mercoledì 28 febbraio 2018

Cardinal Sarah: "Denuncio la crisi di fede di un clero che ha tradito"



Il cardinal Sarah in Belgio ha parlato della crisi della fede a partire dalle alte gerarchie ecclesiastiche e non ha esitato a denunciare il tradimento dei chierici per mancanza di fede.


di Marco Tosatti 27-02-2018

Nei giorni scorsi il cardinale Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto Divino, era in Belgio, dove alla presentazione del suo libro “Dio o niente”, ha risposto a certi tentativi di modificare la morale cattolica, in particolare per quello che riguarda il matrimonio e la famiglia, oltre che l’insegnamento sulla vita. Si può leggere in certe sue parole una risposta alle esternazioni del cardinale tedesco Reinhard Marx, del vicepresidente di quella conferenza episcopale, Franz-Josef Bode, e al cardinale di Vienna, Schoenborn?

Sembra proprio di sì. Davanti a una chiesa piena di fedeli, con in prima fila il nunzio apostolico, il cardinale De Kesel, il Borgomastro Woluwé-Saint Pierre e anche l’abate Philippe Mawet, responsabile della pastorale francofona, che aveva criticato il libro del cardinale qualche giorno prima in un articolo sul quotidiano di sinistra “Libre Belgique”, il porporato ha evocato le ideologie e i gruppi di pressione che “con mezzi finanziari e mediatici potentissimi, attaccano le finalità naturali del matrimonio e si impegnano a distruggere la cellula della famiglia”.

Ma il porporato guineano, in un delle Chiese più disastrate del Continente non ha avuto paura di aggiungere parole dure verso i suoi confratelli nell’episcopato. “Degli alti prelati, provenienti soprattutto dalle nazioni opulente, si danno da fare per apportare modifiche alla morale cristiana per ciò che riguarda il rispetto assoluto della vita dal suo concepimento fino alla sua morte naturale, la questione dei divorziati risposati e altre situazioni familiari problematiche.

Questi ‘guardiani della fede’ dovrebbero tuttavia non perdere di vista il fatto che il problema posto dalla frammentazione degli scopi del matrimonio è un problema di morale naturale”. Ma il cardinale non si è fermato lì. Ha proseguito con tranquillità: “Le grandi derive sono sorte quando alcuni prelati o intellettuali cattolici hanno cominciato a dire o a scrivere ‘semaforo verde per l’aborto’, ‘semaforo verde per l’eutanasia’. Ora, a partire dal momento in cui i cattolici abbandonano l’insegnamento di Gesù e il Magistero della Chiesa, contribuiscono alla distruzione dell’istituzione naturale del matrimonio come della famiglia ed è tutta la comunità umana che si trova incrinata da questa nuovo tradimento dei chierici”.

Nell’anno in cui si celebra il mezzo secolo di vita dell’enciclica “Humanae Vitae”, con i tentativi neanche troppo nascosti di attenuare in qualche maniera il suo insegnamento, il cardinale ha pronunciato parole molto forti: “Bisognerebbe che la Chiesa tornasse all’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI così come agli insegnamenti di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI su queste questioni vitali per l’umanità. Lo stesso papa Francesco resta nel solco dei predecessori quando sottolinea la coincidenza fra il vangelo dell’amore e il vangelo della pace. Bisogna affermare con forza e senza ambiguità il peso magisteriale di tutto questo insegnamento, mettere in rilievo la sua coerenza e proteggere questo tesoro contro i predatori di questo mondo senza Dio”.

In un’intervista concessa a Cathobel, ha messo in evidenza che la Chiesa oggi debba affrontare grandi questioni, e soprattutto “la sua fedeltà a Gesù, al suo Vangelo, all’insegnamento che ha sempre ricevuto dai primi papi, dai concili…e questo non è evidente, perché la Chiesa desidera adattarsi al suo ambiente, alla cultura moderna”.

E poi la fede: “La fede è venuta a mancare, non solo a livello di popolo di Dio, ma anche fra i responsabili della Chiesa, ci si può chiedere qualche volta se abbiamo davvero la fede”. Il card. Sarah ha ricordato l’episodio del Credo, di don Fredo Olivero, e ha concluso: “Penso che oggi ci sia una grande crisi di fede e anche una grande crisi della nostra relazione personale con Dio”.

E l’Europa? “Non solamente l’Occidente sta perdendo la sua anima, ma si sta suicidando, perché un albero senza radici è condannato a morte. Penso che l’Occidente non possa rinunciare alle sue radici, che hanno creato la sua cultura, i suoi valori”. Il porporato ha continuato così: “Ci sono cose agghiaccianti che succedono in occidente. Penso che un parlamento che autorizza la morte di un bimbo innocente, senza difesa, sia una grave violenza fatta contro la persona umana. Quando si impone l’aborto, soprattutto in Paesi in via di sviluppo, dicendo che se non lo fanno non li si aiuterà più, è una violenza. Non c’è da stupirsi. Quando si è abbandonato Dio, si abbandona l’uomo, non si ha più una visione chiara dell’uomo. C’è una grande crisi antropologica oggi in Occidente. E questo porta a trattare le persone come oggetti”.













martedì 27 febbraio 2018

Rosario per l'Italia nei giorni 2-3-4 marzo. Da diffondere!





Penitenza , digiuno e la recita del Santo Rosario: solo così l'Europa e l'Italia saranno salvate! (Cfr.MiL QUI)

L'Associazione "Rosario per l'Italia" e altri gruppi cattolici hanno invitato a recitare il Santo Rosario, comunitariamente o individualmente, soprattutto nei giorni 2-3-4 marzo prossimi. 

Anche i nostri gruppi liturgici "Summorum Pontificum" si possono organizzare: pubblicando questo post sulle pagine dei "social" o, tramite WhatsApp, condividendolo con gli amici e i conoscenti per essere tutti uniti nella preghiera alla nostra Mamma celeste!
Questa è l'intenzione spirituale:
"Quarant’anni fa l’Italia, con la legge sull’aborto, accelerò drammaticamente una deriva che avrebbe portato la nostra Patria sempre più lontano dalla Legge che Dio Padre ha amorevolmente stabilito per la vita terrena e la salvezza eterna degli uomini.

Gli anni successivi hanno visto una progressiva discesa agli inferi del nostro Paese, fino ad arrivare 
all’attacco finale contro la famiglia, suo nucleo fondante. 


Su queste premesse è vano sperare in qualsiasi miglioramento, anche in campo economico e sociale, perché Cristo ci ha ammonito che “senza di Lui non possiamo fare nulla” (Gv 15, 5). 

Pertanto invitiamo i cattolici a dedicare una recita del Santo Rosario nei giorni venerdì 2 marzo sabato 3 marzo domenica 4 marzo e possibilmente perfezionarla con penitenze e digiuni: affinché la Beata Vergine Maria, nostra Madre e Regina, possa toccare i cuori e illuminare le menti degli italiani in modo che le elezioni del 4 marzo segnino una svolta verso un percorso virtuoso, che faccia rifiorire la nostra Patria nel solco dell’obbedienza alla Legge di Dio".( QUI )


Maria Ausiliatrice dei Cristiani prega per noi!





domenica 25 febbraio 2018

Il giudice cita papa Francesco per giustificare la fine della vita del bambino contro il desiderio dei genitori





Nella traduzione di Chiesaepostconcilio da LifeSiteNews 23 febbraio, apprendiamo che Il giudice Hayden, che ha accolto la richiesta dell’ospedale di staccare il respiratore al piccolo Alfie, per lasciarlo morire poiché affetto da rarissima malattia, nella sua sentenza, ha citato la lettera scritta dal papa a mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita il 7 novembre scorso, a margine di un convegno internazionale, il Meeting Regionale Europeo della “World Medical Association”, tenutosi in Vaticano proprio sul fine vita il 16 e 17 novembre 2017. E ora, il bimbo forse sarà lasciato morire (come già accaduto al piccolo Charlie) ma con una motivazione che è il risultato diretto di parole del papa, il quale non dovrebbe permettere che si usino le sue parole con tanta malizia.



