La fede cristiana è ricca di paradossi (indizio, questo, del fatto che non è frutto di elaborazione umana, ma di una rivelazione divina: non si inventa una dottrina paradossale). Uno dei più alti è proprio quello riguardante il rapporto tra la grazia di Dio e la libertà dell’uomo: come ci ricorda sant’Antonio, uno dei maggiori predicatori cattolici di tutti i tempi, da un lato la grazia – come dice il termine stesso – ci è concessa gratuitamente, dall’altro la salvezza va conquistata con l’impegno personale di penitenza e di lotta contro il peccato. Il delicato equilibrio tra queste due forze, che caratterizza il mistero del loro rapporto, è stato più volte infranto per uno sbilanciamento in un senso o nell’altro, cosa che ha dato origine a diverse eresie. Le più famose sono quella pelagiana, quella luterana e quella giansenista, che hanno causato alla Chiesa danni molto gravi e duraturi.
La prima va ricondotta alla dottrina del monaco irlandese Pelagio, che la diffuse a Roma all’inizio del V secolo. Lo spiccato ottimismo della sua visione antropologica e la propensione all’ascesi legata alla sua vocazione lo avevano convinto che l’uomo fosse in grado di scegliere il bene da sé e che la grazia non costituisse altro che un aiuto divino all’azione umana. Sant’Agostino, invece, sapeva bene, sia per esperienza personale, sia per la lettura di san Paolo, quanto fossero pesanti le catene del peccato e profondi i suoi effetti sul libero arbitrio del peccatore, che ha bisogno di essere prevenuto dalla grazia anche solo per orientarsi nuovamente verso Dio confidando nella Sua misericordia. Da un’interpretazione distorta dei suoi scritti e delle lettere paoline, più di un millennio dopo, Lutero concluderà erroneamente che la grazia, intesa nominalisticamente come mero favore divino che non imputa più all’uomo i suoi peccati, è l’unica forza in gioco, che esclude necessariamente qualsiasi concorso umano nel processo della giustificazione.
L’efficacia della sola gratia richiedeva così, per essere fruita, un’accoglienza puramente passiva tramite la sola fides, con l’esclusione totale di qualunque opera da parte dell’uomo e con una concentrazione unilaterale sull’azione del solus Christus. Il libero arbitrio, di conseguenza, doveva essere negato e ogni forma di collaborazione umana respinta come orgogliosa quanto impossibile pretesa. È un tipico esempio di petitio principii: dopo aver stabilito arbitrariamente un principio, si nega tutto ciò che lo contraddice; ma non è affatto sicuro che quel principio sia vero e che lo si debba necessariamente accettare. Lungo questa strada, ad ogni modo, Lutero finisce in una stridente contraddizione: poiché la fede non è per lui una virtù infusa, cioè un dono soprannaturale a cui l’uomo liberamente acconsente, ma un mero autoconvincimento volontaristico in virtù del quale l’uomo si sforza di credere, il dubbio radicale e permanente che inevitabilmente scaturisce da questa concezione spinge il protestante a cercare una conferma della propria fede nelle opere.
Le opere diventano così il criterio decisivo per valutare la fede; ma quelle opere non possono essere frutto della grazia soprannaturale che agisce nell’uomo con la sua collaborazione: la possibilità stessa di tale cooperazione è stata recisamente esclusa e la grazia è concepita come semplice favore esterno, anziché come forza comunicata da Dio che influisce sull’uomo dall’interno. Dato che alla grazia è stato tolto ogni supporto su cui innestarsi ed essa non può inserirsi nel dinamismo dell’agire umano, le azioni della creatura sono risultato unicamente delle sue forze naturali, ma sono sempre azioni di un peccatore che non è stato interiormente trasformato dalla grazia. Eppure egli può reclamare la salvezza in forza dei suoi sforzi di credere e di essere buono, come dimostra il testo di un corale luterano: «Signore Dio, ora apri il Paradiso. Il mio tempo volge alla fine, ho completato il mio cammino, di cui l’anima mia molto si rallegra: ho sofferto abbastanza, ho combattuto fino alla fine, concedimi il riposo eterno. […] Signore, come mi hai comandato, con vera fede ho accolto tra le mie braccia il caro Redentore, per guardare Te».
