso?
Una pubblicazione ufficiale del Carmelo di Coimbra, dove visse e morì (nel 2005) suor Lucia dos Santos, l’ultima veggente (il titolo dell’opera è Um caminho sob o olhar de Maria) dice qualcosa. Nel libro, che è una biografia di suor Lucia scritta dalle consorelle sulla base delle lettere e del diario della religiosa, suor Lucia racconta ciò che le accadde nel pomeriggio del 3 gennaio 1944, quando, in preghiera davanti al tabernacolo, chiese a Gesù di farle conoscere la sua volontà circa l’uso del terzo segreto: diffonderlo o no? E come, e quando?
Scrive suor Lucia: «Sento allora che una mano amica, affettuosa e materna mi tocca la spalla». È «la Madre del Cielo» che le dice: «Stai in pace e scrivi quello che ti comandano, non però quello che ti è stato dato di comprendere del suo significato». Subito dopo, aggiunge suor Lucia, «ho sentito lo spirito inondato da un mistero di luce che è Dio e in Lui ho visto e udito: la punta della lancia come fiamma che si stacca, tocca l’asse della terra ed essa trema: montagne, città, paesi e villaggi con i loro abitanti sono sepolti. Il mare, i fiumi e le nubi escono dai limiti, traboccano, inondano e trascinano con sé in un turbine case e persone in un numero che non si può contare, è la purificazione del mondo dal peccato nel quale sta immerso. L’odio, l’ambizione, provocano la guerra distruttrice. Dopo ho sentito nel palpitare accelerato del cuore e nel mio spirito una voce leggera che diceva: “Nel tempo, una sola fede, un solo battesimo, una sola Chiesa, santa, cattolica, apostolica. Nell’eternità il Cielo!”. Questa parola, “Cielo”, riempì il mio cuore di pace e felicità, in tal modo che, quasi senza rendermi conto, continuai a ripetermi per molto tempo: il Cielo, il Cielo!».
Fu così che suor Lucia trovò la forza di scrivere il contenuto del terzo segreto. Ma queste parole fanno nascere una domanda: accanto al testo del terzo segreto c’è effettivamente un’altra parte, che riguarda il significato della visione? E sarebbe questo l’allegato al quale accennò il segretario di Giovanni XXIII, monsignor Loris Capovilla? Sarebbe questo il testo che non è stato ancora diffuso e che probabilmente spaventò suor Lucia?
Al di là della questione dell’eventuale quarto segreto, ricordare oggi, quarant’anni dopo, l’attentato a Giovanni Paolo II ci permette di tornare sul modo in cui papa Wojtyła visse la sua sofferenza: come espiazione, come partecipazione al dolore di Gesù per le sue piaghe e come vera e propria cifra sia del pontificato sia di tutta la sua vita. Una visione mistica in base alla quale l’errore del killer professionista Alì Agca, ovvero non aver ucciso il papa pur avendo sparato da meno di quattro metri di distanza, fu opera della Madonna (“una mano sparò, un’altra guidò il proiettile”) e consentì al successore di Pietro di portare a termine la sua missione, ovvero traghettare la Chiesa nel terzo millennio, come gli aveva profetizzato il grande e amato cardinale Wyszynski, primate della Polonia, «Se il Signore ti ha chiamato, tu devi introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio».
Fu lo stesso Giovanni Paolo II a spiegare il suo punto di vista in un fondamentale Angelus (29 maggio 1994) subito dopo l’ennesimo ricovero in ospedale (dal 29 aprile al 27 maggio 1994, per la frattura del femore della gamba destra): «Così mi disse il Cardinale Wyszynski. E ho capito che devo introdurre la Chiesa di Cristo in questo terzo millennio con la preghiera, con diverse iniziative, ma ho visto che non basta: bisognava introdurla con la sofferenza, con l’attentato di tredici anni fa e con questo nuovo sacrificio. Perché adesso, perché in questo anno, perché in questo Anno della Famiglia? Appunto perché la famiglia è minacciata, la famiglia è aggredita. Deve essere aggredito il Papa, deve soffrire il Papa, perché ogni famiglia e il mondo vedano che c’è un Vangelo, direi, superiore: il Vangelo della sofferenza, con cui si deve preparare il futuro, il terzo millennio delle famiglie, di ogni famiglia e di tutte le famiglie».
«Deve soffrire il Papa». Queste parole mi tornano spesso alla mente. L’uomo di fede non è certamente un masochista, tuttavia sa bene che l’adesione a Gesù comprende necessariamente la dimensione della sofferenza, perché, come dice san Paolo, il cristiano è chiamato a completare nella sua carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, e perché il cristiano è nel mondo senza essere del mondo, e dunque, essendo lo scontro con il mondo inevitabile, altrettanto inevitabile è la sofferenza.
Trovo significativo che il papa del celebre «Non abbiate paura!» sia anche il papa della Salvifici doloris, la lettera apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana, nella quale possiamo leggere: «Attraverso i secoli e le generazioni è stato costatato che nella sofferenza si nasconde una particolare forza che avvicina interiormente l’uomo a Cristo, una particolare grazia. Ad essa debbono la loro profonda conversione molti Santi, come ad esempio san Francesco d’Assisi, sant’Ignazio di Loyola, ecc. Frutto di una tale conversione non è solo il fatto che l’uomo scopre il senso salvifico della sofferenza, ma soprattutto che nella sofferenza diventa un uomo completamente nuovo. Egli trova quasi una nuova misura di tutta la propria vita e della propria vocazione. Questa scoperta è una particolare conferma della grandezza spirituale che nell’uomo supera il corpo in modo del tutto incomparabile. Allorché questo corpo è profondamente malato, totalmente inabile e l’uomo è quasi incapace di vivere e di agire, tanto più si mettono in evidenza l’interiore maturità e grandezza spirituale, costituendo una commovente lezione per gli uomini sani e normali».
L’intera Salvifici doloris andrebbe riletta. Specie in un’epoca come la nostra, nella quale anche i cristiani sembrano incapaci di dare un senso alla sofferenza e la Chiesa in proposito si dimostra afona, appiattita su un’idea di salute tutta profana.
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Foto La Presse
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