Un giudice in Gran Bretagna ha giustificato la sua decisione di staccare il ventilatore ad un bambino, contro la volontà dei suoi genitori cattolici, citando un recente discorso controverso tenuto da Papa Francesco.
I genitori di Alfie Evans, un bambino di 21 mesi con una misteriosa malattia, il 20 febbraio scorso hanno ricevuto un colpo devastante dall'alta corte quando il giudice Anthony Hayden ha stabilito che il ventilatore del bambino deve essere spento. Kate James, 20 anni, e Tom Evans, 21 anni, dal giugno 2017 stanno lottando nei confronti dell'ospedale pediatrico Alder Hey a Liverpool.
Dopo essere stato ricoverato in ospedale nel dicembre 2016, le condizioni del piccolo Alfie hanno iniziato a peggiorare e l'ospedale ha iniziato a fare pressione sui genitori per rimuovere il loro bambino dal supporto vitale.
Il giudice ha riconosciuto la fede cattolica dei genitori di Alfie, e a tal proposito ha detto che “è importante che queste credenze siano considerate nell’ampia gamma di fattori rilevanti” in relazione agli “interessi superiori” di Alfie. Il giudice Hayden ha poi citato la lettera aperta di papa Francesco del novembre 2017 alla Pontificia accademia per la vita come giustificazione per la rimozione forzata del sostegno vitale di Alfie. Egli ha detto:
“La posizione della Chiesa cattolica romana è talvolta rappresentata in modo impreciso nei casi relativi a queste difficili questioni etiche. Il documento di Mylonas è una lettera aperta, di Sua Santità Papa Francesco, al Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, datata novembre 2017. Nel suo messaggio, Papa Francesco ha chiesto "supplementi di saggezza " nel trovare un equilibrio tra gli sforzi medici per prolungare la vita e la decisione responsabile di mantenere il trattamento quando la morte diventa inevitabile. La sua lettera identifica che non adottare o sospendere misure sproporzionate può evitare un trattamento troppo zelante. Non vorrei presumere di aggiungere alcuna glossa ai seguenti estratti ...”.
La parte rilevante della lettera di Papa Francesco, usata dal giudice Hayden per giustificare la sua conclusione, parla della giustificazione morale alla sospensione del trattamento per la dignità del paziente. La lettera di Papa Francesco dice:

[inizio citazione] “Occorre quindi un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona.
Il Papa Pio XII, in un memorabile discorso rivolto 60 anni fa ad anestesisti e rianimatori, affermò che non c’è obbligo di impiegare sempre tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili e che, in casi ben determinati, è lecito astenersene (cfr Acta Apostolicae Sedis XLIX [1957],1027-1033). È dunque moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito “proporzionalità delle cure” (cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia, 5 maggio 1980, IV: Acta Apostolicae Sedis LXXII [1980], 542-552). L’aspetto peculiare di tale criterio è che prende in considerazione «il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali» (ibid.). Consente quindi di giungere a una decisione che si qualifica moralmente come rinuncia all’“accanimento terapeutico”.
È una scelta che assume responsabilmente il limite della condizione umana mortale, nel momento in cui prende atto di non poterlo più contrastare. «Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire», come specifica il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2278). Questa differenza di prospettiva restituisce umanità all’accompagnamento del morire, senza aprire giustificazioni alla soppressione del vivere. Vediamo bene, infatti, che non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte.
Certo, quando ci immergiamo nella concretezza delle congiunture drammatiche e nella pratica clinica, i fattori che entrano in gioco sono spesso difficili da valutare. Per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. Occorre un attento discernimento, che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. La dimensione personale e relazionale della vita – e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere – deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano”. [fine citazione -ndT]

Il giudice, per le sue decisioni, ha riflettuto sulle parti sopra evidenziate della lettera del papa come fondamento per la sua conclusione:
“Il supporto continuo della ventilazione, in circostanze che sono convinto sia inutile, ora compromette la dignità futura di Alfie e non rispetta la sua autonomia. Sono convinto del fatto che il supporto ventilatorio continuo non sia più nell’interesse di Alfie”. 

Non è la prima volta che la lettera di Papa Francesco viene utilizzata per giustificare decisioni di autorità governativa di sospendere i trattamenti salva-vita. Proprio lo scorso dicembre, i sostenitori della lotta contro la legge sull'eutanasia in Italia hanno affermato che la lettera ha indebolito la decisione di alcuni politici cattolici di votare contro.

Citando le stesse parti della lettera di papa Francesco sopra evidenziate, il New York Times ha concluso che "Papa Francesco ha inaspettatamente rafforzato le prospettive del disegno di legge". L'articolo del Times ha aggiunto:

I sostenitori del disegno di legge hanno usato le parole del papa per respingere i critici cattolici, osservando che Francesco aveva semplicemente ribadito gli insegnamenti di vecchia data della Chiesa cattolica quando affermava che la sua dottrina sulla santità della vita non giustificava trattamenti medici troppo zelanti per prolungare artificialmente la vita. 

L'Evangelium Vitae (1995) di Giovanni Paolo II n. 65 ha definito:

Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un'azione o un'omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. «L'eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati».

Il Santo Padre ha poi spiegato che esiste una distinzione tra l'eutanasia, come l'aveva appena definita, e la decisione di rinunciare o interrompere ciò che ha definito "trattamento medico aggressivo". Ha detto:
Da essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto «accanimento terapeutico», ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza «rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi».

Con questo in mente, Papa Giovanni Paolo II condanna fermamente l'eutanasia come un atto contrario alla legge naturale.
“Fatte queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale”. [grassetto aggiunto]
Anche se questo può sembrare simile a quello che Papa Francesco ha scritto nella sua lettera alla Pontificia Accademia per la Vita, e potrebbe sembrar giustificare le decisioni prese dal giudice nel caso del piccolo Alfie e dai legislatori in Italia, è di vitale importanza notare che anche il Papa Giovanni Paolo II distingue ulteriormente tra "cure mediche" e mezzi naturali per preservare la vita. In un Discorso ai medici, a Roma nel 2004:

“In particolare, vorrei sottolineare come la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenti sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico. Il suo uso pertanto sarà da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento delle sofferenze”. (grassetto aggiunto)

Anche se Papa Giovanni Paolo II non menzionava la ventilazione per aiutare i polmoni a mantenere il flusso di ossigeno, la somministrazione di un ventilatore non è più invasiva o ingombrante dei mezzi artificiali per fornire nutrimento e acqua.

Il dott. Paul Byrne, ex presidente dell'Associazione medica cattolica e co-inventore dei primi ventilatori neonatali, ha detto a LifeSiteNews:
"Un ventilatore muove l'aria nella trachea e nelle vie aeree maggiori. Supporta la respirazione solo in una persona vivente. L'ossigeno passa dai polmoni al sangue, quindi viene fatto circolare in tutte le cellule, i tessuti e gli organi, quindi il biossido di carbonio viene raccolto e riportato ai polmoni per essere espirato. La respirazione si verifica solo quando è presente la vita. Il ventilatore per respirare è analogo a un tubo di alimentazione. Questi tubi sono di supporto alla vita solo in una persona vivente. Togliere il ventilatore da Alfie significherebbe infliggergli la morte".
Nella dichiarazione di Giovanni Paolo II ai medici, è chiaro che l'argomento che egli fornisce per ciò che costituisce l'eutanasia per omissione si applicherebbe anche all'utilizzo di un ventilatore:
L'obbligo di fornire "cure ordinarie dovute ai malati in questi casi" (1) include, in effetti, l'uso di nutrizione e idratazione (2). La valutazione delle probabilità, fondata su scarse speranze di recupero quando lo stato vegetativo si prolunga oltre un anno, non può giustificare eticamente la cessazione o l'interruzione di cure minime per il paziente, inclusa la nutrizione e l'idratazione. La morte per fame o disidratazione è, infatti, l'unico risultato possibile a causa del loro ritiro. In questo senso finisce per diventare, se fatta consapevolmente e volontariamente, vera e propria eutanasia per omissione.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica è chiaro sui confini dell'autorità civile. Al n. 2235 afferma: “Nessuno può comandare o istituire ciò che è contrario alla dignità delle persone e alla legge naturale”. Come stabilito da Papa Giovanni Paolo II, l'eutanasia include l'omissione volontaria della fornitura dei bisogni fondamentali per il sostentamento della vita, egli condanna l'eutanasia come un crimine contro la legge naturale. Ma attraverso il mandato giudiziario, il giudice Hayden ha disposto che una necessità fondamentale per il sostentamento della vita umana fosse rimossa da un bambino innocente, contro i desideri espressi dei suoi genitori.

Il fatto è che la fornitura di un ventilatore non è complicata o eccessivamente onerosa, e i genitori avevano abbastanza sostegno finanziario per portare a casa il loro bambino in modo che potessero prendersi cura di lui autonomamente. Le richieste dei genitori di portare a casa il loro bambino sono state tutte negate.


