Karl Rahner SJ (1904-1974)
Nel pensiero di Rahner, il tema del peccato e dell’inferno sono così trasportati dal terreno metafisico a quello esistenziale. Nell’esistenza, a cui l’uomo si riduce come essere essenzialmente storico, è impossibile giungere a conclusioni definitive e certe sulla responsabilità personale.
di Stefano Fontana (22-04-2018)
Le polemiche sorte dopo le fantasiose (secondo l’ufficio stampa della Santa Sede) rivelazioni di Eugenio Scalfari del suo colloquio con Papa Francesco, hanno riportato l’attenzione di molti sull’inferno. Sappiamo bene che la Scrittura ne parla e il Catechismo non lascia dubbi in merito. Però i dubbi continuano ad emergere qua e là e non solo quelli suggeriti da Scalfari ma anche quelli sostenuti dai teologi. A cominciare anche da Karl Rahner, forse il massimo teologo cattolico contemporaneo, almeno per l’influenza esercitata in vita e, ora, tramite i numerosissimi suoi
Rahner dedica alla colpa e quindi anche all’inferno, il terzo capitolo della sua opera sistematica principale Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, edito per la prima volta a Friburgo in Brisgovia nel 1976, quando l’autore aveva già 72 anni. Qui egli dice che il no a Dio, in cui consiste propriamente il peccato mortale che prelude alla realtà dell’inferno, non si può spiegare, si deve lasciare sussistere come mistero. La dottrina della Chiesa, secondo lui, non dice in quale caso il no a Dio è diventato realtà, «neanche dice se in pochi o in molti». Non è possibile sapere quando siamo in peccato mortale e, quindi, l’inferno potrebbe essere affollato oppure no, e potrebbe essere anche vuoto. L’Inferno è una illustrazione plastica – una specie di “mito” – della perdizione e «non sappiamo mai con un’ultima sicurezza se siamo realmente peccatori». Sappiamo che possiamo esserlo, che quella del peccato è una minaccia permanente, ma non abbiamo mai conoscenza definitiva di esso e, quindi, tantomeno della reale portata dell’inferno. Peccato e inferno sono una possibilità e non una realtà.
Nel pensiero di Rahner, il tema del peccato e dell’inferno sono così trasportati dal terreno metafisico a quello esistenziale. Nell’esistenza, a cui l’uomo si riduce come essere essenzialmente storico, è impossibile giungere a conclusioni definitive e certe sulla responsabilità personale. Le scienze umane – compresa la psicanalisi – smontano il male e lo riconducono a cause molteplici, contraddittorie, inspiegabili o addirittura assurde. Esse indagano i sottofondi della volontà e della responsabilità umane e smontano l’idea di un “io” fino in fondo padrone di se stesso. Sicché l’uomo «non possiede mai una sicurezza assoluta circa la qualità oggettivale e quindi morale delle sue azioni». Non può possederla perché in esse c’è il contenuto materiale dell’azione ma la motivazione di coscienza è indefinibile e irraggiungibile, così frantumata nella complessità esistenziale dell’io. Né ci possono essere, in questa prospettiva, azioni che “gridano vendetta al cospetto di Dio”, che per il contenuto materiale intrinsecamente malvagio e non ordinabile a Dio non sono mai da fare (gli intrinsece mala di cui parla la Veritatis splendor). Nella realtà esistenziale dell’uomo l’azione in sé e l’azione per noi non sono mai separabili. Lo sarebbero se l’uomo fosse al di sopra della sua esistenza e la potesse valutare dall’alto e dal di fuori, ma egli ne è coinvolto. Ciò vale per tutti gli aspetti della fede: anche il Cristo in sé e il Cristo per me sono inseparabili. Per questo tutto è (anche) interpretazione.
I confini tra il peccato e la virtù sono così labili e fumosi. Le cose si confondono, e può capitare che sotto il crimine non ci sia nulla, in quanto fenomeno di una situazione pre-personale subita, non voluta, frutto di contingenze storiche o di debolezze, «mentre dietro la facciata di una rispettabilità borghese può nascondersi un no a Dio».
La concezione del peccato si fa allora fluida e indefinibile perché viene abbandonata la visione metafisica della persona, della coscienza che emerge comunque sempre dai condizionamenti esistenziali, dell’anima e del suo rapporto ontologico con la legge morale naturale e con la grazia di Dio.
Lo stesso passaggio si nota nella visione rahneriana del peccato originale. Questo esprime, secondo lui, la situazione esistenziale dell’uomo il quale si trova sempre dentro situazioni co-plasmate da altri, anche con azioni cattive. Il male ci precede e quando noi operiamo non lo facciamo mai da soli e in modo isolato, ma ci misuriamo con una realtà co-plasmata dagli altri nel male. Quando acquistiamo una semplice banana (come esemplificato dallo stesso Rahner nell’opera sopra ricordata) ci rapportiamo ad una realtà di colpa che ha co-plasmato quella banana. Questa è la realtà esistenziale del peccato originale che poi il racconto biblico ha espresso immaginificamente nel racconto dell’albero, del serpente, della mela e della donna. Non c’è solo il male che compio io, c’è anche una oggettivazione del male frutto della colpa altrui e di tutti. Ciò inquina irrimediabilmente ogni singola decisione ed azione dell’uomo: «Il peccato originale in senso cristiano non significa che l’originaria azione personale della libertà del primo o dei primi uomini trapassi su di noi come una nostra colpa morale». Il peccato originale rappresenta in questo suo modo la situazione esistenziale dell’uomo e il linguaggio della Genesi va visto come «retroconclusione eziologica dell’esperienza esistenziale», vale a dire che prima l’uomo ha fatto l’esperienza esistenziale della co-plasmazione nel male di tutto ciò che egli fa e poi ha indicato plasticamente la causa di ciò nel racconto dell’Eden.
Sono evidenti gli echi di questa concezione in tanti aspetti della predicazione della Chiesa oggi.
(fonte: lanuovabq.it)
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