Nella tradizione cattolica anche i Santi, appressandosi alla morte, hanno percepito la tremenda drammaticità del momento in cui ci si sta per presentare al Giudizio. Qui, invece, il fedele rivendica un dovuto confidando non nella misericordia divina, ma nella propria fede. Se questa non è una salvezza mediante le opere… A un esito analogo, anche se per una via opposta, perviene pure il giansenismo: la visione esageratamente negativa della condizione umana, nata, anche in questo caso, da un agostinismo esasperato, conduce all’idea di una salvezza riservata a quegli eletti che sono in grado di soddisfare le severe esigenze della giustizia divina con una vita di estrema austerità e rigore. Ancora una volta, la grazia non è più che una realtà nominale, un puro concetto che non ha un effettivo influsso sull’esistenza, determinata dall’azione umana.
Queste considerazioni non sembrerebbero così peregrine se, oggi, questi errori non fossero tornati ad essere potentemente attuali. Da una parte, infatti, si brandisce l’accusa di pelagianesimo come una clava per colpire chi desidera mantenersi fedele alla dottrina morale cattolica; dall’altra si esalta Lutero come medicina per la Chiesa, come se i mali che la affliggono non fossero dovuti proprio alla sua protestantizzazione. Dal canto loro certi settori del tradizionalismo, per reagire allo sfacelo morale che ne è provenuto, insistono su forme di rigorismo che possono indurre pericolose sindromi di scissione tra vita pubblica e privata. L’effetto che risulta dalle opposte tendenze è che le persone non sono realmente trasformate dalla carità, perché non vivono secondo la grazia che è stata loro data e la ricevono quindi inutilmente: in un caso, perché la attribuiscono sottilmente ai propri meriti; nell’altro, perché non vogliono correggersi ed espiare le proprie colpe.
Anche l’atto con cui l’uomo acconsente alla grazia e coopera con essa è reso possibile dalla grazia stessa, ma è pur sempre un atto suo, compiuto in modo libero. È una dinamica sponsale in cui l’intervento soprannaturale di Dio eleva la natura umana a un’attività di cui è incapace da sola, ma non lo fa senza il suo consenso e il suo concorso. La maternità è un’ottima chiave interpretativa di questo processo: senza la paternità, essa rimane una mera potenzialità che non può passare all’atto, ma al tempo stesso apporta un contributo specifico senza il quale la generazione non si compie. Il rapporto tra natura e grazia, che ha dato luogo a tante dispute ed eresie, va colto mediante questa cifra costante che la Sapienza divina ha impresso alla Sua opera, a livello naturale e a livello soprannaturale: il Suo modo di agire è analogo, sia pure su piani ontologicamente diversi. Ecco perché la salvezza è un dono, ma anche una conquista.
Se non vogliamo condannarci a ricevere la grazia invano (cf. 2 Cor 6, 1), dobbiamo ammettere la somma gratuità della sovrana misericordia di Dio, che non si può mai esigere, ma anche riconoscere la parte che ci spetta nel disporci ad essa, nell’accoglierla e nel farla fruttificare con la nostra attiva cooperazione: è qui che entrano in gioco la penitenza, l’ascesi e l’osservanza dei Comandamenti, le quali dipendono sia dalla grazia che dalla nostra libera volontà. È naturale che, nell’anima del peccatore in via di conversione, sia preponderante l’azione della prima; ma in quella del fedele riconciliato anche la seconda svolge un ruolo considerevole, che cresce in proporzione con lo sviluppo della vita battesimale. Più ci impegniamo con umile perseveranza, più la grazia impregna i nostri dinamismi umani, risanandoli ed elevandoli, e porta frutto nelle nostre azioni, santificandole. Che il Signore risorto ci dia nuovo slancio in questa corsa verso la santità; per la Chiesa sfigurata dall’eresia e dal tradimento, questa è l’unica vera medicina.