Purtroppo, oltre a dare ai legislatori cattolici in Italia una copertura morale per il passaggio della legislazione pro-eutanasia, le dichiarazioni di Papa Francesco hanno ora aiutato un'autorità statale a prevalere sui diritti e sui desideri dei genitori di prendersi cura del loro figlio. E ora, un bambino sta per morire come risultato diretto.

[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]













giovedì 22 febbraio 2018

Cattedra di S. Pietro: confermare e tenere uniti i fratelli nella fede





Aldo Maria Valli

«Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo».

Era il 7 maggio 2005. Benedetto XVI, eletto papa il 19 aprile, diceva così nell’omelia per la messa nel giorno dell’insediamento sulla cattedra del vescovo di Roma, nella basilica di San Giovanni in Laterano.

Oggi, nel giorno in cui la Chiesa celebra la festa della Cattedra di San Pietro, quelle parole risuonano nelle menti e nei cuori come un richiamo del quale fare tesoro.

Rileggiamo la lezione di papa Benedetto.
Guida nella professione di fede
«Fu Pietro che espresse per primo, a nome degli apostoli, la professione di fede: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). Questo è il compito di tutti i Successori di Pietro: essere la guida nella professione di fede in Cristo, il Figlio del Dio vivente. La Cattedra di Roma è anzitutto Cattedra di questo credo. Dall’alto di questa Cattedra il Vescovo di Roma è tenuto costantemente a ripetere: Dominus Iesus – “Gesù è il Signore”, come Paolo scrisse nelle sue lettere ai Romani (10, 9) e ai Corinzi (1 Cor 12, 3). Ai Corinzi, con particolare enfasi, disse: “Anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo sia sulla terra… per noi c’è un solo Dio, il Padre…; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui” (1 Cor 8, 5). La Cattedra di Pietro obbliga coloro che ne sono i titolari a dire – come già fece Pietro in un momento di crisi dei discepoli – quando tanti volevano andarsene: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 68ss)».

Confermare i fratelli nella fede
«Colui che siede sulla Cattedra di Pietro deve ricordare le parole che il Signore disse a Simon Pietro nell’ora dell’Ultima Cena: “….e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli….” (Lc 22, 32). Colui che è il titolare del ministero petrino deve avere la consapevolezza di essere un uomo fragile e debole – come sono fragili e deboli le sue proprie forze – costantemente bisognoso di purificazione e di conversione. Ma egli può anche avere la consapevolezza che dal Signore gli viene la forza per confermare i suoi fratelli nella fede e tenerli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto. Nella prima lettera di san Paolo ai Corinzi, troviamo il più antico racconto della risurrezione che abbiamo. Paolo lo ha fedelmente ripreso dai testimoni. Tale racconto dapprima parla della morte del Signore per i nostri peccati, della sua sepoltura, della sua risurrezione, avvenuta il terzo giorno, e poi dice: “Cristo apparve a Cefa e quindi ai Dodici…” (1 Cor 15, 4), Così, ancora una volta, viene riassunto il significato del mandato conferito a Pietro fino alla fine dei tempi: essere testimone del Cristo risorto».

La potestà di insegnamento
«Il Vescovo di Roma siede sulla sua Cattedra per dare testimonianza di Cristo. Così la Cattedra è il simbolo della potestas docendi, quella potestà di insegnamento che è parte essenziale del mandato di legare e di sciogliere conferito dal Signore a Pietro e, dopo di lui, ai Dodici. Nella Chiesa, la Sacra Scrittura, la cui comprensione cresce sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, e il ministero dell’interpretazione autentica, conferito agli apostoli, appartengono l’una all’altro in modo indissolubile. Dove la Sacra Scrittura viene staccata dalla voce vivente della Chiesa, cade in preda alle dispute degli esperti. Certamente, tutto ciò che essi hanno da dirci è importante e prezioso; il lavoro dei sapienti ci è di notevole aiuto per poter comprendere quel processo vivente con cui è cresciuta la Scrittura e capire così la sua ricchezza storica. Ma la scienza da sola non può fornirci una interpretazione definitiva e vincolante; non è in grado di darci, nell’interpretazione, quella certezza con cui possiamo vivere e per cui possiamo anche morire. Per questo occorre un mandato più grande, che non può scaturire dalle sole capacità umane. Per questo occorre la voce della Chiesa viva, di quella Chiesa affidata a Pietro e al collegio degli apostoli fino alla fine dei tempi. Questa potestà di insegnamento spaventa tanti uomini dentro e fuori della Chiesa. Si chiedono se essa non minacci la libertà di coscienza, se non sia una presunzione contrapposta alla libertà di pensiero. Non è così. Il potere conferito da Cristo a Pietro e ai suoi successori è, in senso assoluto, un mandato per servire. La potestà di insegnare, nella Chiesa, comporta un impegno a servizio dell’obbedienza alla fede. Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo».

L’esempio di Giovanni Paolo II
«Lo fece Papa Giovanni Paolo II, quando, davanti a tutti i tentativi, apparentemente benevoli verso l’uomo, di fronte alle errate interpretazioni della libertà, sottolineò in modo inequivocabile l’inviolabilità dell’essere umano, l’inviolabilità della vita umana dal concepimento fino alla morte naturale. La libertà di uccidere non è una vera libertà, ma è una tirannia che riduce l’essere umano in schiavitù. Il Papa è consapevole di essere, nelle sue grandi decisioni, legato alla grande comunità della fede di tutti i tempi, alle interpretazioni vincolanti cresciute lungo il cammino pellegrinante della Chiesa. Così, il suo potere non sta al di sopra, ma è al servizio della Parola di Dio, e su di lui incombe la responsabilità di far sì che questa Parola continui a rimanere presente nella sua grandezza e a risuonare nella sua purezza, così che non venga fatta a pezzi dai continui cambiamenti delle mode. La Cattedra è – diciamolo ancora una volta – simbolo della potestà di insegnamento, che è una potestà di obbedienza e di servizio, affinché la Parola di Dio – la sua verità! – possa risplendere tra di noi, indicandoci la strada. Ma, parlando della Cattedra del Vescovo di Roma, come non ricordare le parole che Sant’Ignazio d’Antiochia scrisse ai Romani? Pietro, provenendo da Antiochia, sua prima sede, si diresse a Roma, sua sede definitiva. Una sede resa definitiva attraverso il martirio con cui legò per sempre la sua successione a Roma. Ignazio, da parte sua, restando Vescovo di Antiochia, era diretto verso il martirio che avrebbe dovuto subire in Roma. Nella sua lettera ai Romani si riferisce alla Chiesa di Roma come a “Colei che presiede nell’amore”, espressione assai significativa. Non sappiamo con certezza che cosa Ignazio avesse davvero in mente usando queste parole. Ma per l’antica Chiesa, la parola amore, agape, accennava al mistero dell’Eucaristia. In questo Mistero l’amore di Cristo si fa sempre tangibile in mezzo a noi. Qui, Egli si dona sempre di nuovo. Qui, Egli si fa trafiggere il cuore sempre di nuovo; qui, Egli mantiene la Sua promessa, la promessa che, dalla Croce, avrebbe attirato tutto a sé. Nell’Eucaristia, noi stessi impariamo l’amore di Cristo».

Eucaristia, centro e cuore
«E’ stato grazie a questo centro e cuore, grazie all’Eucaristia, che i santi hanno vissuto, portando l’amore di Dio nel mondo in modi e in forme sempre nuove. Grazie all’Eucaristia la Chiesa rinasce sempre di nuovo! La Chiesa non è altro che quella rete – la comunità eucaristica! – in cui tutti noi, ricevendo il medesimo Signore, diventiamo un solo corpo e abbracciamo tutto il mondo. Presiedere nella dottrina e presiedere nell’amore, alla fine, devono essere una cosa sola: tutta la dottrina della Chiesa, alla fine, conduce all’amore. E l’Eucaristia, quale amore presente di Gesù Cristo, è il criterio di ogni dottrina. Dall’amore dipendono tutta la Legge e i Profeti, dice il Signore (Mt 22, 40). L’amore è il compimento della legge, scriveva San Paolo ai Romani (13, 10)».

