Ancora una volta, a proposito della questione morale relativa alla vicenda del piccolo Alfie Evans, i vescovi hanno saputo dire solo due cose: che la sfida è complessa e che bisogna uscirne trovando un consenso tra tutti gli interessati. Ci si chiede: per ricordarci due cose così vuote sono proprio necessari dei pastori?
Stefano Fontana 25-04-18
Ancora una volta, a proposito della questione morale relativa alla vicenda del piccolo Alfie Evans, i pastori della Chiesa cattolica, ossia i vescovi, hanno saputo dire solo due cose: che la sfida è complessa e che bisogna uscirne trovando un consenso tra tutti gli interessati. Ci si chiede: per ricordarci due cose così vuote sono proprio necessari dei pastori? Per così poco siamo troppo perfino noi poveri fedeli laici.
E poi ancora: ad affermazioni di questo tipo, così evanescenti, che tipo di obbedienza, o di ossequio, o di semplice ascolto dobbiamo? A cosa servono le innumerevoli cattedre di teologia morale delle istituzioni accademiche cattoliche, pontificie e non, se poi l’indicazione davanti alla vita o alla morte, davanti allo Stato-padrone che procede come un Dio, un Uomo, un Animale, una Macchina e decreta chi è degno di vivere o no, si riduce a dire che la realtà è complessa e che bisogna procedere concordi?
Da tempo nella Chiesa si nota una grande attenzione pastorale per come si agisce piuttosto che per i contenuti dell’agire stesso. È così che diventa assolutamente prioritario agire concordi e condividere. Fare una certa cosa “insieme” diventa più importante di stabilire se quella cosa è buona o meno buona. È uno dei tanti modi in cui oggi si preferisce la pastorale alla dottrina.
Mi viene in mente una famosa frase di don Lorenzo Milani: «Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l'avarizia». È una frase che non ho mai capito. Sortirne insieme è proprio anche di una banda di briganti, se eliminiamo il contenuto di quel sortirne insieme. Sortirne insieme non basta a rendere buona una azione. L’azione è buona o non è buona in sé, indipendentemente da quanti raggiungono un accordo su di essa. Non è mai il consenso a stabilire la bontà e la verità delle cose e farle insieme dice solo che si sono fatte insieme, niente altro.
A proposito di Alfie Evans, mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha dichiarato: «Date le soluzioni comunque problematiche che si prospettano nell’evoluzione delle circostanze, riteniamo importante che si lavori per procedere in modo il più possibile condiviso. Solo nella ricerca di un’intesa tra tutti, un’alleanza d’amore tra genitori, famigliari e operatori sanitari, sarà possibile individuare la soluzione migliore per aiutare il piccolo Alfie in questo momento così drammatico della sua vita».
Una convergenza d’amore è senz’altro auspicabile. Ma l’amore è guidato o meno dalla verità. Per qualcuno anche uccidere il piccolo Alfie potrebbe essere riconducibile ad un atto d’amore. Anche il giudice che ha emesso la sentenza potrebbe essere stato spinto da un atto d’amore, evitando ad Alfie di proseguire una vita che secondo lui era senza senso.
Procedere in modo il più possibile condiviso è pure una cosa apprezzabile, ma per fare cosa? Ammettiamo per assurdo che tutti e tre i soggetti in causa – genitori, giudici, sanitari – fossero concordi nel far morire il piccolo Alfie: quel consenso sarebbe apprezzabile? O sarebbe meglio che qualcuno avesse dissentito, rompendo una colpevole armonia di vedute? “Sortirne da soli” talvolta è meglio che “sortirne insieme”, non sono gli accordi a fare la verità, ma il contrario.
Lo stesso concetto lo abbiamo più o meno ritrovato nella dichiarazione resa pubblica dai vescovi inglesi, perfino con una notevole aggravante: «Noi affermiamo la nostra convinzione che tutti coloro che stanno prendendo decisioni angosciose riguardanti la cura di Alfie Evans agiscono con integrità e per il bene di Alfie, secondo come lo vedono».
Qui addirittura il concordismo è svincolato da una minima ricerca della verità e del bene, perché il bene di Alfie può essere visto da più punti di vista. Quindi non solo l’essere concordi viene proposto come un bene, indipendentemente dai contenuti ma solo per il fatto di concordare, ma si sostiene anche che si agisce concordi anche quando si opera in base a diverse concezioni del bene. Chiamiamolo un concordismo nella discordanza. Perché mai un fedele inglese dovrebbe ascoltar5e i suoi vescovi? E se i vescovi non si meritano l’ascolto dei fedeli a cosa servono?
Il concordismo, con questa sua smania appiccicosa per il condividere e per il consenso, elimina ogni residuo riferimento all’oggettività del bene. I pastori ricorrono al concordismo come unica indicazione da dare nella complessità delle situazioni. Come se la luce del Verbo incarnato ci avesse lasciato sperduti e ciechi dentro situazioni indecifrabili anziché farci vedere la verità, che nel caso di Alfie Evans era addirittura lampante, altro che complessità.
Al concordismo e alla condivisione bisogna ormai fare obiezione di coscienza, rifiutarsi di “sortirne insieme” e avere il coraggio in certi casi di “sortirne da soli”.
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