Tua nos misericordia, Deus, et ab omni subreptione vetustatis expurget, et capaces sanctae novitatis efficiat (dalla liturgia della Settimana Santa: La tua misericordia, o Dio, ci purifichi da ogni infiltrazione dell’antico peccato e ci renda capaci di santa novità).
La prima va ricondotta alla dottrina del monaco irlandese Pelagio, che la diffuse a Roma all’inizio del V secolo. Lo spiccato ottimismo della sua visione antropologica e la propensione all’ascesi legata alla sua vocazione lo avevano convinto che l’uomo fosse in grado di scegliere il bene da sé e che la grazia non costituisse altro che un aiuto divino all’azione umana. Sant’Agostino, invece, sapeva bene, sia per esperienza personale, sia per la lettura di san Paolo, quanto fossero pesanti le catene del peccato e profondi i suoi effetti sul libero arbitrio del peccatore, che ha bisogno di essere prevenuto dalla grazia anche solo per orientarsi nuovamente verso Dio confidando nella Sua misericordia. Da un’interpretazione distorta dei suoi scritti e delle lettere paoline, più di un millennio dopo, Lutero concluderà erroneamente che la grazia, intesa nominalisticamente come mero favore divino che non imputa più all’uomo i suoi peccati, è l’unica forza in gioco, che esclude necessariamente qualsiasi concorso umano nel processo della giustificazione.
L’efficacia della sola gratia richiedeva così, per essere fruita, un’accoglienza puramente passiva tramite la sola fides, con l’esclusione totale di qualunque opera da parte dell’uomo e con una concentrazione unilaterale sull’azione del solus Christus. Il libero arbitrio, di conseguenza, doveva essere negato e ogni forma di collaborazione umana respinta come orgogliosa quanto impossibile pretesa. È un tipico esempio di petitio principii: dopo aver stabilito arbitrariamente un principio, si nega tutto ciò che lo contraddice; ma non è affatto sicuro che quel principio sia vero e che lo si debba necessariamente accettare. Lungo questa strada, ad ogni modo, Lutero finisce in una stridente contraddizione: poiché la fede non è per lui una virtù infusa, cioè un dono soprannaturale a cui l’uomo liberamente acconsente, ma un mero autoconvincimento volontaristico in virtù del quale l’uomo si sforza di credere, il dubbio radicale e permanente che inevitabilmente scaturisce da questa concezione spinge il protestante a cercare una conferma della propria fede nelle opere.
Le opere diventano così il criterio decisivo per valutare la fede; ma quelle opere non possono essere frutto della grazia soprannaturale che agisce nell’uomo con la sua collaborazione: la possibilità stessa di tale cooperazione è stata recisamente esclusa e la grazia è concepita come semplice favore esterno, anziché come forza comunicata da Dio che influisce sull’uomo dall’interno. Dato che alla grazia è stato tolto ogni supporto su cui innestarsi ed essa non può inserirsi nel dinamismo dell’agire umano, le azioni della creatura sono risultato unicamente delle sue forze naturali, ma sono sempre azioni di un peccatore che non è stato interiormente trasformato dalla grazia. Eppure egli può reclamare la salvezza in forza dei suoi sforzi di credere e di essere buono, come dimostra il testo di un corale luterano: «Signore Dio, ora apri il Paradiso. Il mio tempo volge alla fine, ho completato il mio cammino, di cui l’anima mia molto si rallegra: ho sofferto abbastanza, ho combattuto fino alla fine, concedimi il riposo eterno. […] Signore, come mi hai comandato, con vera fede ho accolto tra le mie braccia il caro Redentore, per guardare Te».