Essere sempre più cattolici
«Cari Romani, adesso sono il vostro Vescovo. Grazie per la vostra generosità, grazie per la vostra simpatia, grazie per la vostra pazienza! In quanto cattolici, in qualche modo, tutti siamo anche romani. Con le parole del salmo 87, un inno di lode a Sion, madre di tutti i popoli, cantava Israele e canta la Chiesa: “Si dirà di Sion: L’uno e l’altro è nato in essa…” (v. 5). Ugualmente, anche noi potremmo dire: in quanto cattolici, in qualche modo, siamo tutti nati a Roma. Così voglio cercare, con tutto il cuore, di essere il vostro Vescovo, il Vescovo di Roma. E tutti noi vogliamo cercare di essere sempre più cattolici – sempre più fratelli e sorelle nella grande famiglia di Dio, quella famiglia in cui non esistono stranieri. Infine, vorrei ringraziare di cuore il Vicario per la Diocesi di Roma, il Cardinale Camillo Ruini, e anche i Vescovi ausiliari e tutti i suoi collaboratori. Ringrazio di cuore i parroci, il clero di Roma e tutti coloro che, come fedeli, offrono il loro contributo per costruire qui la casa vivente di Dio. Amen».

Per riassumere.
Il compito di tutti i successori di Pietro è essere la guida nella professione di fede in Cristo, il Figlio del Dio vivente, allo scopo di confermare i fratelli nella fede e di tenerli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto.

La cattedra è simbolo della potestas docendi, la potestà di insegnamento, parte essenziale del mandato conferito dal Signore a Pietro e agli apostoli. È un’autorità così grande che può spaventare e facilmente induce a pensare che sia contro la libertà di coscienza e di pensiero. Occorre non lasciarsi spaventare e condizionare dal mito della libertà assoluta. Il potere di insegnare è un servizio. Ciò che vincola è l’obbedienza alla fede. Il papa non è quindi un despota che proclama le proprie idee e comanda di attuarle, ma un servitore che si fa garante della vera fede in Cristo e nella Parola. Il papa è il primo al quale è chiesta obbedienza. Non deve dunque cedere ai tentativi, sempre presenti, di adattamento e di annacquamento del depositum fidei, e deve evitare ogni forma di opportunismo che può scaturire dal desiderio di piacere al mondo.

Il papa è vincolato alla fede proclamata dalla Chiesa ed ha il compito di far sì che la Parola risuoni nella sua bellezza e purezza, in modo che «non venga fatta a pezzi dai continui cambiamenti delle mode».

Vale la pena di leggere e meditare l’intera omelia di Benedetto XVI: http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2005/documents/hf_ben-xvi_hom_20050507_san-giovanni-laterano.html

A tutti i lettori buona festa della Cattedra di San Pietro!






Aldo Maria Valli















mercoledì 21 febbraio 2018

La «Veritatis splendor» di don Alfredo Morselli




Aldo Maria Valli

La verità è bella, la verità è semplice, la verità risplende. Sono queste le parole che mi salgono dal cuore dopo aver letto la pubblica professione di fede in forma di giuramento che don Alfredo Morselli ha inviato al suo vescovo, monsignor Matteo Zuppi, giudicando inaccettabili le conclusioni dei vescovi dell’Emilia-Romagna circa il capitolo VIII di Amoris laetitia.

Parroco di montagna nel Bolognese, don Alfredo non vuole essere contro il papa, né contro i vescovi. Semmai li vuole aiutare. È soltanto contro l’errore e l’equivoco.

Il testo, suddiviso in 44 affermazioni, ruota attorno alla questione della comunione ai divorziati risposati, e smaschera la contraddizione insita nella posizione di chi sostiene da un lato che non è mai lecito a due persone non sposate compiere gli atti propri degli sposi e dall’altro che qualche volta è lecito a due persone non sposate compiere gli atti propri degli sposi.

In gioco, prima ancora della dottrina, c’è il principio di non contraddizione definito da Aristotele quando spiega che «è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo».

Occupandosi dei divorziati risposati, don Morselli si rifà al cardinale Carlo Caffarra e scrive al vescovo Zuppi: «Il Suo venerato Predecessore, infatti, in occasione di un importante convegno svoltosi a Roma nel novembre 2015, rispondendo a una domanda circa la possibilità di ammettere i suddetti fratelli alla ricezione dell’Eucarestia, ci diceva che ciò “non è possibile”: e questo perché “una tale ammissione vorrebbe dire cambiare la dottrina del matrimonio, della Eucarestia, della confessione, della Chiesa sulla sessualità umana e quinto, avrebbe una rilevanza pedagogica devastante, perché di fronte a una tale decisione, specialmente i giovani potrebbero concludere legittimamente: allora è proprio vero, non esiste un matrimonio indissolubile”».

È possibile leggere interamente la pubblica professione di fede qui: http://blog.messainlatino.it/2018/02/don-morselli-scrive-ai-vescovi.html#more

Intanto eccone i punti salienti.

Uno sviluppo omogeno del dogma, spiega don Morselli, è senz’altro possibile, ma non può mai ammettere la contraddizione. La contraddizione non è sviluppo, ma confusione.

«Purtroppo constatiamo che la divisione tra i Pastori verte su due affermazioni contraddittorie, cioè delle quali se è vera l’una, l’altra è falsa. (a) non è mai lecito a due persone non sposate compiere gli atti propri degli sposi; (b) qualche volta è lecito a due persone non sposate compiere gli atti propri degli sposi. L’ammissione dei fratelli divorziati (civilmente risposati e conviventi more uxorio) alla Santa Comunione presuppone che si ritenga vero (b), e porta inevitabilmente a conclusioni inaccettabili per ogni buon cristiano».

Di qui la professione di fede, all’interno della quale si trovano, fra gli altri, i seguenti punti:


Credo che esistono degli atti intrinsecamente cattivi che sono sempre peccato mortale, se commessi con piena avvertenza e deliberato consenso, e che quindi non possono ricevere una valutazione morale caso per caso.

Infatti «ci sono atti che per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze e dalle intenzioni, sono sempre gravemente illeciti a motivo del loro oggetto; tali la bestemmia e lo spergiuro, l’omicidio e l’adulterio. Non è lecito compiere il male perché ne derivi un bene» (CCC 1756).
Credo che le circostanze non possono rendere buona un’azione intrinsecamente cattiva.

Infatti «le circostanze, in sé, non possono modificare la qualità morale degli atti stessi; non possono rendere né buona né giusta un’azione intrinsecamente cattiva» (CCC 1754).
Credo che non è possibile valutare se un atto sia moralmente buono o meno, considerando solo l’intenzione e le circostanze.

Infatti è «sbagliato giudicare la moralità degli atti umani considerando soltanto l’intenzione che li ispira, o le circostanze (ambiente, pressione sociale, costrizione o necessità di agire, etc. che ne costituiscono la cornice)» (CCC 1756).
Credo che la morale dell’oggetto – così come spiegata nell’enciclica Veritatis splendor – possa e debba essere opportunamente applicata all’esperienza pastorale concreta, anche nei casi più critici.

Infatti «il Magistero della Chiesa […] presenta le ragioni del discernimento pastorale necessario in situazioni pratiche e culturali complesse e talvolta critiche» (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 115).
Credo che Dio non comanda a nessuno cose impossibili ad osservarsi (quindi neppure ai divorziati civilmente risposati).

Infatti «Nessuno, poi, per quanto giustificato, deve ritenersi libero dall’osservanza dei comandamenti, nessuno deve far propria quell’espressione temeraria e proibita dai padri sotto pena di scomunica, esser cioè impossibile per l’uomo giustificato osservare i comandamenti di Dio» (Concilio di Trento, Decreto sulla giustificazione, 13-1-1547, Sessio VI, cap. 11).

Inoltre «Dio non comanda cose impossibili ordinando di resistere a qualunque tentazione, ma ordinando “ammonisce di fare ciò che puoi, e di chiedere ciò che non puoi e aiuta perché tu possa» (Concilio di Trento, Ibidem).
Credo che Dio non permette che siamo tentati oltre le nostre forze.

Infatti «Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo per poterla sostenere» (1 Cor 10,13).
Credo che non bisogna violare i comandamenti di Dio anche nelle circostanze più gravi.

Infatti «La Chiesa propone l’esempio di numerosi santi e sante, che hanno testimoniato e difeso la verità morale fino al martirio o hanno preferito la morte ad un solo peccato mortale. Elevandoli all’onore degli altari, la Chiesa ha canonizzato la loro testimonianza e dichiarato vero il loro giudizio, secondo cui l’amore di Dio implica obbligatoriamente il rispetto dei suoi comandamenti, anche nelle circostanze più gravi, e il rifiuto di tradirli, anche con l’intenzione di salvare la propria vita» (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 91).
Credo che non è lecito commettere un peccato neppure nel caso si voglia favorire l’educazione dei figli avuti al di fuori del legittimo matrimonio.

Infatti «non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene, cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali» (Paolo VI, Lettera enciclica Humanae Vitae, 25-7-1968, § 14).
Credo che la coscienza debba adeguarsi a ciò che è bene e non deciderlo autonomamente.

Infatti «La coscienza, all’atto pratico, è il giudizio circa la rettitudine, cioè la moralità, delle nostre azioni, sia considerate nel loro abituale svolgimento, sia nei loro singoli atti». (Paolo VI, Udienza generale,12-8-1969).
Credo che la coscienza, intesa come sopra, è necessaria.

Infatti, la coscienza è necessaria perché «la bontà dell’azione umana dipende dall’oggetto in cui è impegnata e, oltre che dalle circostanze in cui è compiuta, dall’intenzione che la muove (Cfr. S. TH. I-IIæ, 18, 1-4); ora questa complessa specificazione dell’azione, se vuol essere umana, implica un giudizio soggettivo, immediato di coscienza, che poi si sviluppa nella virtù regolatrice dell’azione stessa, la prudenza». (Paolo VI, Udienza generale, 2-8-1972).
Credo che la coscienza, intesa come sopra, è insufficiente.

Infatti la coscienza è insufficiente perché da sola «non basta. Anche se essa porta in se stessa i precetti fondamentali della legge naturale (Cfr. Rom. 2, 2-16). Occorre appunto la legge: e quella che la coscienza offre da sé alla guida della vita umana non basta; dev’essere educata e spiegata; dev’essere integrata con la legge esterna, sia nell’ordinamento civile – chi non lo sa? – e sia nell’ordinamento cristiano – anche questo: chi non lo sa? -. La “via” cristiana non ci sarebbe nota, con verità e con autorità, se non ci fosse annunciata dal messaggio della Parola esteriore, del Vangelo e della Chiesa» (Paolo VI, Ibidem).
Credo che la coscienza non è arbitra del valore morale delle azioni che essa suggerisce.

Infatti la coscienza «è interprete d’una norma interiore e superiore; non la crea da sé. Essa è illuminata dalla intuizione di certi principi normativi, connaturali nella ragione umana (cfr. S. Th., I, 79, 12 e 13; I-II, 94, 1); la coscienza non è la fonte del bene e del male; è l’avvertenza, è l’ascoltazione di una voce, che si chiama appunto la voce della coscienza, è il richiamo alla conformità che un’azione deve avere ad una esigenza intrinseca all’uomo, affinché l’uomo sia uomo vero e perfetto. Cioè è l’intimazione soggettiva e immediata di una legge, che dobbiamo chiamare naturale, nonostante che molti oggi non vogliano più sentir parlare di legge naturale» (Paolo VI, Udienza generale, 12-2-1969).
Credo che la ragione umana non può creare essa stessa la norma morale

Infatti «La giusta autonomia della ragione pratica significa che l’uomo possiede in se stesso la propria legge, ricevuta dal Creatore. Tuttavia, l’autonomia della ragione non può significare la creazione, da parte della stessa ragione, dei valori e delle norme morali. Se questa autonomia implicasse una negazione della partecipazione della ragione pratica alla sapienza del Creatore e Legislatore divino, oppure se suggerisse una libertà creatrice delle norme morali, a seconda delle contingenze storiche o delle diverse società e culture, una tale pretesa autonomia contraddirebbe l’insegnamento della Chiesa sulla verità dell’uomo» (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 40).
Credo che un colloquio con un sacerdote non può mai rendere lecita un’azione intrinsecamente cattiva.

Infatti il sacerdote ha il dovere di spiegare la malizia di un atto intrinsecamente cattivo: «nel campo della morale come in quello del dogma, tutti si attengano al Magistero della Chiesa e parlino uno stesso linguaggio» (Paolo VI, Lettera enciclica Humanae Vitae, 25-7-1968, § 28).
Credo che i precetti negativi della legge naturale – quali ad esempio non bestemmiare, non spergiurare, non commettere omicidio, non commettere adulterio (cf. CCC 1756) – sono universalmente validi.

Infatti «I precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo. È proibito ad ognuno e sempre di infrangere precetti che vincolano, tutti e a qualunque costo, a non offendere in alcuno e, prima di tutto, in se stessi la dignità personale e comune a tutti» (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 51).
Credo che chi commette un peccato mortale è privo della grazia di Dio.

Infatti «Il peccato mortale è una possibilità radicale della libertà umana, come lo stesso amore. Ha come conseguenza la perdita della carità e la privazione della grazia santificante, cioè dello stato di grazia» (CCC 1861).
Credo che l’unione matrimoniale dell’uomo e della donna è indissolubile in ogni caso.

Infatti «Nella sua predicazione Gesù ha insegnato senza equivoci il senso originale dell’unione dell’uomo e della donna, quale il Creatore l’ha voluta all’origine: il permesso, dato da Mosè, di ripudiare la propria moglie, era una concessione motivata dalla durezza del cuore; [Cf Mt 19,8] l’unione matrimoniale dell’uomo e della donna è indissolubile: Dio stesso l’ha conclusa. “Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt 19,6)» (CCC 1614).
Credo che l’indissolubilità del matrimonio non è mai un’esigenza irrealizzabile.

Infatti «Questa inequivocabile insistenza sull’indissolubilità del vincolo matrimoniale ha potuto lasciare perplessi e apparire come un’esigenza irrealizzabile [Cf. Mt 19,10]. Tuttavia Gesù non ha caricato gli sposi di un fardello impossibile da portare e troppo gravoso, [Cf. Mt 11,29-30] più pesante della Legge di Mosè» (CCC 1615).
Credo che è sempre possibile rimanere fedeli al matrimonio indissolubile, pur in mezzo a tante difficoltà.

Infatti «Venendo a ristabilire l’ordine iniziale della creazione sconvolto dal peccato, [Gesù] stesso dona la forza e la grazia per vivere il matrimonio nella nuova dimensione del Regno di Dio» (CCC 1615).
Credo che tutti gli sposi possono capire il senso originale del matrimonio e viverlo con l’aiuto di Cristo.

Infatti «Seguendo Cristo, rinnegando se stessi, prendendo su di sé la propria croce [Cf. Mc 8,34] gli sposi potranno “capire” [Cf. Mt 19,11] il senso originale del matrimonio e viverlo con l’aiuto di Cristo. Questa grazia del Matrimonio cristiano è un frutto della croce di Cristo, sorgente di ogni vita cristiana» (CCC 1615).
Credo che chi causa il divorzio pecca gravemente.

Infatti «il divorzio è una grave offesa alla legge naturale. Esso pretende di sciogliere il patto liberamente stipulato dagli sposi, di vivere l’uno con l’altro fino alla morte. Il divorzio offende l’Alleanza della salvezza, di cui il matrimonio sacramentale è segno» (CCC 2384).
Credo che un coniuge che contrae un nuovo matrimonio meramente civile si trova in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio.

Infatti «Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio» (CCC 1650).

Inoltre «Il fatto di contrarre un nuovo vincolo nuziale, anche se riconosciuto dalla legge civile, accresce la gravità della rottura: il coniuge risposato si trova in tal caso in una condizione di adulterio pubblico e permanente» (CCC 2384).
Credo che la Chiesa non può riconoscere come valida una nuova unione se era valido il primo matrimonio.

Infatti, anche se oggi, «in molti paesi, sono numerosi i cattolici che ricorrono al divorzio secondo le leggi civili e che contraggono civilmente una nuova unione. La Chiesa sostiene, per fedeltà alla parola di Gesù Cristo (“Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio”: (Mc 10,11-12), che non può riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il primo matrimonio» (CCC 1650).
Credo che non è possibile applicare analogicamente, ad una relazione adulterina, il principio per cui se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51).

Infatti, essendo l’adulterio un grave peccato e «il peccato il principio attivo della divisione – divisione fra l’uomo e il Creatore, divisione nel cuore e nell’essere dell’uomo, divisione fra gli uomini singoli e fra i gruppi umani, divisione fra l’uomo e la natura creata da Dio -, soltanto la conversione dal peccato è capace di operare una profonda e duratura riconciliazione dovunque sia penetrata la divisione» (S. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, 2-12-1984, § 23).
Credo che l’astensione dagli atti propri degli sposi non danneggia i figli nati dalla nuova unione e quindi non costituisce una nuova colpa.

Infatti provvedere ai figli nati dalla nuova unione non rende necessario compiere gli atti propri degli sposi tra persone che non sono in realtà sposi. Se i divorziati risposati hanno dei figli nati nell’ambito del nuovo matrimonio civile, possono meglio provvedere loro vivendo in grazia di Dio.