Nella tradizione cattolica anche i Santi, appressandosi alla morte, hanno percepito la tremenda drammaticità del momento in cui ci si sta per presentare al Giudizio. Qui, invece, il fedele rivendica un dovuto confidando non nella misericordia divina, ma nella propria fede. Se questa non è una salvezza mediante le opere… A un esito analogo, anche se per una via opposta, perviene pure il giansenismo: la visione esageratamente negativa della condizione umana, nata, anche in questo caso, da un agostinismo esasperato, conduce all’idea di una salvezza riservata a quegli eletti che sono in grado di soddisfare le severe esigenze della giustizia divina con una vita di estrema austerità e rigore. Ancora una volta, la grazia non è più che una realtà nominale, un puro concetto che non ha un effettivo influsso sull’esistenza, determinata dall’azione umana.
Queste considerazioni non sembrerebbero così peregrine se, oggi, questi errori non fossero tornati ad essere potentemente attuali. Da una parte, infatti, si brandisce l’accusa di pelagianesimo come una clava per colpire chi desidera mantenersi fedele alla dottrina morale cattolica; dall’altra si esalta Lutero come medicina per la Chiesa, come se i mali che la affliggono non fossero dovuti proprio alla sua protestantizzazione. Dal canto loro certi settori del tradizionalismo, per reagire allo sfacelo morale che ne è provenuto, insistono su forme di rigorismo che possono indurre pericolose sindromi di scissione tra vita pubblica e privata. L’effetto che risulta dalle opposte tendenze è che le persone non sono realmente trasformate dalla carità, perché non vivono secondo la grazia che è stata loro data e la ricevono quindi inutilmente: in un caso, perché la attribuiscono sottilmente ai propri meriti; nell’altro, perché non vogliono correggersi ed espiare le proprie colpe.
Anche l’atto con cui l’uomo acconsente alla grazia e coopera con essa è reso possibile dalla grazia stessa, ma è pur sempre un atto suo, compiuto in modo libero. È una dinamica sponsale in cui l’intervento soprannaturale di Dio eleva la natura umana a un’attività di cui è incapace da sola, ma non lo fa senza il suo consenso e il suo concorso. La maternità è un’ottima chiave interpretativa di questo processo: senza la paternità, essa rimane una mera potenzialità che non può passare all’atto, ma al tempo stesso apporta un contributo specifico senza il quale la generazione non si compie. Il rapporto tra natura e grazia, che ha dato luogo a tante dispute ed eresie, va colto mediante questa cifra costante che la Sapienza divina ha impresso alla Sua opera, a livello naturale e a livello soprannaturale: il Suo modo di agire è analogo, sia pure su piani ontologicamente diversi. Ecco perché la salvezza è un dono, ma anche una conquista.
Se non vogliamo condannarci a ricevere la grazia invano (cf. 2 Cor 6, 1), dobbiamo ammettere la somma gratuità della sovrana misericordia di Dio, che non si può mai esigere, ma anche riconoscere la parte che ci spetta nel disporci ad essa, nell’accoglierla e nel farla fruttificare con la nostra attiva cooperazione: è qui che entrano in gioco la penitenza, l’ascesi e l’osservanza dei Comandamenti, le quali dipendono sia dalla grazia che dalla nostra libera volontà. È naturale che, nell’anima del peccatore in via di conversione, sia preponderante l’azione della prima; ma in quella del fedele riconciliato anche la seconda svolge un ruolo considerevole, che cresce in proporzione con lo sviluppo della vita battesimale. Più ci impegniamo con umile perseveranza, più la grazia impregna i nostri dinamismi umani, risanandoli ed elevandoli, e porta frutto nelle nostre azioni, santificandole. Che il Signore risorto ci dia nuovo slancio in questa corsa verso la santità; per la Chiesa sfigurata dall’eresia e dal tradimento, questa è l’unica vera medicina.
Tua nos misericordia, Deus, et ab omni subreptione vetustatis expurget, et capaces sanctae novitatis efficiat (dalla liturgia della Settimana Santa: La tua misericordia, o Dio, ci purifichi da ogni infiltrazione dell’antico peccato e ci renda capaci di santa novità).
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