Seguono alcuni principi di teologia sacramentaria che si concludono con il quarantaquattresimo e ultimo punto: «Credo che Maria Santissima, debellatrice di tutte le eresie, debellerà anche gli errori circa la dottrina sul matrimonio. Ne sono certo, perché Ella “non accetta che l’uomo peccatore venga ingannato da chi pretenderebbe di amarlo giustificandone il peccato, perché sa che in tal modo sarebbe reso vano il sacrificio di Cristo, suo Figlio” (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 120)».

Grazie don Alfredo!



Aldo Maria Valli









sabato 17 febbraio 2018

Perché la Chiesa non scaccia più i demoni. Secondo don Divo Barsotti




don Divo Barsotti

“La Chiesa da decenni parla di pace e non la può assicurare, non parla più dell’inferno e l’umanità vi affonda senza orgoglio. Non si parla del peccato, non si denuncia l’errore. A che cosa si riduce il magistero? 

Mai la Chiesa ha parlato tanto come in questi ultimi anni, mai la sua parola è stata così priva di efficacia. 

“Nel mio nome scacceranno i demoni …”. Com’è possibile scacciarli se non si crede più alla loro presenza? E i demoni hanno invaso la terra. La televisione, la droga, l’aborto, la menzogna e soprattutto la negazione di Dio: le tenebre sono discese sopra la terra. […]. 

Forse la crisi non sarà superata finché, in vera umiltà, i vescovi non vorranno riconoscere la presunzione che li ha ispirati e guidati in questi ultimi decenni e soprattutto nel Concilio e nel dopo-Concilio. 

Essi, certo, rimangono i “doctores fidei”, ma proprio questo è il loro peccato: non hanno voluto definire la verità, non hanno voluto condannare l’errore e hanno preteso di “rinnovare” la Chiesa quasi che il “loro” Concilio potesse essere il nuovo fondamento di tutto.”









Comunione sulla mano. Infiniti sacrilegi quotidiani. Per chi crede nella transustanziazione


MARCO TOSATTI
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, vorrei tornare sul tema della comunione in bocca o in mano con un interessante articolo che ho trovato su Infovaticana, e che propone in maniera molto forte il problema di un involontario sacrilegio. Tutto questo, ovviamente, ha un senso se si pensa che l’ostia divenga realmente corpo di Cristo nella consacrazione; e se lasciamo a discussioni alambiccate e bizantine le tesi fumose di alcuni rozzi e verbosi professorini, influenzati da convinzioni luterane.
Come sappiamo negli ultimi cinquanta anni si è generalizzata la pratica di ricevere la comunione nella mano, per poi consumarla individualmente. In piedi, generalmente; tanto che di recente c’è chi ha lanciato una petizione affinché si torni a usare gli inginocchiatoi per la distribuzione dell’eucarestia.
Infovaticana ci informa che un seminarista statunitense ha voluto fare un esperimento per verificare se nella pratica della comunione in mano può essere mostrato il dovuto rispetto a quello che è il corpo di Gesù. (Come abbiamo detto sopra: sempre che ci si creda…).
Il seminarista ha utilizzato per il suo esperimento un’ostia non consacrata e un guanto nero, che permetterà di vedere con sufficiente chiarezza i risultati dell’esperimento. Come prima cosa si dimostra che sul guanto non ci sono resti di nessun genere.

Subito dopo si colloca l’ostia sul guanto, nello stesso modo in cui un fedele la prende dalle mani del sacerdote e la colloca sul palmo della sua mano.

Infine lo sperimentatore prende e ingoia l’ostia: e allora si possono vedere con chiarezza le particelle di ostia che sono rimaste sul guanto.

Ci ricordiamo che l’ostia usata dal seminarista è in realtà solo pane. Ma se si fosse trattato di un’ostia consacrata, data a un fedele durante la messa, inevitabilmente quelle minuscole briciole di ostia consacrata sarebbero cadute a terra. Il che costituirebbe una forma di sacrilegio verso la presenza reale di Cristo nell’eucarestia.
Ricordiamo qui che cosa afferma l’Istruzione “Redemptionis sacramentum”.
Al punto 92 si legge: “Benché ogni fedele abbia sempre il diritto di ricevere, a sua scelta, la santa Comunione in bocca, se un comunicando, nelle regioni in cui la Conferenza dei Vescovi, con la conferma da parte della Sede Apostolica, lo abbia permesso, vuole ricevere il Sacramento sulla mano, gli sia distribuita la sacra ostia. Si badi, tuttavia, con particolare attenzione che il comunicando assuma subito l’ostia davanti al ministro, di modo che nessuno si allontani portando in mano le specie eucaristiche. Se c’è pericolo di profanazione, non sia distribuita la santa Comunione sulla mano dei fedeli.
Al punto 93 si legge: “È necessario che si mantenga l’uso del piattino per la Comunione dei fedeli, per evitare che la sacra ostia o qualche suo frammento cada”.
Un bel problema, no? Ma, come dicevamo, sempre e solo per chi ci crede che sia il corpo di Cristo….











venerdì 16 febbraio 2018

Strangolamento o eutanasia? Dipende dal sentire comune





Tommaso Scandroglio (16/02/2018)

Nel marzo del 2014 un pensionato di 83 anni strangolò con una sciarpa la moglie di 88 anni perché malata di Alzheimer. “Non ce la facevo più” confessò l’uomo agli agenti del commissariato fiorentino di San Giovanni. Fu condannato a sette anni e otto mesi di reclusione. Dopo l’appello la vertenza è arrivata in Cassazione che ha confermato la condanna.

I difensori avevano chiesto ai giudici di mitigare la pena appellandosi ad alcune pronunce di colleghi stranieri, alle normative pro-eutanasia vigenti all’estero, alle sentenze della Corte europea per i diritti dell’uomo e pure ai sondaggi di opinione sulla “dolce morte”. Nulla da fare.

I legali inoltre avevano tentato di persuadere i giudici facendo leva sul fatto che ormai appare valore condiviso dalla società "quello di porre fine alle sofferenze della persona, conformemente ai suoi desideri espressi in vita, rimarcandosi, al riguardo, le differenze con l'eutanasia". Il gesto del pensionato non poteva essere qualificato come eutanasia perchè in quel caso "sussisteva l'ulteriore elemento" di aver posto fine "alle sofferenze di un soggetto amato, insieme all'ossequio della volontà di chi non era più in grado di esprimerla". Ma per eutanasia – ribattiamo noi – si intende proprio un’azione che provoca la morte di una persona al fine di eliminare ogni suo dolore. Si tratta né più né meno che una forma di omicidio o suicidio compiuto con finalità pietistiche. Esattamente la condotta assunta dal pensionato fiorentino.

Ma lasciamo la parola ai giudici della Cassazione su questo particolare aspetto. Da una parte i magistrati hanno ammesso che l’imputato ha preso una decisione "difficile e disperata" quando era ormai "incapace di sopportare le sofferenze e l'inarrestabile decadimento fisico e cognitivo della moglie". Su altro fronte non hanno concesso l'attenuante di aver agito "per motivi di particolare valore etico".

In cosa consiste questa curiosa attenuante non riconosciuta dai giudici? Gli ermellini in merito all’eutanasia non hanno registrato nella società "un generale apprezzamento positivo" ed anzi ci sono "ampie correnti di pensiero che la contrastano". Dunque lo scenario è il seguente: gli avvocati difensori chiedono di applicare un’attenuante generica data dal fatto che ormai tutti sono a favore di uccidere una persona per non farla più soffrire ed invece ai giudici non pare che attualmente ci sia tutto questo consenso unanime sull’eutanasia. Se ci fosse si potrebbe applicare la succitata attenuante etica.

L’argomento si ripropone in un altro luogo della sentenza.Sempre i legali dell’imputato affermano che quest’ultimo avrebbe ucciso la moglie anche per evitare che, una volta che lui fosse morto, il peso della cura della moglie finisse sulle spalle dei congiunti dato che, a loro dire, non ci sarebbero strutture pubbliche idonee a gestire pazienti in quello stato. E dunque tenuto conto di questa particolare motivazione che ha accompagnato il gesto delittuoso sarebbe opportuno mitigare la pena. I magistrati su questo punto particolare così hanno ribattuto: "Escludere che la consapevolezza della carenza di pubbliche strutture assistenziali idonee a coadiuvare la famiglia nell'assistenza di congiunti gravemente malati, e senza possibilità di guarigione, commista alla preoccupazione di gravare sulla vita di altri congiunti, pure se moralmente e giuridicamente obbligati verso la persona malata, possa generare, secondo la coscienza etica prevalente nella collettività, la spinta volta a sopprimere la vita dell'infermo quale motivo di particolare valore morale e sociale". Anche in questo caso i giudici ci stanno dicendo che se la collettività ritenesse giusto ammazzare un paziente grave quando non c’è nessuno che sia in grado di prendersene cura, allora si potrebbe applicare un’altra attenuante etica.

Un paio di riflessioni. La prima: le sentenze non devono essere democratiche nel senso che il sentito comune non deve entrare nel giudizio penale. Se tutti ritenessero giusto ammazzare una persona di colore, gli omicidi a sfondo razziale dovrebbero ricevere pene più lievi rispetto agli omicidi di persona di etnia caucasica? E che dire dell’uccisione della suocera? E dell’evasione fiscale ritenuta da molti questione bagatellare? Se il criterio sociologico della Cassazione dovesse prevalere nelle aule di tribunale, ogni verdetto dovrebbe essere preceduto da un’accurata indagine demoscopica per sapere cosa pensa il sig. Rossi di quel capo di imputazione. Crediamo che gli ermellini abbiano frainteso il senso dell’espressione “Nel nome del popolo italiano”.

Seconda riflessione. A dar retta ai giudici di Roma il pensionato è solo stato sfortunato o poco accorto. Avesse compiuto quello stesso delitto fra qualche anno, non sarebbe stato punito con sette anni di galera dato che la percezione sociale in merito agli omicidi eutanasici sarà sempre più benevola in futuro. Bastava pazientare ancora un poco, era solo questione di tempo. Già ora con l’attuale legge sulle Dat si potrebbe trovare qualche pertugio in più per “risolvere” il problema che affliggeva il pensionato di Firenze.
















giovedì 15 febbraio 2018

La Chiesa e il magico mondo dei giochi linguistici




Aldo Maria Valli

«Il matrimonio continua a essere indissolubile, ma non infrangibile». Così ha detto di recente un vescovo abile nel giocare con le parole. Geniale, davvero.

Fa piacere che anche nella Chiesa ci sia chi si diletta con i giochi linguistici, molto utili, fra l’altro, nel curare i disturbi dell’apprendimento.

Un altro bell’esempio arriva dai vescovi dell’Emilia Romagna, che nelle loro preziose «Indicazioni sul capitolo ottavo dell’Amoris laetitia», in particolare nella sezione intitolata «Il discernimento sui rapporti coniugali», dimostrano di essere già piuttosto avanti nell’uso della ludoterapia linguistica.

Quei saggi pastori, giocando con le parole, ricordano che per i divorziati risposati «la possibilità di vivere da fratello e sorella per poter accedere alla confessione e alla comunione eucaristica» è contemplata da Amoris laetitia e coincide con l’insegnamento sempre indicato dalla Chiesa e confermato da Familiaris consortio. Bene, fin qui tutto nella norma. Tuttavia, ecco il guizzo creativo, si tratta di un’eventualità che va «presentata con prudenza, nel contesto di un cammino educativo finalizzato al riconoscimento della vocazione del corpo e del valore della castità nei diversi stati di vita». Che vuol dire? Non ha importanza. L’importante è che «questa scelta», ovvero vivere come fratello e sorella, «non è considerata l’unica possibile, in quanto la nuova unione e quindi anche il bene dei figli potrebbero essere messi a rischio in mancanza degli atti coniugali».

Come dite? Sostenere che la scelta «di vivere da fratello e sorella per potere accedere alla confessione e alla comunione eucaristica […] non è considerata l’unica possibile, in quanto la nuova unione e quindi anche il bene dei figli potrebbero essere messi a rischio in mancanza degli atti coniugali», è qualcosa che contrasta nettamente con la fede cattolica?

Come dite? Che una tale affermazione è falsa perché chiama «atti coniugali» quelli di persone che non sono sposate davanti a Dio?

Come dite? Che non è mai lecito fare il male perché ne venga il bene, e che, come spiega Paolo VI nell’Humanae vitae, non è mai lecito «fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali»?

Come dite? Che per la fede cattolica ci sono atti intrinsecamente cattivi, i quali, se compiuti con piena avvertenza e deliberato consenso, restano tali in qualunque circostanza?

Come dite? Che i vescovi emiliano-romagnoli lasciano intendere che in certi casi non ci sarebbe altra possibilità che peccare, senza tener conto della promessa di Dio di non lasciarci mai privi di aiuto contro il peccato?

Ma voi, scusate tanto, ponendo queste domande dimostrate di non riuscire ad apprezzare le potenzialità dei giochi linguistici, dove ciò che conta non è la dottrina, figuriamoci, né la logica, ma è il funambolismo liberatorio, l’intuizione creativa che, uscendo dalla gabbia del «sì sì, no no», ci introduce nel magico mondo della fantasia, dove tutto è possibile, come sanno bene i bambini quando giocano a «facciamo che io adesso ero e tu eri».

Abbiamo già avuto modo di sottolineare in altre occasioni come questa Chiesa del «sì ma anche no, no ma anche sì» apra prospettive particolarmente originali e inedite su un mondo nel quale è possibile tutto e il contrario di tutto, all’insegna del bi-pensiero. L’immagine che viene alla mente è quella dell’abile prestigiatore che fa apparire e scomparire gli oggetti utilizzando l’arte del deviare l’attenzione, ma invece di dire «a me gli occhi, please!», il pastore dirà «a me il discernimento!», dopo di che, mescolando le parole nel cilindro, ne potrà trarre vocaboli molto utili a confondere la platea, come «accoglienza», «accompagnamento», «apertura», «integrazione» .

Il gioco linguistico è così liberante che si potrebbe introdurre, perché no, anche nel rito stesso del matrimonio, di modo che, quando il sacerdote interroga gli sposi, la risposta sia adeguata.

Immaginiamo la scena.

«Siete venuti a celebrare il matrimonio senza alcuna costrizione, in piena libertà e consapevoli del significato della vostra decisione?»

«Gli sposi rispondono: sì e no».

«Siete disposti, seguendo la via del matrimonio, ad amarvi e a onorarvi l’un l’altro per tutta la vita?»

«Gli sposi rispondono: sì e no».

«Siete disposti ad accogliere con amore i figli che Dio vorrà donarvi e a educarli secondo la legge di Cristo e della sua Chiesa?»

«Gli sposi rispondono: sì e no».

Poi, al momento di prendersi per mano, la formula recitata dallo sposo potrebbe essere: «Io N., accolgo te, N., come mia sposa, ma fino a un certo punto. Con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele più o meno sempre, per quanto umanamente possibile, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita tranne quando avrò il calcetto».

E la sposa potrebbe rivolgersi allo sposo con queste parole: «Io N., accolgo te, N., come mio sposo, ma senza esagerare. Con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele quasi sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita, tranne quando avrò l’emicrania».

Come potete ben capire, questi non sono che spunti sui quali lavorare, nel segno, ovviamente, di una pastorale accogliente, di una Chiesa in uscita eccetera.

Tornando alla dimensione del gioco, nei corsi di preparazione al matrimonio potrebbe essere utile proporre alcuni insegnamenti di san Giovanni Paolo II (per esempio, «l’uomo e la donna nel matrimonio si uniscono tra loro così saldamente da divenire, secondo le parole del Libro della Genesi, “una sola carne”», oppure «il matrimonio è indissolubile: questa proprietà esprime una dimensione del suo stesso essere oggettivo, non è un mero fatto soggettivo», oppure «l’incomprensione dell’indole indissolubile costituisce l’incomprensione del matrimonio nella sua essenza») e vedere se qualcuno riesce a non ridere. Certo, occorre esercitarsi. Ma statene certi: una volta aperto, questo nuovo paradigma (altra bella parola per giocare un po’) conduce verso orizzonti inesplorati, oltre che molto divertenti.

Aldo Maria Valli









mercoledì 14 febbraio 2018

Perché astenersi dal mangiare carne in Quaresima







Nella sua rubrica di liturgia, padre Edward McNamara LC, professore di Liturgia e Decano di Teologia presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma, risponde oggi a due domande giunte da lettori in Nigeria e nelle Filippine.
Qual è la ragione dietro al divieto di mangiare carne di Mercoledì delle Ceneri e Venerdì Santo? Vi sono origini storiche? Mi chiedo quale sia il legame tra la morte di Gesù e il non mangiare carne. Mi aiutereste per favore? — F.A., Ibadan, Nigeria
Come mai a noi cattolici viene proibito di mangiare carne durante la Quaresima? Esistono tradizioni o fondamenti biblici all’origine di ciò? — D.O., Filippine


Domande simili ci giungono regolarmente, e di conseguenza la mia attuale risposta riutilizzerà elementi di responsi precedenti.
Innanzitutto è necessario distinguere tra le norme del digiuno che per i cattolici di rito romano vanno osservate il Mercoledì delle Ceneri e il Venerdì Santo, e le regole dell’astinenza dalla carne che sono più frequenti.
Nella tradizione della Chiesa, le norme del digiuno hanno principalmente l’obiettivo di definire la quantità di cibo da assumere nei giorni di digiuno, mentre quelle dell’astinenza si riferiscono alla qualità o anche tipologia di alimenti.
La regola del digiuno implica che solo un pasto completo può esser consumato durante il giorno, mentre sono consentiti due pasti leggeri attenendosi alle consuetudini locali per quanto riguarda la quantità e il tipo di cibo.
Mentre il consumo di cibo solido tra i pasti è vietato, in qualsiasi momento possono essere assunte bevande (inclusi tè, caffè e succhi di frutta).
La regola dell’astinenza invece proibisce di mangiare le carni, il midollo e i prodotti sanguigni e la carne di animali e pollame.
In passato la regola dell’astinenza proibiva anche il consumo di ogni cibo di derivazione animale, come latte, burro, formaggio, uova, lardo e salse a base di grassi animali. Nel rito romano questa restrizione non è più in vigore.
È consentito quindi il consumo di verdure e legumi, pesce e simili animali a sangue freddo (come rane, molluschi, tartarughe, ecc.). Gli anfibi infine vengono trattati secondo la categoria alla quale assomigliano di più.
Questa distinzione tra animali a sangue caldo e a sangue freddo è probabilmente il motivo per il quale la carne bianca come quella del pollo non può sostituire il pesce nei giorni di astinenza.
Anche se questa divisione non risolve tutte le questioni che possono emergere in merito alla norma dell’astinenza, le usanze locali e le autorità ecclesiastiche possono fornire delle basi sufficienti per sciogliere i nodi più problematici.
In passato l’astinenza era tecnicamente più rigorosa e si applicava a tutti i giorni della Quaresima. Allo stesso tempo, nell’effettiva osservanza della regola prevaleva e prevale tuttora il buon senso, cioè che deve essere tale da non costituire un onere insostenibile.
È questo il motivo per cui le persone malate, molto povere o impegnate in attività pesanti (o che hanno difficoltà a procurarsi del pesce) non sono tenute a osservare la norma per tutto il tempo in cui persistono queste condizioni.
Le differenze nelle consuetudini, clima e prezzi dei prodotti alimentari hanno inoltre modificato la regola dell’astinenza.
Per esempio, un indulto ha dispensato gli abitanti degli Stati Uniti da astenersi dalla carne nel loro pasto principale durante la Quaresima il giorno di lunedì, martedì, giovedì e sabato.
Un’altra dispensa, del 3 agosto 1887, ha consentito l’uso di grassi animali nella preparazione di pesce e verdura per tutti i pasti e in tutti i giorni. Simili dispense sono state concesse per altri Paesi.
In tempi passati i giorni di penitenza che richiedevano il digiuno e/o l’astinenza erano più numerosi, ma l’attuale diritto canonico (canoni 1250-1253) li ha in qualche modo ridotti.
Il Canone 1250 dice: “Sono giorni e tempi di penitenza nella Chiesa universale, tutti i venerdì dell’anno e il tempo di Quaresima.”
Il Canone 1251 dice inoltre: “Si osservi l’astinenza dalle carni o da altro cibo, secondo le disposizioni della Conferenza Episcopale, in tutti e singoli i venerdì dell’anno, eccetto che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità; l’astinenza e il digiuno, invece, il mercoledì delle Ceneri e il venerdì della Passione e Morte del Signore Nostro Gesù Cristo.”
La Conferenza episcopale può sostituire l’astinenza dalla carne con quella da altri cibi in quei Paesi in cui il consumo di carne è raro o per qualche altra giusta causa.
Le Conferenze episcopali godono anche di ampi poteri, alla luce del can. 1253, per “determinare ulteriormente l’osservanza del digiuno e dell’astinenza, come pure sostituirvi, in tutto o in parte, altre forme di penitenza, soprattutto opere di carità ed esercizi di pietà”.
In Paesi come gli Stati Uniti e l’Italia, i vescovi raccomandano l’astinenza in tutti i venerdì dell’anno. L’astinenza è invece obbligatoria in tutti i venerdì di Quaresima. I vescovi di Inghilterra e Galles avevano introdotto una norma simile ma alcuni anni fa hanno deciso di ritornare alla tradizionale pratica dell’astinenza dalla carne in tutti i venerdì dell’anno.
Mentre l’astinenza è obbligatoria per chi ha compiuto il 14esimo anno di età, il digiuno lo è per tutti i maggiorenni fino al 60esimo anno iniziato.
La maggior parte delle Chiese Orientali, sia cattoliche che ortodosse, hanno regole più severe riguarda il digiuno e l’astinenza, e mantengono inoltre il divieto di latticini e prodotti avicoli.
Nella tradizione bizantina, ad esempio, il grande digiuno quaresimale inizia dopo i Vespri della “Domenica del Perdono” (chiamata anche “Domenica dei Latticini”), cioè la domenica che precede il nostro Mercoledì delle Ceneri, con l’unzione del fedele tramite olio, anziché cenere.
Il nome di “Domenica dei Latticini” si riferisce proprio al fatto che dopo questo giorno i latticini spariscono dalla dieta dei fedeli per la durata della Quaresima. In modo analogo la domenica precedente è chiamata anche “Domenica della Carne”: dopo questo giorno non è più consentito infatti il consumo di carne.
Questo prosegue (per quanto possibile per tutti coloro che ricevono l’Eucaristia) per l’intera Quaresima. La Settimana Santa è ancora più rigorosa, più di astinenza si tratta di digiuno.
Allo stesso modo è proibita la celebrazione quotidiana della Liturgia Eucaristica, ma i fedeli ricevono l’Eucaristia in una liturgia simile ai vespri chiamata “Liturgia dei Presantificati”, nella quale si impiega il Pane Eucaristico consacrato la domenica precedente.
Lo scopo e significato di queste norme dell’astinenza è di educarci alla più elevata legge spirituale della carità e dell’autodisciplina.
Questo proposito spirituale può anche aiutarci a comprendere i motivi dietro all’astinenza dalla carne nei giorni penitenziali. Un tempo era molto diffusa la credenza che la carne provocasse l’eccitamento delle più basse passioni umane. Rinunciare a questi cibi era considerato quindi un eccellente mezzo per dominare la parte più ribelle di sé ed orientare la propria vita verso Dio.
Il fine ascetico e spirituale del digiuno e dell’astinenza può inoltre aiutarci a capire il perché siano stati sempre legati all’elemosina. Ha infatti poco senso rinunciare a una bistecca per poi abbuffarsi di aragosta e caviale. L’idea dietro all’astinenza è quella di scegliere una dieta più semplice e meno lussuosa del normale.
Di conseguenza avremo qualcosa in più da donare a chi è meno fortunato di noi ed anche allenarci a essere liberi dalla schiavitù dei piaceri materiali. Quindi anche un cattolico vegetariano può praticare l’astinenza, sostituendo cioè un elemento tipico, ma costoso, della sua dieta con uno più semplice.
Nei Paesi sviluppati il vasto assortimento di cibi reperibile nei supermercati rende l’osservanza delle norme dell’astinenza relativamente facile. Nella maggior parte dei casi si può rinunciare alla carne e mantenere comunque una dieta semplice ma ben equilibrata.
Tuttavia, mentre cerchiamo di essere fedeli a queste norme dobbiamo sempre tentare di raggiungere le ragioni profonde del digiuno e dell’astinenza, e non fermarci al livello superficiale della regola in sé stessa.
I motivi spirituali per praticare l’astinenza sono stati mirabilmente espressi da sant’Agostino nel suo Sermone sulla Preghiera e il Digiuno: “purifica l’anima, eleva la mente, sottomette la carne allo spirito, rende il cuore contrito e umile, dissipa le nebbie della concupiscenza, smorza gli ardori della libidine e accende la vera luce della castità” (De oratione et jeiuno, serm. 73).
Ciò viene sintetizzato nella IV Prefazione della Quaresima: “Perché attraverso il digiuno del corpo si moderano le nostre colpe, si innalzano le nostre menti, e si conferiscono la virtù e le sue ricompense.”
In breve, la Chiesa impone il digiuno e l’astinenza per aiutarci a liberarci dalle catene della schiavitù del peccato. Più che un obbligo oneroso è un grido di liberazione da tutto quello che ci lega a noi stessi e alle nostre passioni.